«La semplicità, Primo. A volte penso che sia la semplicità che cerchiamo. Rende tutto più chiaro, più autentico. Altro non so vedere. Un cristallo di ghiaccio: fragile, duro,trasparente. Un po' come te»
Una coppia di alpinisti alle prime armi sulle tracce della Grande Guerra ritrova un diario, perduto tra i ghiacci del S. Matteo durante l’omonima battaglia del 1918, che rievoca una vicenda d’amicizia, sofferenza, giovinezza, morte. Attraverso l’intreccio tra passato e presente, tra storia e finzione letteraria, la straordinaria figura di Arnaldo Berni – “Il Capitano sepolto nei ghiacci” del San Matteo – torna a parlarci, a distanza di un secolo, per aiutarci a non dimenticare, al di là di ogni personale o collettiva sconfitta, il senso ultimo del nostro essere uomini.
“Di questo romanzo” – ha dichiarato lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz, membro della Giuria del Premio Mario Rigoni Stern – “mi hanno colpito la semplicità, il nitore da fiaba del nord e il fatto che l’autore sia toscano e uomo di mare, perché è stato capace di descrivere l’alta quota, la neve, il ghiaccio, i cieli rarefatti con una efficacia che pochi abitanti delle montagne avrebbero saputo mettere in campo”.
Primo capitolo
Filone dei Mot: novembre – dicembre 1915
Fino a ieri soltanto ho vissuto di sogni. Come un bambino ho provato a riempire di me il vuoto spalancato sulle crepe dell’incerto. Nel franare del mondo ero io a resistere; perché si è eroi, a vent’anni.
Ero io a morire. Ma non della morte comune che dobbiamo imparare a ingannare, ogni giorno: il corpo affidato alla neve era quello di un altro, spettatore io stesso del mio sacrificio –ignorato. E il senso di tutto è il riflesso di questo immolarsi segreto a un amore impossibile. In fondo basta immaginarle, le lacrime. Per ogni caduto una donna.
Sogni di guerra. Ne ho colmato l’attesa; e quando il momento è arrivato era come se avessi già vissuto tutto. Si doveva partire. Ora ci siamo: degli infiniti futuri possibili un solo presente. E io non ho più futuro.
*
Arranchiamo in silenzio aggrappati alla crosta gelata – formiche in fila a scalare pazienti un resto indurito di pane – la nebbia e il freddo che confondono il nostro respiro, i pensieri. Intorno a noi il nulla: un nulla denso, lattiginoso. Avvertiamo la cresta soltanto nel cedere improvviso del passo – a destra, a sinistra – in direzione del buio.
Mi aspettavo un crinale, su in alto. La linea curva come d’una schiena a suggerire l’ultimo gesto di chissà quale animale scomparso da milioni di anni. E sparse qua e là, a perdita d’occhio, le vertebre intatte delle nostre postazioni a difesa. Con la luce, domani, potremo toccare con mano. Ma forse sarà poca cosa. C’è uno scarto tra sogno e realtà; e per fortuna non sempre si lascia riempire.
Vedo lo zaino del compagno che mi precede, non lui; eppure lo intuisco goffo, come me, negli insufficienti strati e strati di lana. Nient’altro. Se dovessi perderlo la montagna mi inghiottirebbe. Così mi affido; e per una volta non faccio domande. Non ricordo neanche se apriamo o chiudiamo la fila. Tenere il passo, evitando di cedere al vuoto: è uno sforzo che cancella il pensiero, lo riduce a un mozzicone di strofa mille volte ripetuta. Sempre identica, nauseante. Fino a quando il pensiero ritorna per insinuarsi inatteso tra le note modeste di un canto di marcia. È più limpido, ora, e confonde le carte. Trasforma la notte in una fiaba segreta: a ciascuno la sua. Beviamo la nebbia, che le ali funebri dei corvi remano piano piano. Ricorda! – mi dico – Un metro dopo l’altro. Devi solo adattare la scarpa all’impronta che trovi davanti. Ma è inutile. Se ci fosse qualcuno a guardare – dall’alto – vedrebbe uno zampettio confuso nella neve, dietro di noi. E a intervalli un puntino scuro che sbanda.
Chi ci guida conosce il pericolo nascosto in questo abbandonarsi incauto dei corpi?
È un sottotenente. È venuto a prelevarci alla Seconda Cantoniera. Di lui non so nulla: nel nero del pastrano sparivano perfino gli occhi. Non mi aspettavo che ne uscisse una voce assieme al fiato gelato: «Comodi, comodi. Non perdiamo altro tempo. C’è luna, stanotte, e se dovesse alzarsi la nebbia sarebbero guai». Mi è sembrato immenso quando l’ho visto infilarsi sicuro nel buio. E immensamente lontano. Ci conduce attraverso percorsi invisibili fino a un punto sfocato del mondo; noi andiamo, come verso casa. Da quali indizi riconosce la strada? Qual è la sua storia? Non riesco a immaginare un nome, un’età. Deve appartenere da sempre a questa vertigine, come il vento e le rocce scurite – nelle ere –dall’agire segreto dei ghiacci: parte indispensabile e accessoria del tutto.
*
Sbagliavo. Dopo più di tre ore di marcia ci fermiamo – nel nulla – e finalmente posso vederlo: il bagliore del fiammifero che adesso accosta alla pipa rivela un ragazzino, la faccia stanca bruciata dal sole, o dal freddo. Poi i lineamenti si tendono nello sforzo di strappare uno straccio di suono alla mandibola gelata: «Ci siamo, gente. Siete fortunati a essere stati assegnati al Filone. Vedrete: se saprete darvi da fare, qui vi troverete bene». “Qui” dove? Mi chiedo. Ha pronunciato la sua seconda frase e sembra già vicinissimo. Uomo. Che stia prendendoci in giro? Che voglia giocare col nostro smarrimento per stordirci, per confonderci ancora di più e dimostrare – troppo facile – una superiorità che per tutti è scontata? Intorno a noi non si vede nient’altro che notte; e un candore sgomento, senza macchia. Vogliamo riposare, mangiare; è un sogno irraggiungibile un buco, anche un buco soltanto, in cui starcene rannicchiati al caldo. Mi è quasi antipatico. Avvilito lo osservo fumare quando intravedo, come provenisse dal fondo della neve stessa, una luce. Debolissima. Lui coglie il mio sguardo: «Quelli sono gli alloggiamenti di noi ufficiali. I vostri sono qui di fianco. Venite».
Pochi passi e una porta si apre, minuscola, sul fianco della montagna; sul bianco. La neve caduta in serata la rendeva invisibile. Entriamo uno alla volta. Lo sbalzo termico appanna gli occhiali. Si sta bene, là dentro: niente nebbia, né vento. Qualcuno fa luce. Siamo in una specie di galleria costruita nella roccia, bassa e strettissima. Calda. Su un lato tavolacci occupati in gran parte dai corpi – beati – di alcuni soldati che dormono.
L’ufficiale è ora una sagoma scura che si disegna incerta sul vano d’ingresso. Parla a bassa voce, per non disturbare: «Sarete stanchi. Occupate i letti che trovate liberi e riposate. Tra non molto verrete svegliati e potrete buttar giù qualcosa di caldo. A più tardi». Fa per andarsene, accompagnato dal coro sommesso dei «Buonanotte tenente», quando qualcosa lo trattiene – esitante – al di qua dell’uscita: «Ah! Dimenticavo. Io sono il sottotenente Berni – Arnaldo Berni – ma qui tutti mi chiamano Aldo. Vengo da Mantova e sono stato assegnato al Filone ai primi di ottobre. Se volevate il fronte… lo avete trovato. Gli austriaci sono a un passo, credetemi. Loro in cima al crinale, noi in fondo. Ma vi posso assicurare fin da ora che di nemici non ne vedrete poi tanti; di montagna, invece, anche troppa! Più di un mese passato quassù, e mi sembra non abbia mai smesso di nevicare. Speriamo che il tempo migliori, e ci dia un po’ di sole. Buonanotte».
Poi svanisce nel buio. Troppo presto. Non so perché avrei voluto trattenerlo, centellinarne le già scarne parole; fare domande. Le stesse domande che porto con me – confuse – nel sonno; e che non arrivano mai più in là di domani.
*
Il colpo arriva dal fianco, inatteso, e ci costringe a terra: sepolti nella neve o al riparo delle rare rocce sporgenti. All’improvviso si è diradata la nebbia e il riflesso della luna – sul bianco – ha reso le nostre sagome scure più nitide dei bersagli di un tiro a segno a una festa di paese. Prima uscita, di pattuglia verso la cima dello Scorluzzo che è in mano nemica, e già siamo in trappola. Ci sparano addosso, di fronte e di lato, da feritoie invisibili. E noi non possiamo neanche alzare la testa, immobili nei nostri ripari di fortuna.