Un crudele omicidio scuote un quartiere residenziale della tranquilla provincia veneta. Il corpo di un noto jazzista degli anni dell'immediato dopoguerra, viene ritrovato reclino sui tasti del suo pianoforte. Siamo nell'autunno del 1978, ma le indagini condurranno alla Genova dei primissimi anni quaranta. Un viaggio a ritroso nel tempo e nella memoria, in una città protesa verso i suoni che provenivano da oltre oceano, unica via di fuga dal drammatico presente. La città del jazz è una storia affascinante in cui la musica è protagonista assoluta. La scrittura risuona del jazz degli anni Trenta e quaranta; le voci del porto e i carruggi di Genova, fanno da splendida cornice a questo giallo avvincente che scorre veloce al ritmo di un'improvvisazione jazz.
Primo capitoloCapitolo I
Treviso, settembre 1978
L’abitazione segnalata era in via Filippo Brunelleschi: accerchiata da villette con giardini e palmizi, si distingueva nettamente per il rosso pompeiano delle pareti, che la rendeva simile a una casa cantoniera, una di quelle storiche costruzioni in cui un tempo alloggiavano i cantonieri, cioè gli addetti alla manutenzione dei canton, le vie del Regno d’Italia, case divenute punto di snodo strategico durante il periodo fascista. Alle finestre degli edifici accanto apparivano e sparivano fugacemente le facce stravolte dei vicini curiosi, insospettiti dall’andirivieni dei carabinieri, in divisa color cachi, che avevano scrupolosamente delimitato, con i nastri segnaletici, tutta la zona intorno alla palazzina.
Il giardino dell’edificio, un parco piuttosto ampio, era invaso da alti cespugli, per lo più oleandri dalle infiorescenze viola ormai scolorite, mentre, negli angoli probabilmente più luminosi e soleggiati durante il giorno, s’alternavano macchie di sfrontati settembrini e cuscini di umili violette. Poco oltre, presso la soglia d’ingresso della villa, c’era un legnoso glicine sfiorito, con grappoli già lunghi e gonfi di semi. Scarmigliato e privo di un sostegno sicuro cui avvinghiarsi, restava parzialmente appeso a una pergola sgangherata che faceva da spalliera a un angolo, chiuso da una panchina arrugginita e da due sedie di legno con la seduta in vimini consumata, pencolanti e disusate. L’aria era ricca dell’olezzo sintetico del respiro dell’asfalto ancora caldo e dell’odore resinoso e balsamico delle siepi di cipresso.
Il capitano dei carabinieri scese dall’Alfetta blu e chiuse la portiera. Con la rigidità e la fermezza di un atto dovuto, rimase fermo accanto all’auto e perlustrò la strada con un’occhiata esperta e rapida, quanto bastò a verificare che i suoi uomini, come da protocollo, avessero correttamente provveduto a far transennare tutti gli accessi, piazzando i posti di blocco nelle due direzioni di marcia e, soprattutto, spingendo indietro i curiosi.
Era sera inoltrata, l’aria rinchiusa in un barlume di luce morente e, mentre Treviso si addormentava, era arrivata una chiamata anonima: una voce scontrosa e ruvida li avvisava di aver notato qualcosa di strano in via Filippo Brunelleschi, aggiungendo quei pochi dettagli utili a trovare l’interno, e niente altro.
Così gli uomini del Reparto Operativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Treviso si erano recati immediatamente sul posto, ben sapendo che il primo sopralluogo, e l’eventuale repertamento successivo, erano le fasi più complesse e delicate all’inizio di ogni indagine. Quando il capitano arrivò al portone d’ingresso della palazzina a tre piani, i due carabinieri fermi sulla soglia si tesero come corde di violino, scattando ritti sull’attenti, alzando il braccio destro, mano a visiera, colpo di tacchi, saluto militare.
– Comodi, – disse lui, andando oltre, quasi senza guardarli.
– Capitano, non c’è corrente, – avvisò uno dei piantoni, ricco accento siciliano, porgendogli una torcia d’ordinanza. – Il quadro generale è bloccato, un elettricista sta provvedendo.
– Grazie, Caruso, – rispose, proseguendo solo dopo aver attivato la pila.
Come da regolamento, sfruttò il percorso di entrata e di uscita limitato dai nastri di segnalazione, tragitto obbligato per evitare la contaminazione della scena del crimine. Oltre il portoncino di legno trovò un’anticamera ristretta, arredata con un appendiabiti e un mobile a specchiera, sul ripiano del quale era ammassata in modo scomposto una pila di quotidiani, su cui sbiadivano le notizie sgualcite dei giorni precedenti. Diede una zelante occhiata, scompaginando i giornali con la mano avvolta nel nero del guanto: “La Tribuna di Treviso”, “Il Gazzettino di Treviso”, “Musica e Jazz”; puntò la torcia e il fascio lineare di luce fredda, conica, si agganciò alle scritte e alle immagini in copertina.
– Musica e Jazz, – mormorò incuriosito, sottraendo la rivista al mucchio – 4 novembre 1945.
Era un vero pezzo da collezione in formato tabloid. La copertina ritraeva una bellissima donna, con i capelli raccolti a fare da cornice scurissima intorno a un viso d’angelo, disegnato in un ovale soave, pallido; gli occhi grandi erano spalancati in un impeto di vivacità e gioia, sembravano parlare e sorridevano proprio come le labbra colorate d’un tono marcato, probabilmente un rossetto corallo che il bianco e nero della carta non poteva restituire alla memoria. Prigioniera del fascio di luce appariva come un cereo spettro.
Lesse la notizia poco sotto la foto della donna che titolava L’ultimo canto della Galvani. E continuava con un breve sommario:
A due anni dalla morte di Carla Galvani, virtuosa cantante della Jazz Band Gatti Neri, la verità su quanto accadde sembra dover restare per sempre sepolta con lei e celata ai nostri occhi indagatori.
Scese tra le righe dell’articolo:
Secondo la versione ufficiale, la talentuosa cantante sarebbe scivolata sui binari alla stazione di Milano, battendo mortalmente la testa, mentre cercava di salire in tutta fretta sul vagone che l’avrebbe condotta in Svizzera. Pare che fosse sola. È stato davvero uno sciagurato incidente? Oppure qualcuno ha voluto mettere fine alla vita di questa giovane donna per qualche ignoto motivo? Perché mai si trovava sulle rotaie?
A tutt’oggi non sono ancora stati trovati testimoni disposti a riferire qualcosa sull’accaduto. Arduo è il compito di chi indaga! E la verità langue.
– Capitano Verri…
Si voltò, riemergendo dalla pagina. Gli occhi azzurri, chiarissimi, furono attraversati dal fulgore della torcia che il giovane appuntato teneva inspiegabilmente ad altezza viso.
– Maiano, abbassa la luce, – ordinò rigido.
– Sì signore, subito signore, – eseguì l’altro.
– Dov’è il cadavere della vittima?
– Al piano di sopra, – rispose il giovane carabiniere, in evidente stato d’ansia.
– Qualcosa non va?
– Chiedo il permesso di uscire, capitano. Ho bisogno di prendere aria.
Verri lo fissò con una certa severità, ma non se la sentì di infierire. Il ragazzo tremava come se avesse percepito, anche lui, la presenza di un fantasma.
– Va’ pure, ma vomita fuori dal perimetro della casa, non inquinare la scena. E possibilmente non nei cassonetti o li farò setacciare a te.
– Comandi signore… vado signore…
Uscì di corsa, urtando quasi il superiore. Verri lo fissò con disappunto e poi, evitando di toccare la balaustra dell’ampia scalinata in marmo bianco, iniziò a salire i gradini, facendosi luce con la pila. A metà rampa fu colto dallo spiacevole e ben noto odore post mortem, in quel caso talmente intenso e solforoso da denunciare in maniera inequivocabile che il dramma doveva essersi compiuto parecchi giorni prima.
Iniziò a dare un senso alla reazione del giovane appuntato.
Proseguì, registrando mentalmente ogni cosa, operando in base all’esigenza di quel primo sopralluogo: osservare, individuare, raccogliere tutti quegli elementi utili alla ricostruzione del fatto, elementi che poi sarebbero irrimediabilmente andati persi.
Sulla soglia della stanza fu abbagliato dal flash della macchina fotografica che uno dei suoi uomini stava usando per documentare la scena, i rilievi e tutto il resto. Le numerose torce erano state posizionate per illuminare in modo opportuno il delitto. Si sfiorò gli occhi infastiditi, quindi, tolto il berretto di ordinanza, lo mise sotto il braccio e si inoltrò, valutando la situazione.
Il salone era in ordine. A destra dell’ingresso c’erano un sofà, forse di velluto verde con i braccioli in legno scuro, e due poltrone identiche ai lati; un tavolino di cristallo si trovava davanti al composto del divano, sopra un tappeto probabilmente rosso con venature più scure. A sinistra dell’ingresso, invece, c’erano numerosi mobili con file di libri accostati in ordine, dorsetto a vista e, in splendida solitudine, un pianoforte a coda, nero con finitura lucida.
Verri si bloccò nell’indagarlo, non tanto perché fosse in grado di apprezzarne il valore, ma perché là erano concentrati i suoi uomini, con tutto l’equipaggiamento necessario al repertamento, abilmente usato anche nella semioscurità; e poi là si intensificavano l’odore chimico della morte e il rumore ritmico degli scatti della macchina fotografica, il cui flash risultava particolarmente aggressivo nella penombra.
Il corpo della vittima, infatti, era addossato ai tasti, con le braccia allargate a croce, le dita piegate in modo crudele, dando l’impressione di essere state spezzate in più punti, e la testa innaturalmente appoggiata al leggio; il collo era stato in qualche modo fratturato. La sensazione che ne ebbe gli inoculò immediatamente il tossico del sospetto che si trattasse di un omicidio rituale. Erano i casi peggiori. Il modus operandi di quegli assassini denunciava quasi sempre una dinamica con movente emotivo, compulsivo, feroce e, purtroppo, irrisolto dall’omicidio stesso, ragion per cui a volte tornavano a colpire, uccidendo senza più riuscire a fermarsi, pur di provare ancora quel barlume di sadica soddisfazione.
Pregò che non fosse così.
Mentre il nugolo silenzioso di agenti sciamava per eseguire la raccolta di tracce per l’analisi biologica, adombrando così ogni tanto il fascio delle torce, lui si portò fino allo sgabello su cui il cadavere era stato presumibilmente costretto a subire quella che aveva tutto il terribile aspetto di una tortura premeditata. Prima si fece il segno della croce, quindi sondò con rispetto la figura accasciata, fino a entrare negli occhi spalancati, nei quali non intravide paura, ma rassegnazione e qualcosa che in quel momento non seppe spiegare.
– Mio Dio… – mormorò quando notò la corda stretta intorno al collo, fasciato di pelle illividita. Dal giugulo in giù il corpo sembrava farsi magrissimo, con la testa colorata dal biondo solo leggermente brizzolato dei capelli; e poi le mani affusolate e lunghe, benché le dita gonfie e livide ne deturpassero la particolare delicatezza. Sotto la corda, che con certa evidenza lo aveva ucciso, era bloccata una catenina d’oro, dalla quale pendeva un piccolo crocifisso.
– Capitano… – si accostò uno dei suoi, salutando come dovuto. Era il maresciallo Andrea De Marchi. – Non siamo riusciti a identificare la provenienza della chiamata, ma i tecnici stanno analizzando la voce per un possibile riconoscimento vocale; magari incrociando i dati ricavati potremmo ottenere un profilo utile alle indagini.
Verri lo squadrò: Andrea era alto e prestante, decisamente atletico, un gigante buono, benché piuttosto inquietante nella semioscurità diradata a stento dalla luce delle torce. Gli sorrise.
– Hai fatto un ottimo lavoro, coordinamento perfetto, nonostante le evidenti difficoltà operative, – si complimentò.
– Grazie capitano.
– Il caso appare complicato, il medico legale si è già espresso?
– Presume morte per soffocamento, anche se non ci sono segni di cianosi o protrusione dei globi oculari. Sicuramente è deceduto più di settantadue ore fa. Non c’è materiale biologico di particolare rilievo in giro, né sui pavimenti né sui mobili, e nessun imbrattamento ematico. In assenza di tracce di polvere da sparo, o d’altro che possa far supporre la presenza di un’arma anche da taglio, pensiamo che il delitto possa essere stato perpetrato con una corda di pianoforte, quella che ha attorno al collo. Comunque ho già richiesto gli esami tossicologici.
– Mancano corde allo strumento?
– Sì, abbiamo controllato il telaio ed effettivamente mancherebbe una corda di media lunghezza. Tra l’altro devo dire che è stata sganciata dal supporto in modo chirurgico.
– Chi è la vittima?
– Si chiamava Wilhelm Gatti. Era un musicista piuttosto noto nell’ambiente delle jazz band e insegnante di pianoforte, solo privatamente.
– Anni?
– Cinquantotto. Persona mite, un tipo tranquillo, dicono i vicini che abbiamo già interpellato, – aggiunse. Verri si girò a fissarlo, con aria perplessa, pensoso; il maresciallo alzò le spalle. – Lo so, pare incredibile che ci si possa accanire così su qualcuno. Tra l’altro, gli stessi vicini ci hanno riferito che il professore aveva diversi allievi che venivano a studiare qui da lui.
– Recuperate nomi e cognomi, dobbiamo trovarli tutti quanti e convocarli in caserma. Cercate diari, lettere; voglio anche le cartoline e tutta la posta. Controlliamo anche che non ci siano rivendicazioni di alcun tipo, non si sa mai.
– Mi sentirei di escluderlo, – disse il maresciallo.
– Sulla base di cosa?
– Non mi sembra sia lo stile né delle Brigate Rosse, né tantomeno dei terroristi neri.
– Questo è vero, ma dopo il delitto dell’onorevole Moro non possiamo tralasciare nulla, – rimarcò Verri – per cui controllate anche eventuali legami politici, tessere di partito in possesso della vittima e tutto il resto.
– Agli ordini, capitano.
– Quante testimonianze fra quelle raccolte nel vicinato potrebbero avere una qualche rilevanza per le indagini?
– Direi nessuna in particolare, – rispose. Verri lo guardò con rimprovero. – I vicini non hanno visto né sentito niente.
– E non si sono accorti che il professore non usciva più di casa da un po’?
– Lo hanno descritto come un tipo buono, ma solitario. Non era sposato, non aveva figli, viveva da solo; pur essendo un uomo piuttosto affascinante non frequentava nessuno in particolare. Lo ricordano soprattutto per il fatto che salutasse sempre tutti quanti con grande cortesia.
Il capitano scosse la testa con un gesto quasi drammatico.
Ogni volta la stessa storia, la gente piuttosto che parlare preferiva nascondersi dietro muri di omertà. Lo sapeva lui, e lo sapevano anche gli altri delle forze dell’ordine di ogni divisa, che l’Italia era cambiata dopo i diciassette morti di Piazza Fontana e il delitto di Aldo Moro. Ora i civili si guardavano le spalle, di nuovo, come nei mesi ostili del dopoguerra, quando si era tutti nemici, tutti sospetti, tutti vigliacchi, o quasi, e ci si ammazzava per il colore di un fazzoletto intorno al collo o di una camicia.
– L’energia elettrica? Perché mai ci mettono tanto? – chiese, passando ad altro.
– Ci stanno lavorando. Pensiamo che l’assassino abbia interrotto la corrente, forse in modo anomalo, causando un corto circuito.
– Ci sono sistemi di allarme?
– Sì, tre.
– Forse ha staccato la corrente per evitare che suonassero. Dov’è il quadro elettrico?
– A destra del portone di ingresso, al piano terra. Però è strano che sia riuscito a fare tutto quanto senza luce.
– Avrà agito di giorno, – rispose Verri, con ovvietà.
– In effetti, sarebbe più logico supporlo e dunque forse non aveva paura di essere riconosciuto, altrimenti si sarebbe introdotto di notte.
– In definitiva, quali indizi abbiamo, Andrea? Dimmi che c’è altro su cui ragionare…
– Pochi, l’assassino è stato molto accorto. Non ci sono segni di effrazione, per cui è plausibile pensare che la vittima gli abbia aperto la porta, quindi poteva essere un conoscente. Sul tavolinetto c’erano una bottiglia di vermentino ligure e due flûte, uno pieno e l’altro vuoto.
– Qualcosa da festeggiare?
– Probabilmente.
– Indagate anche in questa direzione: compleanni, ricorrenze… – si fermò a pensare un istante, per poi domandare ancora: – Tracce di rossetto sui calici?
– A una prima occhiata direi di no.
Verri rifletté accarezzandosi il mento e lasciandosi sfuggire un sospiro pesante.
– Analizzate ogni dettaglio, sia sulla scena primaria sia su quella secondaria. Forse l’assassino ha lasciato qualche traccia in giardino o in strada, – aggiunse. Fu scosso da due colpi sfrontati di tosse. – Dio mio, e aprite le finestre! Non si respira qui dentro.
– Sono bloccate, – disse. Si fissarono. – Dall’interno, – specificò Andrea.
– Come sarebbe?
– Dall’interno e da sempre. Sono saldate, lavoro datato.
– Vada per i sistemi di allarme, ma perché avrà fatto sigillare le finestre? Di cosa aveva paura, o di chi? – rifletté Verri, perplesso.
Si voltò a osservare il disegnatore del team investigativo, intento a realizzare un diagramma della scena e a posizionare tutti gli elementi più importanti all’interno dello schizzo; in particolare a ritrarre lo strumento, su cui il corpo di Gatti era appoggiato.
– Aprite il pianoforte, – disse, attraversato da una fulminea intuizione.
– Lo abbiamo già fatto capitano, – spiegò l’altro. – Quando abbiamo cercato di capire se la corda usata appartenesse a questo strumento.
– Ed era tutto al suo posto?
– Sì, a parte la corda mancante…
Verri si fermò a riflettere, sguardo assorto, ma poi non esitò oltre; si avvicinò allo strumento, si inginocchiò, si affacciò sotto la cassa e, utilizzando la torcia, fece luce. Dietro di lui si muovevano il disegnatore e il fotografo, il quale continuava a scattare fotografie dell’intera scena: prima totali, poi medio e primo piano e infine si concentrava sui dettagli delle varie parti del pianoforte.
– Qui c’è qualcosa… – disse infine, con la voce arrochita dallo sforzo di stare piegato.
– Cosa? – chiese Andrea, avvicinandosi.
– Un biglietto, maldestramente incollato al legno, – rispose Verri, rialzandosi e mostrando quanto aveva trovato: un foglietto calcato con grafia pesante. Gli altri si disposero intorno in un crocicchio investigativo, curioso. Lui lo illuminò meglio con il fiotto di luce della torcia puntato e lesse, prima in fretta, poi con più calma; quindi alzò gli occhi chiarissimi, entrando in quelli degli uomini che lo stavano fissando in attesa.
La corrente elettrica fu ripristinata in quel momento, e sfolgorò illuminando il delitto.