Carla Caputo è una diciannovenne dei nostri giorni che vive in un paesino del Sud dove il tempo sembra essersi fermato. Matrimoni, funerali, feste di piazza e pranzi della domenica l’accompagnano nella sua crescita interiore e nella scelta tra un comodo futuro e il desiderio di andare oltre quello che la vita sembra offrirle. Ad aiutarla c’è Diego, che se ne innamora al primo scatto di foto.
Primo capitoloCAPITOLO 1 - IL FUNERALE
“Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con Te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”.
«Rita, che ore sono?»
«Mezzogiorno, Luisa.»
«Mamma mia non ci posso pensare. Che disgrazia. Sono tre ore che stiamo qua e niente.»
«Devi stare calma, il medico ce l’ha detto: sarà una cosa lunga.»
«Che disgrazia che disgrazia. È un anno che soffre mio fratello e proprio ora si doveva aggravare. Ma io lo dovevo immaginare, Lello è sempre stato uno “scassambrella” e in punto di morte mi deve far schiattare pure a me.»
«Parla piano che ci sentono. Lo so, se muore di 13 agosto è un problema, però tuo nipote Antonio sta già organizzato. Ha mandato la figlia ad avvisare il prete che si tenesse pronto.»
«Se lo trova a don Aurelio. Quello a Ferragosto chiude bottega e se ne va su, al Santuario di Montevergine. Là sta più fresco e a noi non ci pensa proprio.»
Raffaele Caputo, detto Lello, diceva che la sua vita era stata lunga e piena perché era riuscito ad alternare bene momenti di sofferenza e di felicità, accettandoli entrambi. È vero, quasi tutti pensavano che fosse uno “scassambrella”, soprattutto sua sorella Luisa, di tre anni più grande e con un carattere opposto a quello di Lello: lui ottimista e un po’ anarchico, lei ansiosa e diffidente.
Lello era figlio di Angelo Caputo e Francesca Sessa, nati, cresciuti e morti in riva al mare, dove avevano gestito per sessant’anni un piccolo commercio di mozzarelle di bufala. Da giovane aveva seguito solo due passioni, i cavalli e le motociclette, senza contare le donne che più o meno appassionano tutti i maschi. Si era sposato due volte, la seconda con Carla Gessi, la conquista di una sera di luglio a Ischia, e aveva avuto due figli, Antonio e Anna Caputo.
Ora, a ottantadue anni, sapeva che scomodare tutti il 13 agosto era una grandissima rottura di scatole e per questo aspettava la morte con più serenità del dovuto. Aveva un piccolo sorriso sulla punta delle labbra e vederlo faceva arrabbiare ancora di più sua sorella Luisa.
Antonio Caputo, invece, già da tempo autonominato capofamiglia, era un maniaco del controllo e per non rischiare aveva radunato subito i parenti stretti, giusto una trentina, richiamandoli da spiagge, fette di cocomero e partite a carte sotto l’ombrellone. C’era talmente tanto nervosismo a casa del moribondo che si rischiava la lite per nulla e il caldo tremendo peggiorava la situazione. L’unica cosa di cui si riusciva a discutere erano le probabilità sul momento della dipartita come se si trattasse di scommesse all’ippodromo.
«Secondo me conviene che muoia subito, mo. Smette di soffrire e don Aurelio per 300 euro ti fa la messa pure domani mattina.»
«Domani è sabato, ci sta il mercato e pure le bancarelle della festa. Non possiamo passare con il carro. Alla chiesa ci arriviamo solo se papà resuscita, esce dalla bara e se la fa a piedi come Lazzaro. Dopodomani è domenica di Ferragosto e quindi se ne parla direttamente il 16, che però è Santo Rocco e passa la processione.»
«Io l’ho visto bene in faccia, tuo padre resiste fino al 17 e pure il 18.»
«Grazie dell’incoraggiamento, lo so che sei attaccato a papà, ma il problema resta perché vi devo richiamare tutti qua la settimana prossima e poi dite che le vacanze sono rovinate.»
«Secondo te al lido me la rimborsano la prenotazione della cabina in caso di lutto grave?»
«Ma vaffanculo.»
Lello chiuse gli occhi l’ultima volta il mattino seguente, non per il sollievo dei parenti ma per la felicità della moglie Carla, salita al cielo dieci anni prima, dove pregava la morte di togliere suo marito dalle grinfie di persone che non lo meritavano più.
«Mamma non ce la faccio a venire a messa, fa troppo caldo.»
«Non ci pensare proprio, nonno è morto e tu vieni al funerale.»
«Mamma non posso, ho il ciclo.»
Ho il ciclo. Tre parole che dette al momento giusto possono troncare qualunque discussione con una vittoria schiacciante. Carla sapeva che avrebbero funzionato e infatti la madre disse subito: «Allora mettiti a letto e non fare niente.»
Dire di essere in quel periodo è del tutto normale, nessuno maschera più questa intimità e le mestruazioni sono diventate argomento di conversazione, di ironia da parte delle stesse donne, da poter affrontare con chiunque, addirittura con gli uomini.
Al paese non è mai stato così. Il ciclo rimaneva un piccolo tabù da nascondere in famiglia e gestire con ritualità consolidate nel tempo. Se una donna ha le sue cose non esce troppo di casa e sta al riposo, non lavora in cucina perché la carne che tocca rischia di perdersi e non cammina in campagna perché anche le piante avrebbero la stessa sorte. Una seccatura che si ripete di mese in mese, salvo irregolarità più o meno desiderate, che però può essere usata come giustificazione per evitare altre incombenze sgradite, ad esempio andare al funerale di una persona che in realtà era scomparsa da tanto tempo.
A diciannove anni, nel giorno del saluto a un nonno che adorava, Carla Caputo, figlia di Antonio e nipote di Lello, non era poi così triste perché si preparava a quel momento da circa un anno. Il nonno non era più lui da quando si era aggravato e aveva smesso di parlarle come faceva una volta. L’aveva abituata a delle domande scomode che l’obbligavano a riflettere, a non adeguarsi alla massa e alla pigrizia mentale. Lello le faceva continue raccomandazioni morali sul trattare bene se stessi e il prossimo, perché diceva che, a furia di insistere, qualcosa resta nella coscienza dei ragazzi. Negli ultimi mesi le cose erano cambiate e Carla aveva provato nostalgia per qualcuno che non aveva ancora perso.
La malattia di Lello si era mossa in fretta. A una certa età, quando i problemi sono troppi, i medici dicono che si sta morendo di vecchiaia. Secondo Carla, però, la morte non è la conseguenza della vecchiaia ma la causa. Sì, la morte è la causa della vecchiaia.
Nel suo paese aveva sempre visto uomini anziani spegnersi ben prima dell’ultimo giorno. Trattati come bambini problematici e sottovalutati nei loro desideri solo per la convinzione che presto tutto sarebbe finito. A Carla non piaceva quel modo di fare come non le piacevano i funerali. Nonno Lello diceva sempre che condoglianze e cimiteri sono cose che riguardano i vivi, non i morti.
E poi quella liturgia laica del lutto le sembrava assurda. Nel giorno del funerale tutto si ferma, non si fa rumore, non si fanno faccende di casa e qualunque impegno va rimandato. La tristezza è un obbligo, non un’emozione. A pranzo i parenti prossimi del defunto ricevono “il consolo”, cioè un pasto semplice e povero cucinato da altri parenti per evitare che in casa del morto si accendano i fornelli. Anche per la sua famiglia era arrivato il consolo: tagliolini in brodo! Carla non ci poteva pensare. Ad agosto, con un sole che scioglie le pietre, aveva dovuto mangiare la pasta bella calda. Una vera consolazione sarebbero stati pizza e gelato, altro che brodo.
C’era qualcosa di più. Non era il funerale a starle stretto, ma l’intero paese. Il mese precedente aveva superato l’esame di maturità ed era partito quel fantastico periodo di passaggio che per lei voleva dire solo confusione. Non era diversa dalle altre ragazze che conosceva, come loro aveva sogni e speranze, solo che non avevano nulla a che fare con quello che sembrava offrirle la vita. Di matrimonio, figli e lavori di casa non voleva neanche sentirne parlare, eppure era questo ciò che vedeva attorno a sé. I suoi genitori avevano fatto la stessa cosa e le dicevano che tutto sommato, se non voleva studiare, nell’attività di famiglia c’era spazio anche per lei, ovviamente fino a quando non avesse incontrato qualcuno con cui condividere il resto dei suoi giorni.
Aveva la sensazione che il destino fosse un imbuto dal quale si deve passare per forza. In poco tempo tutto lo spazio di opportunità si era ridotto lasciandole un’impressione un po’ deprimente e un po’ rassicurante. L’idea di non dover decidere perché tutto è già deciso è una prospettiva semplice, ma in cuor suo sapeva che la felicità non ha a che fare con le scelte semplici.
Così, mentre tutti erano in fila sotto il sole verso la chiesa, Carla seguì il bisogno di fare altro. Andò in cucina perché aveva fame e trovò solo taralli e Coca-Cola. Li prese e scese in cortile ad ascoltare musica. Sapeva di non poterlo fare in un giorno di lutto, ma era certa che nessuno l’avrebbe vista.
L’amore è un attimo. È sempre un attimo. Vivere un colpo di fulmine o scoprire quel qualcosa in più dopo tanto tempo non fa differenza perché è solo un singolo momento che cambia le cose, che segna uno scarto netto tra il prima e il dopo, con la consapevolezza che qualcuno è arrivato a complicare tutto e a rendere la vita più dolce.
Vedere Carla così bella e ribelle aveva steso Diego al primo colpo, innamorato senza possibilità di riprendersi. Tutto lo sconvolgimento interiore che gli provocavano i suoi diciannove anni finalmente aveva trovato una direzione e ora stava lì, all’angolo della strada, senza sapere cosa fare. Il primo impulso dell’amore non è correre felici e urlanti come in un film dal lieto fine assicurato. Un’emozione così grande fa paura e l’istinto è capire, razionalizzare, prendere tempo. Per fortuna la giovinezza non permette quasi mai alla ragione di vincere ed è per questo che le cose più intense succedono nella prima parte della vita.
Il caso si stava muovendo più veloce dei pensieri di Diego e fece incrociare il suo sguardo con quello di Carla. Lei terrorizzata, lui colto di sorpresa come durante un’interrogazione a scuola. Tirò fuori il miglior sorriso che aveva mentre Carla stava per fulminarlo. Aveva pochi secondi per convincerla a non mandarlo a quel paese e decise di giocarseli così.
«Meno male, pensavo di essere l’unico a non andare al funerale.»
«Tu perché non ci vai?»
«Perché alla fine della messa devo prendere per forza l’ostia altrimenti mia madre dice che facciamo brutta figura con il prete. Però a me l’ostia fa un poco schifo.»
Carla accennò un sorriso, era il segnale: se ride subito il peggio è già passato. Diego aveva aperto un varco nelle sue difese guadagnando l’opportunità di continuare a parlare senza sembrare un idiota che ci prova spudoratamente. Cioè, il suo interesse era evidente, ma almeno non dava l’idea del caso disperato. E proseguì.
«Quella cosa tonda che in bocca diventa molliccia, mamma mia che impressione. Almeno la vorrei masticare per mandarla giù veloce veloce, ma il prete dice che non puoi masticare “il corpo di Cristo”, devi aspettare che si sciolga. È una tortura! Si fa la pappetta sulla lingua e pare che non scenda mai. E poi quale corpo di Cristo? Cioè, quale parte? Allora comincio a pensare che ho un piede del Signore che mi si scioglie lentamente in bocca e vorrei vomitare, però non posso perché se pare brutto non prendere l’ostia figurati vomitarla. Poi chi se la sente mia mamma. Quella in chiesa praticamente ci lavora. Lei e don Aurelio insieme mi fanno paura, sanno i fatti di tutti quanti e a volte penso che la gente, quando combina qualcosa di male, glielo va a dire direttamente perché tanto lo scoprono comunque e poi è peggio, sicuro che è peggio. Quello mia mamma me lo ripete sempre: “Dimmelo prima se hai fatto qualcosa che dopo è peggio”. E se non le dico niente si preoccupa lo stesso, dice che non è possibile, che qualche guaio in giro lo devo aver fatto per forza. Io allora penso che forse è meglio se le dico che ho combinato qualcosina, così placa l’astinenza da confessione e sta meglio. Praticamente mia mamma è come una drogata e io per aiutarla mi impegno a saltare la scuola almeno una volta a settimana, ma non lo faccio mica per me, intendiamoci, io lo faccio per lei.»
Carla stava ridendo di gusto e a quel punto Diego pensò che a un santo in paradiso fosse caduta una grazia dalla tasca, incredibilmente finita dritto sulla sua testa.
«Ma tu nella vita parli sempre così tanto?»
«Sto zitto solo quando faccio le fotografie.»
Con gesti lenti che tradivano una finta incertezza, Diego tirò fuori dallo zaino la sua macchina fotografica. Quella mossa da giovane artista incompreso che apre una porta sulla sua anima se l’era studiata a lungo sperando che prima o poi potesse tornare utile per far colpo sulle ragazze. Incredibile ma vero, stava funzionando. Crescendo avrebbe capito che con le donne le strategie sono inutili, valgono solo tempismo e fortuna.
Diego le fece vedere qualche scatto, erano solo giochi di luce e controluce, finché a Carla cadde l’occhio su un volto conosciuto.
«Quella è la mia compagna di banco! Con chi si sta baciando?»
«Chi, Paola Caretti? Stava dietro al parco del campo sportivo con un ragazzo più grande, non lo conosco, secondo me viene da fuori. Mentre passavo li ho visti, non ho resistito e ho fatto la foto.»
«E questa? È Gina, quella del tabacchi in piazza. Sta uscendo dalla ricevitoria delle scommesse, là c’è solo brutta gente.»
«Sì, pare sia fissata con il gioco ma per non farsi vedere ci va all’ora di pranzo, quando in giro c’è poca gente.»
«E tu che ne sai?»
«Passavo da quelle parti
.»
«E non hai resistito all’impulso di scattare una fotografia. Chi vuoi prendere in giro. Sei sempre nel posto giusto al momento giusto tu?»
«Va bene, mi hai scoperto. Il fatto è che mia madre spesso aggiorna don Aurelio sui fatti del paese per telefono e io sento tutto dalla mia stanza. Quando l’inciucio sembra divertente mi apposto e faccio uno scatto, solo per divertimento.»
«Sei un paparazzo.»
«Una specie, ma tengo tutto per me. In questo modo ho la sensazione di riuscire a ritrarre le persone per quello che sono veramente e non per come vorrebbero apparire.»
«Con una fonte come tua madre avrai foto di tutti, pure di me?»
«No, assolutamente.»
«Confessa.»
«Potrei averti accidentalmente scattato una foto mentre stavi qui a mangiare e bere invece di stare in chiesa al funerale.»
«Cosa? Cancella subito o dovrai fotografarmi mentre ti uccido.»
«Ok, non ti arrabbiare, tu però cosa mi dai in cambio?»
«Al massimo posso offrirti taralli e Coca-Cola.»
«Ok, mi sembra equo.»
Così fecero il loro primo aperitivo insieme, ascoltarono la musica e pensarono che sentirsi vivi nel giorno della morte non fosse una colpa troppo grande.
Truccarsi al mattino è fondamentale per l’umore. Per applicare bene il fard sugli zigomi bisogna sorridere, in modo da metterli in evidenza. Così, anche se si è tristi, il trucco costringe a cambiare espressione in meglio.
«Zia, ora ti metto questo mascara scuro che mi ha prestato un’amica, lo sai che quest’anno va l’effetto panda?»
«A me sembra solo che mi abbiano dato un pugno nell’occhio.»
«Poi ti metto pure il rossetto prugna che s’intona al colore dello smalto, anche se avresti bisogno di un french fatto come si deve.»
«Carla, dobbiamo fare solo una passeggiata prima di pranzo e non ho previsto di passare in discoteca. Tuo padre me l’ha pure ripetuto mille volte: “Finché stai qui vediamo di darci una regolata”. Oramai non sono più sua sorella ma sua figlia.»
«E allora ti spiego la prima regola per una figlia di Antonio Caputo: non fare mai quello che dice Antonio Caputo, altrimenti passerai tutto il tempo tra faccende di casa e lavoro.»
«Carla, tuo padre ti vuole bene.»
«Anche io, però nelle ultime settimane si è fatto insistente; non lo dice, ma preferirebbe che non andassi all’università. Mi vuole a casa o pronta al matrimonio.»
«Cerca di aiutarti a risolvere i problemi, solo che lo fa a modo suo, che è l’unico che conosce.»
«Zia, ma tu non vorrai davvero restare qui al paese per sempre?»
«La mia situazione è diversa, devo parlare con Sergio.»
A Natale Anna, sorella di Antonio Caputo, aveva litigato per l’ennesima volta con suo marito Sergio. Si erano sposati quattro anni prima e vivevano a Roma, dove lui faceva il grafico. Lei, invece, si divideva tra contratti a progetto e ripetizioni perché in casa servivano due stipendi. Passavano ore nei mezzi pubblici e lavoravano tutto il giorno, spesso anche nel fine settimana, dovendo pagare un affitto assurdo per un bilocale a metà tra centro e periferia. Sergio aveva frequentato l’università a Roma e per anni aveva condiviso appartamenti con altri studenti perdendo completamente la sensazione di una casa vera, cioè quella in cui riconosci te stesso e i tuoi affetti. Quando aveva vent’anni e gli capitava di andare da un collega che viveva con i genitori diceva proprio così: “Questa è una casa vera”. Così, dopo il matrimonio, con Anna presero un posto solo per loro, piccolo e costoso come una villa al paese. Le prime crepe arrivarono con la nascita di Chiara.
«Chiara è la mia vita, però è difficile stare da soli in una città lontana senza parenti che ti possano aiutare. Devi affrontare troppi problemi. La baby-sitter tutto il giorno costa una fortuna, per questo l’abbiamo iscritta al nido già a sei mesi. Non ti dico che ansia lasciarla lì tutti i giorni così piccola, se ci penso mi viene ancora da piangere. In realtà al nido si è trovata benissimo e ci è sempre andata volentieri, ma il problema è che si ammalava in continuazione: febbre, varicella, malattie esantematiche. Io non avevo mai sentito parlare di quinta o sesta malattia e all’improvviso ho dovuto imparare tutto in un attimo. Dovevamo prendere continuamente permessi dal lavoro per restare a casa con Chiara e poi ci toccava recuperare anche la notte se necessario.»
«Sergio ti aiutava veramente?»
«Sì, lui si impegnava molto all’inizio. Faceva ogni cosa gli dicessi e il problema era proprio questo: dovevo pensare a tutto io, lui eseguiva soltanto. Avevo la sensazione che se per un giorno mi fossi dimenticata di dare da mangiare a Chiara lui sarebbe rimasto lì senza fare niente, come un computer in attesa di istruzioni.»
«Ma che idiota ti sei sposata zia, a me non è mai stato simpatico.»
«In realtà lo capisco, i primi tempi è tutto difficile. Vedi poco gli amici, stai molto in casa e le uscite del sabato sera si trasformano, quando va bene, nei pranzi della domenica. Lui aveva quel progetto del fumetto, che dovevo chiamare graphic novel altrimenti si offendeva. Ci teneva molto ma non riusciva mai a disegnare nulla perché o era in ufficio o c’era da fare in casa. Quando tornava diceva di avere la sensazione di riattaccare con un nuovo turno di lavoro tra faccende, bagnetti e pannolini.»
Se è vero che la felicità è fatta solo di momenti allora i figli sono delle montagne russe. Sono capaci di farti salire in alto oltre le nuvole con un sorriso e farti precipitare giù a tutta velocità prendendo energie e lasciando preoccupazioni. Carla ascoltava le parole di zia Anna ma non ne afferrava minimamente il senso perché non si possono capire i genitori senza esserlo. Alla fine le chiese la cosa più banale, quello che in paese tutti pensavano con molto cinismo sbagliando immancabilmente.
«Zia, ti ha tradita?»
«Carla, ascoltami, io e Sergio avevamo tanti problemi ma le corna non c’entrano nulla.»
«Sarà.»
«Sergio una sera è uscito di casa arrabbiatissimo perché non dormivamo da giorni e io gli avevo dato una rispostaccia. Lo aveva fatto tante volte solo che era sempre tornato dopo un giro del palazzo e una sigaretta. Questa volta si è presentato di mattina, mi ha detto che avrebbe continuato ad aiutarmi con Chiara ma che andava via di casa perché aveva bisogno di stare un periodo senza di me. Quel periodo è durato mesi e io ho accumulato una rabbia enorme. Quel bastardo ha sempre detto di amarmi veramente ma non è riuscito a resistere. Io penso che amare significhi questo: reggere alle difficoltà perché ne vale la pena. Pure io ero stanca, insoddisfatta di tante cose, però la sera mi mettevo a letto abbracciata a Sergio e Chiara ed era il momento più bello della giornata, ero felice di una felicità che mi bastava per tutto il resto. Lui invece non ce l’ha fatta, mi ha deluso tantissimo e mi ha pure lasciata sola e disperata. Dopo sei mesi quasi non lo sentivo più e mi dava pochi soldi. Ora neanche quelli. Quando lo vedevo lo volevo ammazzare. Per questo sono venuta al paese. Starò qui per l’estate e se le cose funzionano magari ci resto. Da qualche parte Chiara devo farla crescere.»
«Quindi dovete divorziare?»
«Non lo so. Prima c’è la separazione, ma se penso alle carte, agli avvocati, a quanto piangerò, non ce la faccio. Voglio solo starmene qui e aspettare che almeno qualcosa si aggiusti da sola.»
«Volete uscire da questo bagno? Sono due ore che state chiuse!»
«Papà un attimo, abbiamo da fare.»
«Vedete che io all’una voglio mangiare con il piatto caldo davanti. Se non ci siete vi arrangiate.»
«Va bene zia usciamo. Andiamoci a fare una passeggiata prima che papà ci chiuda in casa. Anzi sbrighiamoci che voglio vedere se c’è una persona.»
«Chi?»
«Niente, una persona.»
«Al maschile o al femminile?»
«E va bene, un ragazzo, voglio solo vedere se c’è, con chi sta, che fa.»
«E se ti viene a salutare, se ti chiede di uscire insieme questa sera.»
«Sì, effettivamente è una possibilità, solo che tu dovrai coprirmi con papà e dirgli che in realtà sto con te.»
«Carla cominciamo bene, tuo padre già mi odia perché mi sono lasciata con Sergio, non voglio peggiorare le cose.»
«Non ti preoccupare zia, andrà tutto bene, per tutti.»