La storia entra con prepotenza nelle vite di due giovani insegnanti oppositori del Regime Fascista che nel 1935 dalle aule di un liceo formano i loro alunni alla libertà delle idee. Trascinati dall’ardore giovanile, coinvolti in amori problematici e condotti da ideali categorici, che non ammettono compromessi, conoscono il carcere e vivono i drammi della persecuzione razziale e della guerra, fino alla lotta nelle file della Resistenza, sempre più implicati nel dolore collettivo. Non sono eroi: rimangono uomini comuni, alla ricerca di se stessi, invischiati nelle loro vicende private individuali, combattuti tra amori illusori e passioni vere, separati uno dall’altro da contrasti, caratterizzati da debolezze e contraddizioni che li rendono fragili. E la storia, scombinando ogni assetto sociale e umano, ne sottopone a verifica certezze e fedi. In qualche modo li fa crescere. Ma fino a che punto i loro sentimenti e la loro amicizia reggeranno alla prova degli eventi?
Primo capitolo16 ottobre 1935 Anno XIII E.F.
“Di tutte le marce che rallegrarono la nostra penisola, da quella di Quarto in poi, la marcia su Roma è la più gaia, la più numerosa, la più riuscita. Nessun triste incidente la rattrista, tutto si svolge in perfetto ordine fascista.” (Leo Longanesi).
Svolgete il tema commentando i fatti della storia con interventi personali e critici.
Gianni Torazza dalla cattedra osservava i suoi alunni. Qualcuno avrebbe capito, ne era certo. Almeno uno o due dei ragazzi della terza B avrebbero colto l’ironia di quel commento apparso diversi anni prima su L’Italiano, il giornale diretto da Leo Longanesi, commento che lui aveva proposto come enunciato del tema il secondo giorno di quell’anno scolastico 1935- 1936.
L’argomento che la classe doveva sviluppare risultava in linea con i dettami del regime: esaltava l’allegria e l’ordine fascista della marcia su Roma. Nessuno avrebbe potuto eccepire alcunché. Del resto, pensava il professore, per cogliere l’ironia servono intelligenza e sensibilità, qualità che non si poteva dire caratterizzassero gli uomini del regime, che si segnalavano piuttosto per volgarità e grettezza. I ragazzi del liceo genovese in cui insegnava, invece, in quegli anni stavano imparando, sotto la guida di diversi insegnanti non conformisti, la necessità di sottoporre a vaglio critico ogni giudizio, per quanto fosse difficile risultare immuni dalla retorica del fascismo. Di fronte a quell’affermazione di Longanesi, alcuni avrebbero dovuto appunto sfrondare la retorica dalle parole, come lui stesso li aveva educati a fare.
Gianni si domandava costantemente quanti di loro fossero in grado di distinguere negli eventi di quegli anni la verità dei fatti dalla ricreazione opportunisticamente deformata di essi. Ci aveva provato ogni giorno in classe a mostrare l’ipocrisia del regime. Aveva posto di fronte agli occhi dei suoi alunni quei libri di testo, dove delle epoche della storia venivano messi in luce gli aspetti più congeniali agli ideali di imperialismo, violenza e razzismo sostenuti dalla dittatura. «Stanno strumentalizzando il nostro passato. Aprite gli occhi, ragazzi» li aveva ammoniti spesso.
«Perché professore? Per quale motivo farebbero questo?» aveva chiesto un giorno con una nota di scetticismo Mariani, uno dei più impegnati tra gli Avanguardisti.
«Per attribuire alla nostra storia, o per cercarvi, i valori che il regime sostiene e che vogliono indurci a condividere. Non è difficile capire gli intenti e i modi della propaganda. Ne abbiamo già parlato, Mariani. Non se lo ricorda?»
Poi, visto che Mariani non rispondeva, aveva proseguito: «La romanità e il Rinascimento sono le epoche del nostro passato la cui immagine il regime sfrutta di più. La storia di Roma, la sua potenza, le conquiste, la gloria che ha raggiunto diventano il modello per il nuovo Impero che sta progettando. Così voi senza quasi avvedervene finite col riconoscervi in esso. Ma non basta. L’esaltazione degli artisti del Rinascimento mira ad accendere lo spirito nazionalistico. Tutti i capolavori delle arti rinascimentali incarnano il valore della nazione, la distinguono dalle altre, la rendono eccellente. E voi diventate nazionalisti.»
La sua era una lotta costante contro quella propaganda subdola e insistente che era rivolta in larga misura ai giovani proprio attraverso la scuola. S’insinuava sottile, attraverso le immagini e gli slogan: il moschetto disegnato sulla copertina del quaderno, l’aratro e la spada su quella dei libri riservati alle scuole rurali. Libro e moschetto, fascista perfetto. È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende.
Da quel 28 ottobre del 1922, quando il re aveva aperto le porte di Roma a Mussolini, erano passati ormai tredici anni, durante i quali il Fascismo aveva prima acquisito il potere legale, poi con il delitto Matteotti aveva mostrato il suo vero volto, trasformandosi in dittatura e infine giorno dopo giorno era entrato nelle menti della popolazione. Era questo che più spaventava Gianni, come professore e come uomo, il potere che la propaganda fascista esercitava soprattutto sui giovani, le cui menti venivano controllate, influenzate, guidate.
Ora era iniziato l’attacco all’Etiopia. Si sentiva nell’aria un entusiasmo nazionalistico, lo stesso che riempiva le pagine dei giornali. Si esaltavano gli animi nel grido irrazionalistico della guerra: la situazione era nuova, ma il mito era sempre lo stesso, quello dell’aggressione, della violenza. Lo stesso mito che aveva guidato le camicie nere nella loro marcia sgangherata verso la capitale.
«Professore, ma o Roma o Orte chi l’ha detto?» gli domandava Ardenzi, secondo banco, fila di destra.
Dunque qualcuno ricordava quei commenti che, sottoforma di critica storica e con le parole di giornalisti dell’epoca, aveva proposto all’attenzione della classe.
«Pare sia stato Maccari, il giornalista.»
«La frase originale, o Roma o morte, invece, è di Garibaldi, è vero professore?» interveniva Rossello, con il solito tono saccente e puntiglioso del primo della classe.
Mentre il professore assentiva, «Maccari quindi ha partecipato anche lui alla marcia su Roma...» riprendeva Ardenzi. «Però non so più cosa vuol dire quella frase...»
«La meta, o meglio l’obiettivo, è sempre Roma, come per Garibaldi, ma questa volta sono le camicie nere a marciare verso la capitale» chiariva Gianni. «Per il blocco dei nodi ferroviari nei pressi di Roma, gli squadristi restano però bloccati a Orte, e Maccari, che pure è uno di loro, con la riflessione dell’intelligenza e la sagacia della critica, avverte il ridicolo della situazione. Quegli uomini disarmati, fradici e affamati, partiti per conquistare il potere con una forza che non possiedono e che pure sono convinti di avere, sono così sprovveduti da non rendersi conto della fragilità dell’armata disarmata che formano, mentre i loro capi, animati dall’arroganza del potere, perdono la cognizione della realtà. Perciò restano lì sotto la pioggia ad aspettare un ordine che non arriva fino al momento in cui il re sospende lo stato d’assedio e conferisce a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Allora le porte della città si aprono ad accoglierli. E le camicie nere sfilano in trionfo per le vie di Roma.»
La stessa arroganza con cui Mussolini aveva preteso il governo aveva animato il suo discorso del 2 ottobre di quel 1935 alle forze del regime e al popolo d’Italia. Dal balcone di piazza Venezia: «Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!» aveva proclamato, mentre la radio trasmetteva le sue parole in tutta l’Italia e la folla applaudiva. Avevano ascoltato insieme Gianni e Aldo, il suo amico e collega, quelle parole e le acclamazioni e ne erano stati angosciati. Perché l’entusiasmo della folla faceva loro paura, in quanto - pur senza comprenderne fino in fondo le ragioni - intuivano che quella per cui ci si era incamminati era una strada pericolosa per il Paese.
Il giorno seguente era iniziata la guerra, una guerra che il duce giustificava come rivendicazione della sconfitta subita dall’esercito italiano nel conflitto d’Abissinia. Le truppe del generale De Bono avevano invaso l’Etiopia attraverso l’Eritrea, mentre quelle del generale Graziani entravano dalla Somalia. L’11 ottobre la Società delle Nazioni aveva deliberato provvedimenti di sanzione contro l’Italia.
Erano passati solo pochi giorni da quella data e ancora non si conosceva quali sarebbero stati l’oggetto e l’esito del blocco economico, anche se si temeva un embargo severo. Gianni pensava che in classe fosse troppo presto per sottoporre alla riflessione degli studenti quell’ultima azione del regime: l’impresa coloniale con l’eco di glorificazione retorica che l’accompagnava non avrebbe potuto che esaltarli. Serviva il distacco del tempo trascorso sul fatto compiuto per permettere un’analisi libera almeno dalle influenze emozionali: ora, dopo tredici anni, forse gli alunni potevano cominciare a capire qualcosa della marcia su Roma. Per parlare dell’attacco all’Etiopia, bisognava che almeno la guerra fosse finita. Invece era appena iniziata. Oltre a tutto, il Fascismo in quegli anni aveva attratto anche i giovani: dopo la battaglia del grano, che grazie all’introduzione dei fertilizzanti aveva incrementato di molto la produzione, si era iniziata la bonifica delle terre paludose, da Catania al Piave, dalla Maremma alla Sardegna. Ma il fatto che aveva ottenuto maggiore risonanza era stata la costruzione di due città, Sabaudia e Littoria; e la retorica del regime proclamava si sarebbero edificati altri centri negli anni a venire là dove il mare creava acquitrini malsani.
D’altra parte - ma gli italiani sembravano non essersene quasi accorti - il regime, con la legge Rocco, sin dal 1926 aveva attuato una forma di sindacalismo fascista, che aveva soppresso i sindacati antifascisti, costituendo al loro posto le Corporazioni e non a tutti doveva apparire chiaro che queste ultime erano organi statali controllati dal Gran Consiglio del Fascismo. Aveva anche abolito il diritto di sciopero. E anche questo era passato sotto silenzio. Poi aveva proclamato contro l’inflazione la battaglia della lira, facendole raggiungere la quota 90 nel cambio con la sterlina, per mantenere la quale era stata necessaria una politica di austerità che si era espressa fondamentalmente nella riduzione dei salari. Allora gli italiani finalmente avevano aperto gli occhi e gli scioperi, pur vietati, erano ripresi, promossi dalla clandestinità da quelli che Gianni, rivolgendosi ad Aldo, definiva “i tuoi compagni comunisti”. Comunque a pagare erano le classi più umili che accettavano la riduzione dei salari condizionate dalla propaganda insistente del regime e da alcuni provvedimenti allettanti, come le ferie pagate e la conservazione del posto in caso di malattia.
«Consegno, professore» aveva detto Mariani avvicinandosi alla cattedra. «Non so però se le piacerà quello che ho scritto…»
«Non si preoccupi Mariani. Sa bene che qui non si giudicano le idee, ma la coerenza. In questa classe il pensiero è libero» gli aveva risposto Gianni.
Mariani era già tornato al banco e raccoglieva i libri preparandosi a uscire, quando la porta si spalancò e il Preside condusse con l’autorevolezza monumentale del suo incedere un primo passo all’interno dell’aula.
Immediatamente concentrò l’attenzione sull’enunciato del tema trascritto sulla lavagna. E capì quello che doveva capire. «Bene, professore. Ottima scelta quella di ricordare l’inizio delle nostre glorie. A maggior ragione oggi che i soldati delle coraggiose armate fasciste combattono per riconquistare all’Italia un impero oltremare.»
Gianni Torazza non aveva risposte che potessero soddisfare il suo dirigente. Soffocò un sorriso, mentre lo squillo della campana annunciava la fine della mattinata di scuola liberandolo da quella situazione imbarazzante. Il Preside infatti con un cenno indicò agli alunni che potevano uscire e si fece da parte per permettere loro di accedere alla porta.
Ma, quando tutti furono fuori, il Preside, che non aveva nessuna intenzione di andarsene, «Abbiamo un problema, professore» enunciò con fare grave e misterioso.
Gianni intuì immediatamente l’essenza della questione: non poteva essere che il suo più o meno manifesto antifascismo. Sapeva del ruolo di delatore di Santi, il collega insegnante di Educazione Fisica, ex squadrista, esaltato, pieno di boria e millantatore, assai pericoloso anche perché del tutto privo di capacità di giudizio autonomo. Inoltre era a conoscenza della bravata di tre alunni della seconda B, anche quella una sua classe. Carlini, Rossi e Delucchi durante un’ora di lezione, mentre l’insegnante in cattedra veniva convocato in Presidenza per comunicazioni del Preside, avevano imbrattato la parete di un corridoio con scritte che avevano suscitato un’eco dilagante. La polemica di ora in ora cresceva e si allargava a coinvolgere nuovi imputati.
«Avete mai pronunciato in classe le parole che sono state scritte sulla parete del corridoio, professor Torazza? Insomma sono vostre quelle frasi?» chiedeva il capo d’Istituto.
Non erano propriamente suoi quei versi, si giustificava Gianni, ma in classe erano venuti fuori dalla sua bocca, certo, mentre traduceva una lirica di Alceo. Non aveva aggiunto alcun commento che potesse attualizzare il ritratto del condottiero: a quello i suoi alunni erano pervenuti da soli. E in fondo l’immagine proposta da Alceo era spiritosa.
Non vo’ d’alta statura un condottiero
Maestoso incedente,
Né di bei ricci adorno,
Né raso acconciamente:
Picciol sia pure, sia di gambe storto
In vista, ma in pie’ saldo, ardito, accorto.
Era stato divertente anche leggere quei versi sulla parete del corridoio e coglierne l’ironia e soprattutto lo aveva soddisfatto capire che alcuni studenti non solo erano in grado di giudicare quello che stava accadendo in Italia ma anche, per quanto era nelle loro possibilità, provavano a reagire.
«Sono versi di Alceo, signor Preside. Sì, certo, li abbiamo tradotti in classe.»
«Bene. Per quale motivo li avete scelti? Perché questi versi?»
«Non li ho scelti. Abbiamo tradotto anche molti altri frammenti.»
«Con questo vorreste negare una vostra intenzione denigratoria nei confronti del nostro Duce?»
«Assolutamente» rispose deciso stringendo le labbra a nascondere il sorriso che gli si stava stampando sopra. «Comunque sono certo che Santi sarà più preciso di me. Di sicuro sarà informato su tutti i passi che sono stati letti in classe.»
Allora il Preside si fece da parte.
Mentre Gianni scendeva le scale, in fondo soddisfatto perché il liceo restava un luogo di cultura e libertà, Aldo lo raggiunse.
«Tua sorella è tornata?» gli domandava.
«Ancora no» rispondeva Gianni. Per una volta senza ironizzare sull’interesse che Aldo manifestava nei confronti della propria sorella Anna.
«Non corre rischi a raggiungere tuo fratello in Francia?» continuava Aldo un po’ preoccupato. «L’OVRA potrebbe già averla presa di mira.»
«Siamo tutti sorvegliati ormai, a maggior ragione con un fratello come il mio, che ha dovuto lasciare l’Italia per non finire al confino o in una cella. Certo che l’OVRA terrà d’occhio anche lei, ma mia sorella è davvero fuori da tutto. La politica non le interessa, anzi fatica a capire la lotta di mio fratello e di mio padre. Ora ha raggiunto Giuseppe solo per rivederlo. Perché lui, finché non abbattiamo il regime, non potrà rientrare in Italia. Ecco, forse però un rischio lo corre Anna, ed è quello che mio fratello le affidi delle copie di Giustizia e Libertà da portare in Italia. Svelare sul giornale di Rosselli gli obbrobri del fascismo è diventata la ragione di vita di Giuseppe e non si rende conto dei rischi che si corrono a far circolare in Italia quei fogli.»
«Ma tu da che parte stai? Sei con Rosselli o stai con noi comunisti?» insistette a chiedergli Aldo.
«Devo dire che Rosselli mi piace. Solo lui poteva riuscire a portare Turati fuori dall’Italia, con quell’avventura da brivido, per poi tornare, sfidando i Fascisti, finire a Lipari, evadere, fuggire a Parigi… Per quanto riguarda il movimento, alcune delle idee di Giustizia e Libertà le condivido, come quella di coinvolgere nella rivoluzione anche i ceti medi... perché quello operaio non è ancora pronto. Le nuove generazioni, poi, hanno subito troppo forte l’impronta del fascismo. Si devono formare dei quadri, come sostiene lui, e il comando deve essere affidato agli intellettuali, a cui spetterà poi il compito di educare e guidare le masse operaie… Però io non mi riconosco del tutto neanche in questa formazione politica…»
«Comunque ammetti che GL ha una connotazione intellettuale e borghese?»
«Non è questo il punto. Prova a andare all’Ansaldo e parla con gli operai. Vedrai quanti di loro sono pronti per la rivoluzione. Ma non si tratta solo di attribuire un carattere al movimento: Rosselli critica l’attendismo di socialisti e comunisti che lasciano campo libero all’aggressività e all’imperialismo dei regimi. E non parla solo di Mussolini. Anche su questo sono d’accordo. Sono riuscito a leggere il numero di “Giustizia e libertà” del 4 ottobre. Me lo ha fatto avere mio fratello tramite un suo emissario che lo ha portato da Parigi. Accusa il duce di follia megalomane e criminale e gli attribuisce la responsabilità dell’attacco all’Etiopia, che definisce una guerra privata e non dell’Italia. Capisci? Rosselli e i suoi, compreso mio fratello, non vedono altra strada che quella della lotta: d’altra parte, quando Hitler ha preso il potere, Rosselli aveva minacciato un futuro di guerre. E mi sembra che ci stiamo avviando proprio in questa direzione.»
«Continuo a non capire con chi stai...»
«Con il pensiero libero, Aldo, di questo sono sicuro. Per il resto non so: vorrei essere in grado di riconoscermi in uno schieramento e condividerne fino in fondo le idee e la lotta. Ma non sono capace di seguire ciecamente le direttive e i programmi di un partito e lottare quando me lo dicono. Può darsi che un giorno io trovi le motivazioni per condurre una lotta armata. Ma, se lo farò, difficilmente sarò inquadrato in una formazione politica. Sono antifascista perché mi disturba l’ipocrisia e odio l’autoritarismo e la violenza, perché trovo ridicola la scenografia dell’apparato del regime e mi fa paura il meccanismo burocratico su cui si regge, fatto di gente ottusa e ignorante che ha un’unica religione, quella della forza. Sono antifascista e cerco di creare nei giovani un’anti-opinione... Almeno ci provo. Sono antifascista e basta.»
«Peccato. Speravo ancora di farti diventare dei nostri. Ma non importa. Prima o poi capirai che è questa l’idea giusta. Allora andiamo al bordello, oggi? Sono arrivate le signorine della nuova quindicina: sono curioso di vederle.»
Gianni lo guardò con aria critica. Aldo era passato dal chiedere notizie di Anna alla proposta del bordello. Sì che di mezzo c’era stata la discussione politica, ma anche quella era stata superata con facilità. Se fosse stato un altro a fare quel discorso, si sarebbe risentito, ma con Aldo no. Aldo era superficiale, forse. O era solo diverso da lui. Comunque Aldo era così. «Sì andiamo. Ho voglia di festeggiare» rispose dopo qualche minuto di silenzio. «Hai visto i versi scritti sulla parete del corridoio?»
«Grandi i nostri ragazzi! Ma di questi versi la matrice sei tu.»
Gianni Torazza rise divertito. «Alle cinque?»
«Alle cinque» concordò Aldo.
Era mercoledì, un giorno infrasettimanale in cui difficilmente si sarebbe corso il rischio di incontrare in sala qualcuno degli alunni della terza a fare flanella: di solito avveniva il sabato che gli studenti ricercassero nel fascino eccitante delle persiane chiuse del bordello lo sfogo anche solo virtuale della loro sessualità. Disturbava molto Gianni trovare lì i suoi ragazzi, cosa che un paio di volte era capitata: lo imbarazzava salire in camera con una delle signorine mentre i più intraprendenti tra gli alunni restavano a guardare forse anche ridacchiando alle sue spalle. Ma il pomeriggio al bordello valeva il rischio. Si poteva anche scegliere una casa diversa: invece che in vico Castagna andare in un altro bordello della zona di Porta Soprana o del resto della città. Ce n’erano parecchi. Gli studenti comunque li frequentavano più o meno tutti. Il Dragone, il Sottomarino, il Sommergibile, che forse era il più a buon prezzo. Gli unici bordelli dove si era sicuri di non trovarli erano il Lepre, perché preferito dai gerarchi fascisti, e la Suprema, la casa chiusa di Galleria Mazzini, perché troppo chic. Ma Aldo e Gianni avevano l’abitudine di andare al Castagna.