Settembre 1918. Un telegramma improvviso annuncia a Luisa la scomparsa del suo amato Giuseppe in una battaglia estrema a quattromila metri di quota, nel cuore dell’Alta Valtellina.
Disperso.
Una disperata speranza la porta a trascorrere, accompagnata dal fraterno commilitone Gervasio, una vita incorniciata dalle alte cime intrise di guerra, dove la tormentata ricerca di lui diventa lentamente introspezione, e infine pace.
Il diario di Luisa si intreccia con le intense lettere del giovane alpino in un dialogo che trascende lo spazio e il tempo: insieme raccontano il dolore e l’amore, la montagna e i suoi silenzi, affrontando se stessi con calma determinazione e riscoprendo l’essenza della vita nel ritmo della natura.
Primo capitoloGiovanni Peretti
Romanzo storico
«I vecchi soldati non muoiono mai, svaniscono lentamente» Generale Douglas MacArthur (1880 – 1964)
Schizzi d’inchiostro su un foglio malamente piegato e un po’ sgualcito. Lo apro e un soffio di vento ghiacciato mi appanna gli occhi.
Sono qui sul ballatoio con la cesta dei panni, anche oggi asciugo al vento le lacrime delle mie speranze. I pensieri corrono liberi su aguzze pietre di ghiaccio. Un vociare giù nel cortile mi fa ruzzolare nell’aria di Milano, mi affaccio meglio alla ringhiera, vedo il postino. Caterina piagnucola, mi tira il grembiule e mi ricorda che esiste… — Sì, sì hai ragione, ora ti preparo la pappa!
No, non è un postino, ha una grande borsa di pelle a tracolla come un postino, ma non lo è.
Chiacchiera con la Pia: è anziana, sta tutto il giorno seduta nel cortile, parla con tutti e studia i movimenti delle persone, la sua lingua va più veloce della sua immaginazione. Dopo poco tutti sanno tutto di tutti, e anche di più.
Agitano le braccia e guardano in alto, verso i balconi.
Io l’ho già visto quello lì, è un messo comunale. Cammina leggero, ha scarpe con suole di aria bucate da troppa vergogna, è consapevole del peso che porta. Due settimane fa è stato qui e ha consegnato una lettera a una famiglia del primo piano: ha comunicato la morte del figliolo, era sul Carso.
Chissà a chi toccherà stavolta.
— Signora, signora… — mi volto di scatto.
— Lei è la signora Colombo? — prima ancora che le mie orecchie abbiano trasmesso quelle parole alle mie certezze il cielo crolla nei polmoni e si rifugia dentro.
No, non ci credo, non è possibile. Solo pochi giorni fa ho ricevuto una lettera di Giuseppe, racconta uno strano episodio che gli è accaduto sulla cima di una montagna, di notte: parole dense e pesate, come suo solito.
Non può essere, non è giusto, ha sempre detto che era al sicuro.
Dieci giorni sono passati, dieci giorni di angosce.
Non ho più lacrime, non ho più pensieri. Il vuoto riempie i miei occhi, e nel vuoto c’è solo incredulo dolore. Brandelli di memoria rubano avidamente spazi a un futuro di corvi.
Caterina tiene le mie mani, mi guarda e sembra che mi guardi lui, cerco di sorriderle. Non ha nemmeno due anni, ma comprende l’angoscia dei miei pensieri.
La guardo, è bella: — Come farò a crescerti senza il tuo papà?
Mi fissa, sembra mi legga nell’anima.
I suoi occhi dicono: — Stai tranquilla mamma, ci sono io. Camminerò sempre vicino a te, non ti lascerò mai. E poi non c’è scritto che è morto, è disperso.
Sono venuti a trovarmi i parenti e anche alcuni amici.
Mi hanno molto tranquillizzata. Tutti parlano con voce calma e monotona, stringendomi amorevolmente le mani e sorridendomi dentro agli occhi. Emergono racconti di soldati dispersi improvvisamente comparsi sull’uscio di casa dopo molti mesi dalla sparizione. Credo anch’io che andrà così, che Giuseppe tornerà.
Ho parlato con il nostro parroco: — Fede e forza! — dice con una malcelata aria di rimprovero, quasi provocando in me sentimenti di disagio. Mi accompagna al comando militare, chiedo notizie, ma non riesco a ottenere nulla. Sono tutti indaffarati, corrono a destra e a sinistra: — aspetti qua… si sieda qui… adesso vediamo…
Dopo tre ore ce ne andiamo.
Ho scritto al suo comandante. Sinora ho ricevuto risposte come la probabilità che qui nevichi a ferragosto.
I giorni passano lenti, dilatati, tutti uguali.
Ogni tanto esco sul ballatoio, mi appoggio alla ringhiera e guardo giù nel cortile: la Pia non c’è più, sarà forse malata. Rientro e prendo in braccio Caterina, le canto una canzone sottovoce, come faceva lui quelle poche volte che gli hanno dato la licenza e l’ha stretta fra le braccia, con sguardo di bimbo e la paura di romperla.
Fine novembre. La guerra è finita, ma non per me.
In ottobre ho cercato di salire in Valtellina, dove stava facendo la guerra. Avrei voluto entrare dietro agli occhi dei suoi capi e carpirne verità che non desideravo sentire.
Ho lasciato Caterina a una famiglia giù al primo piano.
Non sono riuscita ad arrivare oltre un paese che si chiama Tirano, in treno: posti di blocco militari dappertutto hanno respinto la mia volontà. Ho rinunciato, e non so nemmeno cos’avrei potuto fare.
Dovevo farlo e basta.
Sono rientrata in casa, in cucina ho bevuto un bicchiere d’acqua e mi sono lasciata andare sulla sedia. Una densa nebbia mi ha fatto girare la testa, ho visto di fronte a me la mia mano stringersi senza che glielo dicessi e un forte pugno si è abbattuto sul tavolo, seguito da un grido strozzato: il mio. Il dolore mi ha invaso.
Quest’inverno ho ricevuto tre lettere da quel commilitone di cui parlava molto spesso, Gervasio si chiama. Dev’essere una brava persona, gli ho risposto e l’ho ringraziato.
Ha uno strano modo di scrivere, di esprimersi, semplice ed essenziale, ma incisivo.
L’ho pregato di darmi tutte le notizie in suo possesso, di dirmi tutto quello che sa, di parlarmi dell’episodio avvenuto su quella montagna, di quel ‘fatto d’armi’ annegato nel cielo a quattromila metri. Era presente anche lui, mi dirà meglio a voce. Voglio fissarlo negli occhi quando mi parlerà.
Appena se ne va via la neve voglio tornare lì, non ci saranno più posti di blocco militari.
Lo cercherò, lo troverò.
Non può essersi dissolto così, nei rimbombi di quella battaglia.
– 1919 –
Oggi è il giorno 18 di giugno del 1919 e sono arrivata qui in Valtellina con la mia piccola. Alloggio presso una signora che ha perso il marito durante la guerra, vive con la sorella, parla poco e tiene sempre lo sguardo rivolto verso il basso. Si accorge che sta piovendo perché vede la terra bagnata, se c’è tempo bello i suoi passi sollevano una piccola nuvola di polvere.
Anche lei è triste.