Il lucido resoconto analizza le componenti storiche che portarono ad accumulare le invidie e l’odio che sfociarono nel 1620 nei sanguinosi eventi, che Cesare Cantù definì “Sacro Macello”.
I cattolici trucidarono, fomentati in nome della croce, oltre 600 valtellinesi di parte protestante nel contesto di una rivolta filospagnola contro la Repubblica delle Tre Leghe che allora controllava il territorio valtellinese.
Così Cesare Cantù definisce nel 1832 la rivolta del 1620.
«lotta male avviata nel cominciamento, crudele nell’atto, inutile nel fine. Quegli uomini, supperstiziosi non religiosi, se la religione sta in benevolenza d’affetti e santità d’opere, dopo compiuto il gran delitto... dovevano da se stessi difendersi fra le barriere de’ loro monti»
«L'insegnamento, tanto coraggioso quanto attuale, del Cantù forse dovrebbe essere di stimolo per nuove e più complete indagini sull'argomento e sul periodo, che prendano in esame anche le ricerche locali, finora molto trascurate; tanto meglio se la cosa coinvolgerà anche studiosi Valtellinesi e Grigioni. L'importatnte materiale archivistico atende di essere esplorato.»
Diego Zoia
Primo capitolodi Diego Zoia
La ripubblicazione, a distanza di un secolo dall’ultima edizione, della celebre opera del Cantù, che contribuì in modo determinante a far conoscere al grande pubblico le vicende della Valtellina durante la Guerra dei Trent’anni e fu oggetto di vive polemiche, costituisce una scelta coraggiosa e tempestiva.
Non è infatti facile neppur oggi a ormai quasi quattro secoli dai fatti, così come non lo fu per il Cantù nel secolo scorso, il tentativo di un approccio distaccato ad un argomento tanto tragico quanto finora oggetto - forse inconsciamente - di una sorta di «processo di rimozione» da parte degli storici locali e letto troppo spesso con gli occhiali deformanti del confessionalismo. Dall’una e dall’altra parte, va aggiunto: perché alle ricorrenti pseudo-giustificazioni postume del «Sacro Macello» (magari con pedissequa beatificazione «ante litteram» dell’arciprete Rusca) di parte cattolica si è contrapposta una vasta libellistica di scrittori di fede riformata che enfatizzarono i pur terribili fatti del 1620 presentandoli come una immotivata rivolta contro un governo savio e legittimo e come una terribile strage di Grigioni; cose entrambe quanto meno opinabili.
D’altro canto sembrano però ormai mature le circostanze, in relazione sia ad un rinnovato interesse per l’argomento da parte degli storici contemporanei (per tutti basti ricordare i volumi recentemente pubblicati dalla fondazione del «Credito Valtellinese» ed in particolare quello curato da Sandro Massera, meno scontato nell’approccio e più rigoroso nella trattazione) sia a spinte ecumeniche che sembrano ormai aver ragione definitiva delle sterili contrapposizioni di facciata, per un riesame sereno degli accadimenti che videro la Valtellina (e, in misura minore, la Valchiavenna), nel terzo e quarto decennio del secolo XVII, al centro della politica europea.
Cosa che, con la capacità di sintesi, il rigore morale e l’equilibrio nei giudizi che ne contraddistinguono l’opera, già tentò di fare nel secolo scorso il Cantù.
Con risultati, però, che se furono per lui positivi sul piano strettamente editoriale (molteplici edizioni in un periodo di diversi decenni, compresa quella nella «Biblioteca Universale» della Sonzogno, nel 1885) lo furono assai meno su quello dei rapporti con l’autorità religiosa, ai quali il Cantù, da cattolico sincero e convinto (con venature addirittura clerico-conservatrici nella sua attività parlamentare), era interessato in modo particolare.
Il suo rigore di storico, la sua indipendenza di giudizio e la sua apertura ai temi sociali, tanto più se applicati ai delicati temi trattati, non erano però certo graditi alle gerarchie ecclesiastiche del periodo, timorose del diffondersi delle nuove idee che il «cattolicesimo liberale» propugnava.
Per diversi decenni, e proprio in relazione alla pubblicazione del «Sacro Macello di Valtellina», la polemica fu viva, soprattutto con gli Arcivescovi di Milano Gaisruck e Romilli e con il giornale diocesano, oltre che con la «Civiltà Cattolica».
In particolare la titolazione dell’opera, certamente di larga presa sul pubblico ma per certi versi traumatica, unita alla libertà con la quale l’autore trattò della nascita del movimento riformato e dell’espandersi del Protestantesimo nella Rezia e nei territori soggetti al di qua delle Alpi, suscitarono la riprovazione dei cattolici conservatori: leggi la gerarchia.
Ad un passo del Cantù nel quale si ricordava che «la riforma religiosa...non minacciava meno Cesare che Pietro: in conseguenza le due Podestà si accordavano nel pericolo comune, prestandosi a vicenda la persuasiva e le armi per restringere le conquiste del pensiero» reagiva infatti con violenza il giornale diocesano affermando «il signor Cantù ricade qui in un suo mal vezzo abituale...rimproveratogli...a proposito del suo Sacro Macello (non è felice nei titoli) di Valtellina: di quali conquiste del pensiero intend’egli parlare dovute alle novità luterane, e calviniste?...la così detta riforma, vera desolazione e contaminazione del mondo moderno, non allargò le conquiste del pensiero, sibbene l’impero dell’errore: errore, tenebre, vizii son esse quantità positive che ammettano conquiste, o non suonan piuttosto perdite e sconfitte?».
Il Cantù si lamentò con l’arcivescovo del trattamento ricevuto, ricordando che «la prima volta che il mio nome fu proferito dal giornale che si pubblica sotto i suoi auspici, vi trovai non la carità che batte e corregge, ma la stizza che denuncia e denigra» e ribadendo la sua ortodossia e buona fede.
[...]
Intendo raccontare i turbamenti della Valtellina nel secolo XVII, abbaruffata religiosa che, come spesso, copriva una quistione di nazionalità, mista di eccessi dei popoli e di viluppi d’una politica ambidestra, fecondi di atroci successi, e dove andarono in un fascio le umane cose e le divine. Né forse è privo d’opportunità questo episodio in tempi di sette caldeggianti d’operoso contrasto fra le opinioni e la forza, di lotta fra la sublime ambizione di non sottomettersi che alla ragione pura, e il folle orgoglio di arrogare tutti i diritti di questa alla ragione individuale.
Pontificando Leone X, il sassone frate Martin Lutero aveva levata - audace - la voce contro le indulgenze, le quali, se prima erano un compenso alle gravose pene ecclesiastiche per i peccati, vennero poi a sovrabbondanza profuse, insinuandosi perfino contro gli oracoli della Chiesa, che assolvessero vivi e morti dalla pena e dalla colpa, e facendosi traffico delle bolle che le concedevano. Da questo, Lutero si aperse il varco a fare alla curia romana altri rimproveri, più uditi perché veri: poi passando dagli abusi nuovi alli vecchi, e dalla fabbrica alli fondamenti (1) impugnò l’autorità papale, il celibato dei preti, infine il sacerdozio stesso. Se, a detta di San Paolo, il giusto vive per la fede, la fede è il tutto, nulla le opere: il monaco orante e penitente è inferiore al laico credente, la fede Iddio la dà a chi egli vuole, talché l’uomo non è libero di operar la propria salute, né la Chiesa ha nulla a prescrivergli: al solo Cristo devono tutti chinarsi, né il papa ha efficienza maggiore che l’infimo fedele.
Non che con ciò si venisse a stabilire la parità di tutte le opinioni e ad abbracciare chiunque ammette il Vangelo. Si volle piantare un’altra autorità al posto della distrutta e imporre nuovi dogmi sulla grazia, sul battesimo, sulla cena, sui santi. Ne sorsero dunque prontamente molteplici discrepanze, e Calvino predicava in Svizzera e in Francia dottrine diverse; e diverse ne faceva pullulare ciascun caposetta. Non è da questo luogo il ragionarne, e basterà dire che fin là si era creduto tutto quel complesso di dogmi, di discipline, di pratiche, che costituisce il cattolicismo. Allora si volle tutto richiamar in esame. Fin là si era venerata la sacra scrittura qual era interpretata dalla chiesa, depositaria della tradizione apostolica ed unica dispensiera della verità; allora si volle libero a ciascuno d’interpretare la scrittura a suo senno privato. Invano i capi riformatori, fallendo al proprio assunto, vollero limitare le credenze con simboli, ai quali mancava ogni autorità. Né, ammesse le negazioni di Lutero e di Calvino, s’aveva titolo per escludere quelle degli Anabattisti, dei Sociniani, degli Entusiasti, che ripudiavano la Trinità, e la divinità di Cristo, e ogni rivelamento fuor dell’ispirazione personale.
La Chiesa non aveva mai dissimulato, e tanto meno giustificato, i disordini e gli abusi pullulati nel suo seno; né mai tenne quei sublimi suoi comizii, che chiamansi concilii, che non facesse savii decreti di riforma. E forse un uomo di alta e sincera volontà avrebbe anche allora potuto condurre a mediazione pacifica, a risoluzione cristiana la chiassosa discrepanza delle credenze e degli atti, adoprandovi l’amore, non l’ira, l’abbraccio, non la repulsione, per saldare l’unità, anzichè sconnetterla irreparabilmente. Ma, come in altri simili casi, la potenza minacciata s’addormentò sull’orlo del precipizio: papa Leone, dedito al deliziarsi ed alle lettere, e poco temendo dai Tedeschi che reputava grossolani e sprovvisti di maschia volontà, non ebbe tal dissensione in più concetto delle tante scolastiche, le quali nascevano e morivano senza lasciar traccia, fra gli ozii ringhiosi e superbi dei conventi e delle università. Scossosi poi, come persona che è destata per forza, diede in estremi, che precipitarono la ruina.
Adriano, successogli, conobbe gli abusi della curia romana e del clero, e pensava efficacemente al rimedio. Ma la morte gli ruppe il disegno, e i letterati ne menarono trionfo. Quando i successori videro a quanta importanza riuscisse il movimento, già si era là dove inutili uscir dovevano ammonizioni, consigli, scomuniche. Stabilita già in più parti la nuova credenza, e sostenuta coll’ardore della novità, coll’autorità d’uomini che avevano studiato a fondo, coll’interesse di quei che avevano usurpato i beni delle chiese e dei conventi, coll’appoggio dei principi, che, tolto l’ostacolo di Roma, potevano ormai fare ogni lor voglia, come capi nello spirituale, al pari che nel temporale, fin colla prepotenza delle armi. Tutto furono allora i Cattolici in impedire che la Riforma trapelasse nei paesi ancora mondi, massimamente nell’Italia, dove le crescevano pericolo l’acutezza e curiosità degli intelletti arditi e vaghi del nuovo, l’abitudine letteraria di cuculiare preti e frati, il conoscersi da presso le esorbitanze romane e l’aver i governi avvezzato i popoli a non tener come sacro tutto quanto fosse papale, né far gran caso delle benedizioni e degli interdetti. Libri, scuole, missionarii, legati furono disposti, come barriera, contro la Svizzera e la Rezia, donde il contagio viepiù si faceva vicino.
Imperocché, contemporaneamente a Lutero e senza sapere di lui, il curato Ulrico Zuinglio, in occasione che vi vendeva le indulgenze fra’ Bernardino Sansone da Milano, aveva cominciato a predicare a Zurigo che una vita pura ed un’anima religiosa più sono accettabili al cospetto dell’Eterno, che non macerazioni e pellegrinaggi. Poi, che il pane ed il vino erano soltanto simboli del SS. Corpo e Sangue. Indi via via, sulla messa, sul purgatorio, sulla confessione, sul venerare i santi, sul celibato dei preti, una folla di novità che pretendeva antichissime.
Sono i Grigioni discendenti da quei Reti che, devoti a libera morte, difesero l’indipendenza loro contro le armi di Roma, stando a scirocco della Svizzera, nelle valli dove sorgono il Reno e l’Inn, e dove molti Romani rifuggirono al cader dell’antichità, siccome l’attesta la lingua che ancor vi si parla, detta ladina e romancia.
Fra le turbinose vicende che mutarono faccia all’Europa, subirono anch’essi le leggi della prepotente feudalità e il dominio dei vescovi di Coira e d’una folla di signorotti che, possedendo appena poche pertiche di paese, si arrogavano però la sovranità indipendente, guerreggiavano coi vicini, opprimevano i sudditi, svaligiavano i viandanti.
Ai costoro soprusi opposero i popoli la concordia dei voleri. Insorti, furono però moderati dall’essersi posti alla loro testa il vescovo di Coira, gli abati di San Gallo e di Dissentis, sotto la cui direzione si formò la lega Caddea. (2)