Verso la fine del XVI secolo, nel corso di una scorreria sulle coste liguri, una bambina dai capelli color zafferano (safran in molte lingue e dialetti), catturata dai saraceni, riesce a fuggire da una galea carica di schiavi. Approda su una terra sconosciuta, bellissima e aspra, e comincia un cammino che la condurrà, tra mille insidie, ad affiancare le protagoniste di uno dei più celebri processi alle streghe istruito in Italia: quello che cominciò a Triora nell’estate del 1587.
Secoli dopo, ai giorni nostri, l’ispettore capo Renzo Parodi, il primo detective letterario afroitaliano, e il fido Marotta, già protagonisti di altri casi intricati, indagano su un efferato delitto compiuto a San Martino di Struppa, quartiere collinare di Genova.
Alcuni dei personaggi ed eventi di questo libro appartengono alla storia. Oltre al famoso processo alle streghe di Triora, cominciato nel 1587, sono autentici i nomi delle bazure, sono autentici i nomi dei Dogi, dei Podestà e di alcuni inquirenti, sono autentici Luca e Franchetta Borelli.
Il collegamento tra Triora e San Martino di Struppa, all’epoca colonia penale di Genova, risiede nel fatto che dal 1600, in poi, nei registri parrocchiali di San Martino di Struppa compaiano i cognomi Bazoro e Bazora, che richiamano il termine bagiua o bazura, usato nel ponente ligure per indicare la strega.
Primo capitoloZitta! Non importa, non ti muovere, non respirare, anche se il sudore brucia negli occhi e le braccia e le gambe ti fanno male e i sassi ti tormentano le costole, non muovere un muscolo nemmeno se hai i capelli intrisi di sangue che ti gocciola per la fronte, attraversa le labbra serrate e scola dal mento. Mamma! Gesù! San Patrizio! Allah! Allah misericordioso, anche lui va bene, Mamma mia!
È sangue non tuo, non importa, ma se ti scoprono, gli uni o gli altri, allora sì, si mischierà a quello delle tue ferite, ti strapperanno gli occhi, il cuore, la vita. Lully, lullay. Thou little tiny child/ by by, lully lullay/ O sisters too/ How many we do,/ for preserve this day,/ this poor youngling/ for whom we do sing,/ by by, lully lullay/ Canta.
Canta con la mente. Senza smettere. Fatti portare via di qui, dal fragore del ferro e delle urla. Ricorda le dita della mamma che passavano tra i capelli, e la sua voce e quella filastrocca, che riempivano di magia ombre sempre più lontane, finché il mondo fatato scoloriva dietro alle palpebre, per tornare reale al sorgere del sole. Sarà morto? Selim, piegato sul bordo della barca tirata in secca, gronda come un maiale sgozzato, è suo il sangue che ancora mi bagna, ma non ce la faccio a muovermi di qui; sto rattrappita sotto la notte e la pancia dello scafo che mi hanno nascosta finora; non voglio uscire di qui, non voglio nemmeno guardare per paura del luccichìo dei miei occhi a una luce che non c’è. Vorrei sprofondare, ma più di così non posso. Thou little tiny child/
Mi scopriranno, mi scopriranno quando verranno a prendere il cadavere di Selim, gli uni o gli altri. Non c’è altro posto dove nascondersi su questa spiaggia. Rumore di piedi che affondano e incespicano tra acqua e sabbia, altre urla, colpi alla barca che oscilla e mi schiaccia le dita della mano sinistra. Mi mordo le labbra per non gridare e, vicinissimi, altri rumori orribili di carne macellata e un gorgoglìo, poi resta solo un ansimare che rompe il respiro profondo del mare. Adesso tocca a me. Adesso vengono a prendermi. O sisters too/ How many we do Mi pento, mamma, scusa, non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto, ma oggi ho fatto cadere un po’ di tè e il rais mi ha picchiata ancora. For preserve this day/ this poor youngling Picchiata ma viva, mamma, ora invece morirò e ho paura. Mi è sembrata l’occasione buona, sono scesi quasi tutti e la vedetta si è addormentata e la costa era così vicina! E io ho imparato a nuotare come un pesce. Li aspettavano. E adesso non so chi è rimasto vivo, ma chi è rimasto vivo ha una spada o una scimitarra e se mi conosce mi ucciderà e mi ucciderà se non mi conosce. Io, per ognuno di loro, sono una degli altri. By by lully lullay.
Non si mosse. Non osò muoversi, per un tempo che le parve eterno.
Quando il crampo le addentò un polpaccio non resistette e, digrignando i denti, allungò una gamba per provare un po’ di sollievo ed evitare di farsi sfuggire un lamento. I sensi acuiti dalla paura le facevano avvertire ancora una presenza mentre il cuore le batteva così forte nelle orecchie da farle temere che si potesse udire da lontano. La barca trasmetteva piccole vibrazioni, come ogni legno che confida al marinaio la danza delle onde e i capricci del vento, ma questa volta, a terra, a lei suggeriva di stare ancora in guardia perché, appoggiate al bordo di dritta, due sentinelle sorvegliavano il buio ferito dalle stelle.
D’un tratto il fasciame fu scosso e molti piedi e poche torce si avvicinarono. Con un residuo improvviso di coraggio che non sapeva di avere, raccolse un sasso e lo scagliò più lontano possibile, verso il mare, oltre lo scafo. Per un istante ogni movimento cessò, poi gli uomini si allontanarono rapidamente verso il tonfo liquido. Lei strisciò, al riparo dell’imbarcazione, cercando l’acqua come una piccola tartaruga appena uscita dall’uovo. Nuotò sotto la superficie per quanto poté, immersa in un inchiostro che rendeva inutili gli occhi spalancati, mentre le orecchie avvertivano il rumore di qualcosa di pesante che strisciava sul bagnasciuga; risalì solo quanto bastava per respirare, temendo di sentire su di sé, da un momento all’altro, le mani dei suoi carnefici. Ma nessuno si era accorto di lei.
La spiaggia sembrava deserta e la barca non c’era più. Un cigolio di scalmi e un lieve rumore di acqua smossa poco lontano. Immaginò, nella notte senza luna, ombre curve che scivolavano veloci sulla seta nera, verso la galea che era stata la sua casa nell’ultimo mese, dopo più di un anno in schiavitù sotto il sole di Algeri. Rimase a galleggiare nel mare tiepido per molti minuti, senza riuscire a prendere una decisione, senza riuscire a pensare. La riscosse un tocco leggero che le provocò un sussulto e le fece ingoiare un sorso di acqua salata. Si agitò, sputando in maniera convulsa per non soffocare. Riacquistata la padronanza di sé, capì che ciò che l’aveva sfiorata non avrebbe più potuto farle del male: era il corpo sventrato di Selim, su cui cominciavano già ad accanirsi piccoli pesci.
Per uno strano caso, l’incontro, invece di aumentare l’orrore, le restituì lucidità. Era il momento buono per fuggire lontano dalla costa, da quel mare che aveva amato finché non le aveva portato sventura e prigionia. I diavoli saraceni erano un pericolo per chiunque abitasse i villaggi e le città costiere, ne aveva visti troppi dati alle fiamme. Aveva visto uomini, donne, bambini, fatti a pezzi o privati di qualsiasi dignità e ridotti a schiavi, trasportati, come lei, da un mare all’altro per essere più volte comprati e venduti come merce. Cinque giorni prima, una tempesta aveva costretto il rais a liberarsi di parte del carico di carne viva.
Per questo il comandante aveva deciso uno sbarco non previsto, per approvvigionarsi di prodotto fresco. Le tornò alla mente il ricordo di sua madre che, prima della brusca separazione, piangendo, le aveva affidato come ultimo dono la scatolina di legno piena di grasso con cui la ungeva ogni sera per proteggerla dalle lacerazioni che le avrebbe potuto infliggere qualsiasi padrone.