La Grande bellezza? Non pervenuta. La Caput per una volta esce a gamba tesa dalle cartoline, dalla retorica e dai luoghi comuni per mostrarsi com’è. Faticosa, disperata, cinica, terribile. Figlia del Dio Marte e di una mamma lupa feroce. Quindi guerriera e mignotta in pari grado. Ma anche esilarante, assurda, divertente. Cattivissima.
Le disavventure di chi abita all’ombra del Campidoglio pentastellato di Virginia Raggi tra autobus quasi sempre fuori uso, frigoriferi nei cassonetti dell’immondizia strategicamente piazzati dall’opposizione, gaffe storiche e tweet che naufragano nella giungla dei congiuntivi. Daniela Amenta con un diario ironico ma anche maledettamente disperato ha raccontato la vita “dei cittadini e delle cittadine” sotto il governo di Raggi Laser.
Ne viene fuori un affresco surreale della Caput (Im)mundi che annega sotto il primo acquazzone “perché gli alberi hanno perso le foglie prima del previsto”, che chiude le fontanelle dopo aver prosciugato il lago di Bracciano, che annuncia in pompa magna la tessera Atac gratuita per i vecchiarelli, ovvero un provvedimento già in voga ai tempi della Gens Iulia.
Un viaggio nelle periferie dell’Urbe a caccia di onestà, a bordo dei convogli infernali della Metro B dove tutto accade e il Far West va di moda, o in attesa dell’autobus 160 che come Godot non arriva mai. Flash e cartoline di una città affaticata, spenta eppure cinica dove gli anziani sopravvivano all’afa estiva barricandosi nei supermercati e i condomini sono l’ultima frontiera dei centri di salute mentale. Aspettando che Raggi Laser ci consegni almeno il circo, visto che il pane è finito da un bel po’.
Dalla prefazione di Concita De Gregorio
Due parole, proprio due, per non sciupare il suono di questo spartito di pensieri che avete tra le mani.
L’unica premessa possibile, in verità, dovrebbe finire qui: Leggetelo, per favore. Mettetevelo in tasca, tiratelo fuori quando vi spazientisce un’attesa. Quando questa città purtroppo nostra vi strema. Bastano cinque righe, in certi momenti. Si ride, si piange, si impara una cosa. Ci si riconosce negli angoli. Viene subito voglia di fare un gesto, a partire da ora. Tipo dire Buongiorno a ogni sconosciuto, come regola.
Leggetelo: poi, se volete, parliamo. Però una cosa va detta, ed è quella della musica. Questo diario di bordo divertito e disperato (come sopravvivere a Roma, se fosse un manuale) ha un suono, un ritmo, una cifra di stile che non somiglia a nessuna.
È come quando senti un brano alla radio e, anche se non lo conosci, lo ri-conosci: sai di chi è quella voce. La musica di Amenta è solo sua. È uno sguardo, e poi una lingua, che si situa all’incrocio fra la commozione e l’indignazione senza essere né l’una né l’altra. È stupore consapevole, desolato e ammirato.
È l’ironia di chi sa che tutto passa, innanzitutto noi che siamo qui, ma sa anche che solo il presente conta: è solo questo preciso momento, proprio questo, a garantirci che siamo al mondo.
Perciò ogni cosa – un vaso di ciclamini, un vigile affranto, il dirimpettaio sul bus, un giocattolo rotto nel cassonetto che straripa, una ragazza in fila al super che dice “signora si calmi” mentre tu sei calmissima – è la cosa.
Ogni fotogramma è il film, ogni dettaglio è il quadro d’insieme.
Siamo noi, siamo qui, siamo Roma che ci ostiniamo a vivere. Sono gli anni di Raggi Laser, questi. Virginia Raggi, sindaco. Passeranno alla storia in meno di dieci righe, sui libri di testo, fra cent’anni. Forse in una nota a piè di pagina. Ma intanto sono i nostri tutti interi, un’ora, un giorno e un mese dopo l’altro, questi anni. Amenta guarda il Campidoglio dalla Montagnola, il suo quartiere. Una piazza di Eroi e di Martiri della Resistenza.
Ecco. Se dovessi scegliere una pagina da leggere e mandare in loop dagli altoparlanti delle stazioni, nei sotterranei della metro direi questa: “La Resistenza raccontata al mio fruttarolo bangla”. Il racconto di cosa successe in quell’angolo di città un po’ più di settant’anni fa. E Ajar che capa i fagiolini e smette di capare, quando sente del panettiere che fece entrare i soldati nel forno. E poi chiede se va bene giocarci a pallone, in quella piazza, o se invece è brutto perché è un monumento.
Ma come finisce lo dovete leggere. Ché questa che vi ho detto è l’ultima pagina, e invece bisogna cominciare – qui di seguito – dalla prima. Coi gladiatori coatti coi sandali cinesi e Roma che si allarga come una goccia di mercurio. Poi, se volete, ne parliamo.