L'ottocento sta per terminare. A Larderello, villaggio industriale costruito tra i vapori bollenti della “Valle del Diavolo", il direttore della società boracifera Le Manier & C., Armand Thibault, viene ucciso con due colpi di fucile. Il principe Luigi Anzecchi, appena nominato responsabile della società, suo malgrado, deve confrontarsi con la tragedia e calarsi nei panni dell'investigatore. La dinamica dell’omicidio sembra scontata, tutto fa pensare che a uccidere il direttore sia stato Falcino, al secolo Ercole Liberati. Armand Thibault, qualche mese prima, ha fatto licenziare Falcino per l’aggressione compiuta nei confronti di Odoacre Fusini, incaricato dallo stesso direttore di proporre l’assunzione alla villa della ragazzina che lo stesso Liberati ha preso come figlia. A licenziamento avvenuto Liberati, spinto anche da antichi rancori, ha reagito uccidendo Odoacre Fusini, dandosi poi alla macchia. Dopo quell’uccisione, dunque, sembra scontato che Falcino possa essere l’autore anche dell’omicidio del direttore. Ma il principe Anzecchi con l'aiuto del maresciallo dei regi carabinieri Sisto Piantini, rielaborando le esperienze vissute insieme al Thibault e gestendo un rapporto movimentato con lo stesso Falcino, riesce a venire a capo del misfatto, dimostrando che non sempre ciò che sembra scontato è anche vero. Utilizzando tutto il cinismo proprio degli uomini d'affari, Anzecchi troverà una soluzione soddisfacente anche per salvaguardare il buon nome della società Le Manier & C. “Il Diavolo non abita qui” oltre a raccontare una storia impregnata di mistero, offre uno spaccato intrigante di una delle storie industriali più singolari d’Italia; la storia dell’industria boracifera di Larderello alla fine del 1800.
Primo capitoloPrologo
1 – Prima il dopo
Mattino del 29 aprile 1899 – Bagno a Morbo, abitazione del direttore.
Sentì ancora i vetri tremare sotto la spinta del vento. Ormai sveglio, Armand Thibault decise di alzarsi, nonostante l’orologio sul comò non segnasse ancora le sei. Barcollò verso la finestra e scostò lo scuro, ma il buio ancora impenetrabile gli impedì di scorgere la fabbrica. Da qualche tempo aveva un tarlo nella testa e durante la notte bastava un niente perché iniziasse a rodergli l’anima; a quel punto ritrovare il sonno diventava impossibile e dentro di sé, come ondate contro la scogliera, iniziavano ad avventarsi i tormenti della giornata: il poco tempo a disposizione, le grandi responsabilità, la premura per gli impegni inderogabili e l’ansia di far funzionare bene le caldaie erano le montagne da scalare che lo facevano arrivare al punto di non riconoscersi più. Lui… il direttore della fabbrica, proprio lui che non poteva permettersi cedimenti.
Si voltò verso la porta, fece un passo e si trovò di fronte allo specchio del comò. S’avventurò tra le pagliuzze verdi degli occhi nel tentativo di leggervi qualche risposta sfuggita alla mente.
Non vide che inquietudine.
Si passò una mano sulla barba folta e la sentì più ispida del solito. Doveva lavarsi la faccia. Quella mattina c’era qualcosa che alimentava ancora di più l’irascibilità e il malessere che ormai lo avvelenavano sempre più spesso. Essere il direttore delle nove fabbriche dell’acido borico doveva essere un onore, per lui lo era sempre stato. La “Società Le Manier & C.” sin dagli inizi dell’Ottocento era una delle più blasonate industrie d’Italia. I Le Manier in quegli ottant’anni di vita industriale avevano ricevuto grandi onori dai Granduchi di Toscana e ora persino dal Re d’Italia.
Umberto I, proprio in quei tempi di profonda crisi, aveva voluto dimostrare la sua benevolenza per quell’industria così meritevole, inviando solenni messaggi di congratulazioni. Dunque perché preoccuparsi? Ma Armand sapeva bene il perché. Non era poi così semplice rimanere virtuosi in quel momento di incertezza e di dissesto sociale. Non era passato nemmeno un anno da quando a Milano, lo stesso Re aveva fatto sparare contro la folla con i cannoni per sedare la rivolta contro la tassa sul macinato. E anche lì a Larderello, l’impegno stava diventando ogni giorno più arduo. Si sentiva come un funambolo al quale rimpicciolivano sempre più la corda sulla quale stare in equilibrio. La concorrenza sul mercato, con l’arrivo delle boraciti americane, s’era fatta davvero spietata e ogni intoppo nella produzione poteva mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’impresa.
Forse per questo adesso gli frullava in testa solo il problema segnalato il giorno prima da Giuseppe Guerra. Il caposquadra s’era prodigato a girare valvole, ma la quantità di vapore nelle tubature delle caldaie dei vasconi di San Marco aveva continuato a diminuire e il calo di produzione era stato inevitabile. Era quello il motivo che lo inquietava e gli aveva impedito di riprendere sonno?
Armand con rammarico abbandonò lo specchio, si trattenne un attimo; era indeciso. Poi, preso dall’assillo di risolvere il problema, si avviò in direzione del bagno per prepararsi a uscire il prima possibile. Entrò e si fermò davanti alla toilette. Un attimo dopo, con impeto, chiamò Loretta; la brocca dell’acqua era ancora vuota e lui aveva fretta di andarsene. Il principe Luigi Anzecchi, fresco d’investitura alla guida della Le Manier & C., gli aveva chiesto di occuparsi del problema e certamente avrebbe preteso un resoconto a fine giornata.
Armand fece spazio a Loretta che, trafelata, arrivò in bagno con tutto il necessario per la toeletta. La lasciò predisporre il servizio poi, guardandola con disprezzo, le disse: — Vedi che ho ragione io… non sei più attenta.
— Non è vero signor Armand, io cerco di assecondarvi in tutto, siete voi che non mi volete più. E questo da quando…
— Zitta! E vattene via! — gridò lui con rabbia, allungando una mano nel gesto di colpirla.
La vide allontanarsi singhiozzando, alzò lo sguardo allo specchio e si sentì un verme. Era più forte di lui, quando la rabbia gli montava dentro, la realtà si modificava spingendolo a rifugiarsi negli istinti più bassi. In quel momento gli apparve il viso austero di sua moglie Luise; lei era l’unica che riusciva a tenergli testa e forse, proprio per questo, non vivevano sotto lo stesso tetto. Luise infatti non voleva saperne di trasferirsi in quel luogo così selvaggio. Non per niente la chiamavano “Valle del Diavolo”. Non c’era il ben che minimo agio e il continuo evaporare d’acque bollenti che saliva al cielo dai lagoni e dalle caldaie faceva apparire quel luogo come l’anticamera dell’inferno. Così avevano preso un appartamento a Pomarance dove lei risiedeva regolarmente e lui vi si recava solo nei fine settimana.
Armand, già amareggiato a quell’ora, si impose di non pensare più. Con irruenza infilò le mani nella bacinella e si sbatté l’acqua sulla faccia.
Uscì dal portone e oltre le colline vide l’albore del sole spennellare l’orizzonte. Abbottonandosi il paltò, si diresse verso Larderello. Oltrepassato l’arco di uscita dal caseggiato, si voltò a guardare verso la valle. Il canneto, ondeggiante al vento, gli chiudeva la vista e solo sforzandosi un po’ riuscì a intravedere la cima del campanile. Delle rabbiose folate di vento alzavano la polvere e facevano assottigliare le palpebre. Con riluttanza decise di alzare il bavero; era pur vero che si sarebbe sentito infagottato, ma non voleva ritrovarsi col fazzoletto fisso sotto al naso. Senza rendersene conto, aumentò il passo chinando un po’ la figura in avanti per esporsi meno possibile al vento.
Un cavaliere avvolto in una giacca grigia stava chino sulla sella, al riparo di una folta siepe di tamerici dalle mazze cadenti che, in balia del vento, lo sferzavano di continuo. Sembrava addormentato, ma non poteva essere più vigile di così. Era nascosto già da prima che facesse chiaro, nel luogo più opportuno per non essere visto dalla strada, la stessa che il direttore percorreva per recarsi a Larderello. Conosceva le abitudini del Thibault e sapeva che ogni mattina amava fare quella passeggiata. Sapeva anche di dover concludere tutto ciò che aveva in mente prima del suo arrivo ai vasconi di San Marco. In quel luogo il direttore incontrava regolarmente il caposquadra Giuseppe Guerra per proseguire insieme il giro delle caldaie e dei fornelli.
Il cavaliere, con lo sguardo fisso sul grande arco che si apriva nella facciata dell’antico caseggiato delle terme del Bagno a Morbo, ebbe un sussulto. Un uomo era comparso a lato del passaggio e avanzava costeggiando il muretto di mattoni che sosteneva la carreggiata. Aguzzò lo sguardo e, nonostante l’uomo avesse il volto nascosto nel paltò, riconobbe subito il direttore. Sentendo salire i battiti nel petto, attese finché Thibault non scomparve oltre la curva. Poi, con trepidazione, portò le mani alla doppietta, aprì la bascula e controllò le cartucce. Tutto doveva funzionare nel migliore dei modi. Richiuse il fucile e liberò i cani dalla sicura, infine accarezzò il cavallo; era determinante che rimanesse tranquillo. Con delicatezza lo incitò coi talloni e lo spinse in avanti e, procedendo a passo, si tenne fuori dalla vista del direttore. Svoltata la curva che immetteva sulla spianata dei vasconi, aumentò l’andatura. Giunto a un centinaio di metri dal Thibault fermò il cavallo, imbracciò il fucile e prese la mira. Subito dopo con voce potente gridò: — Armand!
Lo vide voltarsi; avrebbe voluto essere a due passi per vedere la paura inondargli gli occhi, ma da quella distanza non poté togliersi la soddisfazione. Ebbe un ultimo sprazzo di ragionevolezza, poi i pensieri fuggirono a rincorrere troppe malinconie e la mente si vuotò. Una rabbia sottile si aggiunse alla determinazione e l’indice si abbatté con forza sui grilletti. La doppietta rinculò contro la spalla e scaricò in sequenza entrambe le canne. Il direttore si accasciò a terra senza un grido: le terzarole avevano fatto bene il loro lavoro. Si lasciò tentare dalla voglia di avvicinarlo per vedere con quale faccia si fosse presentato al Creatore. “Ma quale Creatore?” si domandò. Se lassù qualcuno stava davvero aspettando Armand Thibault, non poteva essere che il Diavolo in persona, e non solo perché viveva in quella valle infernale.
Stava per spingere il cavallo in avanti quando vide il fisico dinoccolato del Guerra che arrivava dalla salita. Senza indugiare oltre, strattonò le briglie e fece voltare l’animale poi, con veemenza, lo spronò mettendolo al galoppo. Armand Thibault aveva avuto quello che si meritava.