Emanuele torna al vecchio casale in Romagna dove ha trascorso da ragazzino le vacanze estive, mai felice. È lì per venderlo, lui ormai vive a Genova dalla nascita e niente più lo richiama in quel luogo. Incontra Annarita, che lui ricordava bambina e alla quale aveva spaccato gli incisivi con una sassata, malamente indirizzata al padre che lo stava minacciando. Tutto è sepolto, tutto sembra lontano. È invece quella casa a riavvicinarli, coi suoi fantasmi e i suoi segreti. I due giovani fanno amicizia, poi qualcosa sembra sbocciare, anche se entrambi hanno un passato che non possono dimenticare e che li trattiene. Pian piano la casa svela i suoi segreti secolari e anche i fantasmi ora si mostrano, ora si sfilacciano, accompagnando il lento incedere dei loro sentimenti.
Primo capitoloI
San Marino, luglio 2008.
Niente pare essere cambiato, in questi vent’anni e passa che sono stato via. Forse le finestre sono conciate peggio di quel che mi ricordavo e l’intonaco dei muri mostra più di una crepa profonda. Lo sguardo mi corre sulla cima della corta scala di pietra sulla quale si stava di sera al fresco, a rimirare la volta stellata nelle notti d’estate nere come la miseria che circondava la casa e i suoi abitanti. I miei si erano trasferiti a Genova agli inizi degli anni Sessanta, e io ero nato là. Mio padre era tornitore all’Ansaldo, usciva di casa alle cinque del mattino e tornava solo per cena, dopo le otto. Io sono cresciuto così, un padre che mi adorava, assente, una madre possessiva e dura che m’inseguiva col manico di una scopa se la guardavo storto oppure se prendevo un cattivo voto a scuola.
Le estati le trascorrevo qua, in genere a studiare e ripassare le materie dove andavo peggio, fra le minacce e le botte di mia madre, se solo osavo sollevare la testa e guardare oltre la finestra, spiare l’orizzonte e una libertà solo sognata. Nei rari momenti di quiete e libertà mi aggiravo per la campagna e mi tenevo a rigorosa distanza dalla proprietà del confinante, un burbero cugino di mia madre, ancora in collera per le questioni dell’eredità legate alla divisione della casa.
Era vietato entrare nel suo giardino, parlare con lui e i suoi famigliari, attraversare i campi, anche il solo guardare dalla loro parte della casa faceva imbestialire mia madre o il suo degno parente. Per anni c’eravamo vicendevolmente evitati, ignorati, scansati, e tutto procedeva bene.
Fino a quel maledetto giorno di fine estate.
Marino, il cugino di mia madre, stava potando il boschetto che dava sulla strada e io scendevo le scale, in silenzio, per sfuggire alla sua vista. L’uomo, non avendomi scorto, si lasciò sfuggire un bel rutto sonoro, al quale non resistetti e scoppiai a ridere. Marino la prese male e iniziò a indirizzarmi epiteti e parole volgari. Avrò avuto una decina d’anni, non ero proprio mingherlino e lo mandai placidamente a quel paese. L’uomo prese a camminare verso di me, le cesoie spianate. Non si fermò al limitare della sua proprietà, ma entrò nella nostra. Io arretravo, ma quello non pareva intenzionato a usare solo le parole. Ebbi paura e non riuscivo a scappare. Allora presi un sasso e glielo tirai, mancandolo di poco. Ancora più infervorato, quello prese a correre verso di me, io ne tirai un altro. Ma questa volta il lancio non andò a vuoto, anche se non colpii lui, ma sua figlia, Annarita, di cinque anni.
S’era avvicinata, curiosa e spaventata assieme, rimanendo nascosta dalla figura del padre.
La pietra la colpì alla bocca, spaccandole gli incisivi. Non era un sasso grande e la forza non era stata eccessiva, eppure vidi i suoi occhi colmi di lacrime per il dolore e la bocca riempirsi di sangue.
Fu mia madre a picchiarmi, non Marino, colto dallo sconfortante rimorso di avere causato tutto.
Lasciammo la casa il giorno seguente e non feci mai più ritorno…
Il portone cigola quando Ernesto lo apre.
Si ferma sull’uscio, mi osserva e si schiude in un sorriso. Certo, non può riconoscermi, ma potrei essere solo io, dopo la telefonata che ho ricevuto qualche giorno fa.
«Emanuele!» chiama.
Mi affretto ad andargli incontro. Nonostante il bastone su cui si appoggia, barcolla vistosamente e non vorrei cadesse per abbracciarmi. Mi si stringe addosso e quasi mi scoppia in lacrime.
«Emanuele…» ripete affannato.
Mi aveva chiamato per avvisarmi che lasciava la casa, per andare all’ospizio. La moglie era morta qualche mese addietro e lui l’aveva accudita con amore, fino alla fine, fino allo spegnersi della piccola candela che pareva tenerla in vita. Ora non ce la faceva più, per via dell’artrite. Abitava qui non so più nemmeno da quando, prima come contadino, poi come semplice affittuario. Erano persone fidate, onesti lavoratori. Mia madre, alla fine, non chiedeva più nemmeno l’affitto e si accontentava che tenessero in ordine la casa, per quando saremmo tornati per trascorrere l’estate…
«Caro Ernesto, come stai?» Mi prende un groppo alla gola, a vederlo ridotto così. Quand’ero ragazzino mi portava nei campi o a raccogliere frutta. Lo vedevo risalire il pendio con fasci d’erba sulle spalle, oppure col mastello ricolmo d’uva, infaticabile.
«Che vuoi, ragazzo mio, è tempo che mi sieda ad aspettare che la mia povera Malvina mi venga a prendere…»
«Che dici, hai tante cose da fare e da raccontarmi. Perché non rimani ancora qualche settimana? Mi farebbe piacere.»
«Ti ringrazio, ma non me la sento. Fare le scale, lavarmi, vestirmi, non ce la faccio più. Almeno, per il poco tempo che mi rimane, avrò qualcuno che penserà a me e potrò dedicarmi al ricordo dei bei tempi trascorsi qui, con la mia famiglia e la tua, che erano davvero bei tempi, non è vero?»
Non posso distruggere i sentimenti di un vecchio, per cui mi limito ad annuire. Sullo sfondo, appaiono il monte e la città, tagliati di netto dall’angolo della casa, sfocati dalla caligine di calore che ammorba l’aria di questo pomeriggio infuocato di luglio.
«Andiamo in casa, fa più fresco.» Pare avere indovinato le mie parole. Mi prende per una mano e rientriamo. Dentro c’è penombra, quasi buio. Socchiudo gli occhi, ma non è per mettere meglio a fuoco le cose, è diffidenza nei confronti della casa e degli strati di ricordi che so ha accumulato durante gli svariati secoli di vita.
Oltrepassiamo la saletta di disimpegno ed entriamo nel salone. I vecchi mobili sono stati quasi tutti sostituiti, rimangono solo le porte di legno massello e il camino incassato nel muro, tutto incrostato. Attorno, si aprono diverse porte, ognuna col proprio segreto celato dietro. C’è la stanza dov’è morta sua madre, urlando di dolore per un mese intero. Di lato lo sgabuzzino dove una sua sorella ha cercato di abortire e s’è invece trapassata l’utero con un ferro da calza, rischiando la vita. A sinistra la stanza da letto padronale, dove il mio bisnonno s’era impiccato a una trave. Per concludere, l’ultima porta…
«Vuoi dell’acqua e anice?» Ernesto se ne sta col bottiglione a mezz’aria e mi riporta alla realtà. Attende solo un mio cenno.
«Sì, per favore.» L’acqua è sempre fresca per via delle tubature interrate, me lo ricordo. E l’anice molto forte, lo fa lui di nascosto, giù in cantina.
«Che ne farai della casa, Emanuele?» I suoi occhi chiari mi trapassano il cuore. L’idea è di venderla, sono venuto apposta per cercare un mediatore. La mia vita è a Genova, il mio lavoro è a Genova, assieme agli amici, parenti, affetti. Per fortuna non mi sono mai sposato, così posso anche vendere tutto e trasferirmi a Cuba o a Santo Domingo.
«Non lo so, devo decidere. Dovessi venderla, hai qualcuno cui farebbe piacere averla?» È una casa enorme, per una persona sola. Negli anni una parte è stata riscattata da un nipote di mia madre, ma si tratta della porzione più plebea, quella assegnata ai contadini che si sono succeduti negli anni. La parte che io non ho veduto mai.
«Se devi venderla, dalla via a chi non c’è mai stato, uno di fuori. Questa casa è come una persona, a volte mi sembra di sentirla respirare. Non la vorrei per i miei figli…»
«Ancora con quelle vecchie storie, Ernesto, non sono più un bambino da incantare con arcani e fantasmi!»
Quante volte mi aveva spaventato coi suoi racconti. Il passaggio del fronte e i bombardamenti. I fatti di sangue, i briganti, la spagnola. E infine le fantasie su certe presenze che si aggiravano per la casa, spaventando i malcapitati.
«Ridi, ridi, che anche a te è capitato, quella volta di…»
«Buonasera!»
Un signore fa capolino dalla porta e mi sorride.
«Tu devi essere Diego!» Ci stringiamo la mano. Abbiamo giocato e fatto a botte regolarmente ogni estate per diversi anni, siamo praticamente amici per la pelle.
«Sono passato a prendere mio padre. Abbiamo portato via ogni cosa che gli può servire, poi torneremo quando ci dirai per sgomberare la casa del resto, che tanto è da buttare via.» Abbraccia con lo sguardo l’insieme. Giudico dal vestito buono che ha fatto fortuna, non gli servono le quattro cianfrusaglie del padre e la valigia dei ricordi.
«Andiamo, papà?»
Fretta di andarsene, di consegnare il vecchio ai moderni monatti, fretta di tornarsene alla sua culla agiata.
Oppure di lasciare la casa.
«Allora ciao, Emanuele!» Ernesto mi allunga la mano, ha l’occhio lucido.
«Ti verrò a trovare, appena mi sono sistemato» Lo abbraccio come un vecchio amico e lo sento mormorare qualcosa.
«Ti ho sistemato l’appartamento di sopra. È tutto come quando eri bambino. È tutto come allora. Questa casa è immutabile, solo noi perdiamo il nostro vigore, ma fuori di qui è anche peggio…»
«Grazie Ernesto, grazie di tutto. Mi racconterai ancora le tue storie.»
Diego mi fa un cenno, poi lascia il mazzo delle chiavi sulla tavola ed esce col padre. Mi fermo sul pianerottolo e li guardo scendere le scale, un passo, un altro… Ernesto si lascia scivolare in macchina, poi si appoggia al sedile, esausto. Fa appena in tempo a salutarmi con la mano, che Diego fa retromarcia e parte sollevando un turbine di polvere sulla strada sterrata.
Chiudo il portone e mi pare di venire risucchiato dentro.
Devo decidere in fretta…