Questi racconti nascono nella mente dell’autore apparentemente separati; pensati ognuno per se stessi ma, ben presto si presentano come un intreccio unitario; una strada che il personaggio, Stefano, immagina per arrivare alla semplicità. La “semplicità” che ha in mente l’autore non è semplicismo e/o una sorta di “facilità”, ma è un percorso complicato che investe diversi aspetti della vita. Il primo racconto, “L’Unica cosa certa è il caso”, iniziato a scrivere quando l’autore aveva ventotto anni e completato venticinque anni dopo, è l’inizio del percorso verso la “semplicità” e si occupa di liberare la mente da pregiudizi che condizionano e complicano i gesti ed i rapporti tra se e il mondo esterno. In questo racconto domina l’interrogarsi silenzioso e solitario, la meditazione profonda e travagliata come strumento per raggiungere l’equilibrio tra il bisogno della maschera e la consapevolezza di se stessi: la sincerità. L’autore crede che è nello sbilanciamento verso il momento della maschera che nascono molti equivoci verso se stessi e tensioni verso il mondo. In questo racconto prevale il bisogno di sincerità inteso come equilibrio identificato nel gesto di posare per un momento la maschera per mettere fuori il proprio viso riposato. Il secondo racconto “Il tanto e il niente, il troppo e il poco, il più e il meno” lo possiamo concettualizzare come il momento successivo al raggiungimento della consapevolezza interiore e cioè uno svuotamento del proprio “armadio” personale, questa volta inteso come oggetti inutili per arrivare al vero rapporto tra sé e il mondo. Nel terzo racconto “Ci sta bene” è trattata, attraverso la metafora del cibo, la strada che ha in mente l’autore per coltivare la vera bellezza intesa come un continuo togliere, sottrarre per arrivare al centro delle cose.