VINCITORE DEL CONCORSO R COME ROMANCE 2020
Una ragazza di sedici anni dovrebbe solo pensare a studiare, ascoltare dischi e vivere le prime storie d’amore. Per Clara invece non è così: lei deve lavorare per aiutare la famiglia, ma non le pesa. In questo romanzo la vediamo crescere e sbocciare come donna alla ricerca di se stessa e dell’amore attraverso gli anni che seguono il boom economico italiano, contornata da personaggi come “La Bersagliera”, zia Ginetta e il gatto Gianburrasca e da tre uomini che si contenderanno il suo cuore.
Sono gli anni della contestazione studentesca, della legge sul divorzio, di Carosello e del Festival di Sanremo, degli spaghetti western, delle grandi storie d’amore come Dottor Zivago, dell’alluvione di Firenze e dello sbarco sulla Luna.
29 gennaio 1966
Mi chiamarono per un colloquio a casa del dottor Sommi il 29 gennaio 1966 grazie al suggerimento di zia Ginetta che andava già a servizio da parecchi anni in quella villa dai muri macchiati dall’umidità.
La bambinaia precedente non si era fatta trovare al rientro dalle vacanze di Natale della famiglia.
Non aveva lasciato alcun biglietto, era semplicemente scomparsa. Se non fossero rimasti un paio di suoi abiti e le divise nell’armadio nessuno si sarebbe accorto del suo passaggio. Si chiamava Elisabetta Esposito. Zia Ginetta mi aveva spiegato che era un cognome che davano in bass’Italia all’orfanotrofio: non aveva famiglia e forse era per quel motivo che era stato così facile sparire.
Mi presentai col mio abito migliore, l’avevo cucito usando uno scampolo di stoffa trovato a buon mercato dal merciaio. L’idea mi era venuta ricalcando un cartamodello di Giulia Fontanesi Maramotti inserito in una rivista dimenticata sulla corriera che portava in città.
I capelli erano ben acconciati e avevo messo un rossetto tenue. Prima di uscire di casa mi ero guardata allo specchio che rimandava l’immagine di una persona acqua e sapone, pulita e alla quale avrei affidato i miei figli, se solo li avessi avuti. Le mani erano forse un filo callose per via del lavoro nei campi, ma le avevo strofinate con lo spazzolino sporco di varechina e le unghie erano corte e bianche.
Zia Ginetta si era raccomandata di bussare alla porta sul retro, quella bianca e un po’ screpolata, non al portone principale.
Ero partita da casa per tempo per non correre il rischio di perdere la corriera: il risultato fu di giungere alla villa un’ora prima del previsto. Avevo preso la corsa che portava gli studenti delle superiori in città. Qualcuno lo conoscevo dai tempi delle medie. Alcune ragazze erano state mie compagne in collegio quando avevo provato a frequentare le magistrali. Sembrava un altro secolo, ma era passato meno di un anno.
Al passo da pachiderma della corriera sgangherata che sfiatava fumo nero e puzzolente avevo impiegato circa venti minuti a fare i dieci km che separavano casa nostra da quella magione che pareva una rosa ormai sfiorita.
Bussai alla porta bianca e mi venne ad aprire zia Ginetta.
«Santalò bambina mia, sei in anticipo! La signora non è ancora uscita dalla sua stanza. Ti sei lavata per bene i denti? Hai mangiato una mentina? Mi raccomando, rispondi solo sì e no, non ti dilungare e ripeti spesso che adori lavorare con i bambini, anche se questi non sono bambini ma vere e proprie tigri in gabbia. La signora è ipocondriaca e non vuole mai che facciano niente povere stelle.» Era strano sentire parlare zietta in italiano perché in famiglia eravamo tutti abituati a parlare solo in dialetto. Quando passavano i discorsi importanti alla radio, quelli del presidente del consiglio Moro o di Papa Paolo VI, dovevo tradurre al babbo le parolone difficili
«Cara zietta, se devo rispondere solo sì e no mica posso dire che adoro lavorare coi bambini, non ti pare?» ne approfittai per prendere in giro quello scherzo di donna, minuta e tutta nervi. Era la sorella di mamma che al contrario era alta e ben piantata.
Zia Ginetta mi colpì con lo strofinaccio che le pendeva dal grembiule.
Mi fece entrare e accomodare in un salottino nel quale era stato acceso il caminetto.
C’erano una poltrona, una sedia a dondolo, un antico canapè e un lucidissimo pianoforte a coda.
Mi disse di sedermi alla poltrona, cosa che feci subito, era autoritaria zietta. Mi si piazzò davanti, si succhiò un pollice e lo passò sulle mie labbra levandomi il rossetto. Poi armeggiò in un cassettino della console e ne tirò fuori un nastro.
«Legati i capelli, la signora non vuole in giro altre belle ragazze...»
Mi chiesi naturalmente a chi si riferisse, ma non feci in tempo a dirlo ad alta voce perché era già sparita chiudendosi la porta alle spalle.
Nemmeno il tempo di guardarmi intorno che feci un salto alto così sulla poltrona.
Un bimbetto paffuto e con uno sbafo di cioccolato sulla guancia spuntò fuori da sotto il pianoforte tirando per la coda un gatto dal pelo lungo.
«Chi sei?» mi chiese guardandomi col moccio al naso.
«Mi chiamo Clara.»
Presi il mio candido fazzolettino dalla tasca dell’abito e gli asciugai il naso. Girai il fazzoletto dalla parte pulita e dissi al bambino di tirar fuori la lingua. Lui serrò le labbra.
«Toh guarda… un bambino senza lingua. Forse gliel’ha mangiata il gatto» dissi mentre facevo finta di guardarmi in giro per cercare. «Eh no, proprio non la vedo. Povero bimbo… E pensare che la lingua è indispensabile per mangiare il gelato. Come farà? Mai più gelato?»
La lingua del bimbo uscì di scatto dalla bocca, come avevo visto fare al cassetto del registratore di cassa americano del bar centrale.
Vi inzuppai prontamente il lembo del fazzoletto per togliere lo sbafo di cioccolato.
«Adesso sembri proprio un bell’ometto, prima eri solo un moccioso.»
Il bimbo mi guardò malissimo poi tirò su il gatto per la coda e me lo mostrò.
«Lui è Gian Burrasca e io sono Martino.»
Guardai prima lui e poi il gatto rassegnato.
«Avrei giurato davvero il contrario...»
«Ho sempre pensato che li avessero scambiati nella culla...»
Sia io che Martino ci voltammo a guardare il proprietario della voce.
Fresco di rasoio, camicia, giacca, cravatta, pantaloni con la piega come insegnavano le suore della colonia, era appena entrato l’uomo più affascinante che avessi mai visto di persona. Mi imposi di smettere di fissarlo a bocca aperta. Somigliava a quell’attore dei fotoromanzi, quello con la mascella squadrata che aveva fatto la parte di un garibaldino ne Il Gattopardo. Lo avevo visto al cinematografo parrocchiale. Come si chiamava… ah sì, Mario Girotti. Però aveva l’eleganza e il portamento di Marcello Mastroianni.
Sentivo le guance in fiamme e avevo il cuore in gola, come all’esame di terza media.
«Sono Franco Sommi, immagino sia venuta al colloquio per il posto vacante di bambinaia. Di queste cose ahimè se ne occupa mia moglie che arriverà fra poco.»
Da sopra la console di fianco al camino prese la borsa tozza di pelle tipica dei medici condotti e salutò con un sorriso che gli arrivò agli occhi.
Martino mollò la coda del gatto e si avvinghiò allo stinco del padre.
«Babbo rimani a casa, giochiamo alle biglie. Ti lascio tenere Adorni, Gimondi e Anquetil, io prendo Bitossi, Motta e Zilioli.»
«Non posso Martino, mi stanno aspettando in ambulatorio.»
«Almeno una canzone» implorò il figlio.
Il padre fu costretto a cedere. Mise per terra il borsone e si accomodò al pianoforte.
Uscirono note delicate che riconobbi all’istante. Era Il mondo di Jimmy Fontana, quella del disco per l’estate dell’anno prima.
Martino si sedette ai piedi del padre con Gian Burrasca tra le gambe. Dalla porta entrarono altre due ragazzine identiche tra loro, poco più grandi di Martino. A un certo punto i bambini iniziarono a canticchiare.
«Gira il mondo gira nello spazio senza fine...»
Quando il dottor Sommi arrivò al ritornello stavamo ormai cantando tutti, anche zia Ginetta che sbirciava da dietro la porta.
«Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno, ed il giorno verrà.»
Poi un folata al profumo di gardenia chiuse il coperchio del pianoforte. Se il dottore non fosse stato lesto a togliere le mani ci avrebbe lasciato un paio di falangi.
La proprietaria del profumo era una donna alta, elegante e dalla messa in piega perfetta.
Doveva essere la mamma dei bambini, la signora, la moglie di quello splendido uomo.
«Sai benissimo che ho l’emicrania. Questo dannato pianoforte è Lucifero in persona per la mia testa.»
Il dottore le chiese scusa, si chinò a baciarla sulla tempia e riprese in mano la sua valigetta.
Salutò tutti cordialmente. Scomparve il sole dalla stanza. Forse solo io mi accorsi che le nocche della sua mano erano bianche dall’eccessiva pressione sulle maniglie.