La Bologna notturna, sotterranea, delle ombre e della nebbia, fa da sfondo ai 13 racconti di questa antologia. Gli autori che li hanno creati sono Bolognesi, di nascita o di adozione, e di questa città conoscono molto bene le contraddizioni. Come Stephen King ha immaginato il clown, emblema della risata e del divertimento, trasformato in spaventoso portatore di terrore e di morte, anche gli autori di questa antologia hanno saputo mostrare l’altra faccia di Bologna la grassa: quella più oscura e nascosta. Quella gialla, appunto.
RACCONTI E AUTORI: Cemento di Nicola Arcangeli, Il caso Nigrisoli di Claudio Bolognini, Le rane di Katia Brentani, Lo spaventapasseri stanco di Carmine Caputo, L’ultima colpa di Benedetta di Roberta de Tomi, Compagni di viaggio di Massimo Fagnoni, Notte da lupi di Lorena Lusetti, A due passi dalle pantere di Andrea Masotti, Il delitto di via Belmeloro di Francesca Panzacchi e Vito Introna, Interrail di Daniela Rispoli, In alto il calice di Mariel Sandrolini, La Dottoressa e il Professore di Viviana Viviani, Le conseguenze del frequentare biblioteche di Paolo Zamparini
Cemento
Nicola Arcangeli
Sto camminando sotto i portici in Strada Maggiore all’altezza della chiesa di Santa Maria dei Servi, proprio dove prima di Natale c’è il mercatino di Santa Lucia. È tardi, sono passate le due di notte e fa un freddo cane. Tengo le mani in tasca e affretto il passo perché ho una strana sensazione e una gran voglia di tornare a casa. Hanno ragione a definire Bologna una città oscura; lo è molto più di quanto appaia. Appena ci si allontana dalle chiassose osterie del centro la musica cambia, ci si ritrova immersi in un silenzio che può nascondere di tutto, dal barbone semi addormentato al tossico che ti aspetta dietro una colonna con un taglierino in mano e l’impellente bisogno di una dose. Il rumore della mia camminata riecheggia tra le volte del porticato dandomi l’idea che qualcuno mi stia seguendo. Accelero, ma quei passi mi sembrano sempre lì.
Così mi giro.
No, non c’è nessuno. È solo suggestione e forse un po’ di sfasamento per il baccano che c’era all’Osteria Broccaindosso. Vedo solo un gioco prospettico di forme che via via si rimpiccioliscono fino a Via dei Bersaglieri. Attorno a me il silenzio più assoluto, non una macchina, non uno schiamazzo, sarà per questo che sento i brividi invadermi il corpo e prendermi la spina dorsale dall’osso sacro fino al collo.
Freddo e stasi, combustibile e comburente di un senso di paura che mi accende le percezioni. Sono troppo impressionabile, è meglio che vada subito a raccattare il mio scooter in via Guerrazzi.
Penso a mia moglie e mio figlio a casa, addormentati e già vorrei essere là per dare un bacio al mio piccolo mentre dorme e per coricarmi sotto il piumone di fianco ad Anna. Gli amici mi prendono in giro per questo, dicono che sono una via di mezzo tra un orso e uno yeti, ma potessi starei sempre a casa.
Già, potessi...
Invece sono qui perché se non faccio gruppo con i colleghi rischio che mi facciano le scarpe e allora la commedia continua fino a questo porticato, nel cuore della notte e con la paura di essere pedinato. È un’idea che non mi molla.
Torno a girarmi per arrivare allo scooter, ma non vedo altro, non ricordo nulla. Niente via Guerrazzi, niente di niente: solo il buio.
Un buio senza fine... come adesso.
Sono qui che respiro a fatica, mi sento stanco e infreddolito, con un senso di oppressione addosso.
È come se stessi riemergendo dall’oblio, tutto è ancora così confuso che non so nemmeno se sono sveglio. Sono così intorpidito. Il corpo grida e si ribella e io non so domarlo, rimango immobile senza riuscire a far nulla, preda di uno stato di semi incoscienza che mi blocca. Mi ricorda un po’ quando mi operarono da bambino, una cosa da poco ma per la quale mi avevano dovuto addormentare: avevo dodici anni e l’anestesista si era chinato su di me sorridendo e sfidandomi: “Scommettiamo che dopo che ti metto questa non arrivi fino a tre a contare?”
“Certo” avevo ribattuto io.
Così, non appena mi mise la mascherina addosso, cominciai a contare: “Uno, due...”
Non arrivò mai il tre, in cambio mi svegliai qualche ora dopo con un forte malessere: stordimento, nausea, dolore a muscoli e ossa, necessità di muovermi e di dimenarmi per cambiare posizione, senza energia e con la respirazione accelerata.
Sensazioni dimenticate che tornano all’improvviso, vivide e presenti.
Cos’è successo?
È come se mi stessi risvegliando da un’anestesia. Ho la gola secca. Ricordo fin troppo bene quella volta per quanto tempo l’avevo dovuta tenere così arida: guai a bere acqua, avrei potuto dare di stomaco.
Brutti ricordi, ma perché adesso sono in questo stato?
Cerco di ricordare: le immagini scorrono nella mente all’infinito, cerco di aprire gli occhi, ma le palpebre si alzano a fatica e vedo solo il buio. Inizio ad aver paura, sento il mio respiro cavernoso diventare sempre più irregolare. Provo a inghiottire, ma non ci riesco, ho qualcosa infilato in gola. Non capisco. Riprovo, ma è tutto inutile. Sono ancora sui bordi dell’incoscienza, ma il terrore sta già strisciando sottopelle e subito un conato di vomito mi prende le budella. È come se mi avessero...
… intubato.
Ho avuto un incidente?
Ricordo che ero sotto il portico dei Servi e stavo andando a prendere lo scooter.
Però adesso sono qui, con un tubo in gola e una sensazione di assoluta impotenza.
Ho bisogno di un infermiere. Devono togliermi questo dannato tubo!
E poi questo odore di calce, ma che senso ha?
Provo a urlare, ma mi esce solo un suono gutturale e indefinito, vicino e pure lontano anni luce dai miei sensi.
Sono sveglio, non sto sognando: sto ragionando. Dev’essere notte e devo essere disteso su un letto d’ospedale. Ma dov’è il pulsante per chiamare?
Ehi ma... No! Mio Dio!
Non posso muovermi, cosa può essermi successo? È come se gli impulsi del cervello non arrivassero al corpo, mio Dio: le mani, il collo, le gambe. Non riesco a muoverle!
E non vedo nulla.
No, no, no!
Cos’è questa sensazione? Quando sbatto le palpebre è come se fossi bendato. Sento gli occhi che si aprono a si chiudono a fatica, senza percepire nemmeno un alone di luce. Qualsiasi cosa mi sia capitata non sono più privo di sensi, devono capirlo, non possono mantenermi così, sento già un nuovo conato salirmi lungo l’esofago!
Così rischio di soffocarmi!
Calmati, rilassati Ivo!
Come se non bastasse, ogni volta che provo a respirare profondo avverto un senso di costrizione che me lo impedisce, come... come se mi avessero messo una morsa attorno alla cassa toracica.
Che sia diventato tetraplegico? E anche cieco? Che cazzo mi è successo?
E poi cos’è questo odore?
Provo di nuovo a muovermi, ma non ci riesco.
No, aspetta! Non è proprio così...
Posso muovere le dita dei piedi, riesco perfino ad arricciarle dentro le scarpe...
Le scarpe!?
Se fossi su un letto d’ospedale dubito me le farebbero tenere. E allora dove diavolo mi trovo? Perché sono praticamente immobile tranne che nelle dita di piedi?
Non sono né tetraplegico né paraplegico... almeno credo. Ho sentito parlare di riflessi condizionati da parte di molti amputati che si sentono l’arto ancora vivo dopo averlo perso, ma non credo che sia il mio caso: sento perfettamente la suola delle scarpe, anche la parte vicino alla punta dove è leggermente consumata.
Cerco di capire, di percepire un rumore, un suono, ma sembra che mi abbiano murato i timpani.
Murato i timpani, odore di calce.
Dio mio! No!
Cerco di muovermi, ma non ci riesco, provo a serrare le mani ma incontro solo una resistenza che mi paralizza, sento i nervi vibrare, i muscoli tendersi, le ossa quasi scricchiolare, ma sono bloccato. I polpastrelli cercano di saggiare il mondo attorno a me trovando solo freddo e compattezza.
La compattezza di una roccia.
Ogni movimento che provo si blocca sul nascere, non posso piegare le gambe, sbattere i pugni. Provo a sacramentare ma esce solo una specie di ruggito di dolore. Allora piango.
Piango perché non ho subito nessun incidente e non sono in nessun ospedale.
Piango perché ho finalmente capito qual è l’odore che sento: è quello del cemento.
Mi hanno murato vivo!
Sono senza un sopra o un sotto, dicono che succeda se si finisce sotto a una valanga. È una strana sensazione, bruttissima. È come se un peso onnipotente fosse sopra attorno me, ai miei fianchi, davanti, dietro e io fossi parte di esso, in una sorta di gravità zero che mi lascia attonito e senza alcun riferimento.
Il disagio diventa panico. Vorrei gridare, piangere, ma mi è impossibile, avverto un nodo alla gola nascermi come un’eruzione, un singulto che si scontra contro quel maledetto tubo che mi hanno sistemato nel gargarozzo. Inghiottisco e una fitta lancinante mi dà l’idea che si sia spezzata la trachea. Vorrei piangere ancora più forte, ma so che mi ucciderebbe, così mi sforzo di controllare il respiro e rallentarlo per vincere gli spasmi e la paura e perché non ho nemmeno lo spazio per respirare a pieni polmoni.
Mi hanno messo questo tubo per darmi ossigeno; non mi hanno voluto uccidere, perlomeno non subito.
Devo pensare, riflettere.
Com’è possibile che mi abbiano fatto questo? Chi può avermi messo in questo blocco di cemento? E perché? Porca puttana! Mi costringe a soffrire, ad aver paura.
Devo cercare aiuto.
Con questo tubo in gola non sarà semplice, ma ci provo: “Aiucoooo, ho cachico coh’è huhhehho”. Riesco solo a pronunciare la c, la esse mi esce come un mezzo gargarismo, merda!
Ascolto, ma nessuno mi risponde.
“Chiacei huoi”. Avrei voluto dire ‘Tiratemi fuori’, ma tant’è, faccio io stesso fatica a sentirmi. In più ho anche la bocca chiusa con qualcosa di molto simile al nastro da pacchi.
Il mio sospiro mi riecheggia dentro come quello di Darth Vader.
Non succede niente. Tutto rimane buio, fermo e silenzioso. Non so più cosa fare.
Mi chiedo chi possa essere così malato da ordire una cosa del genere e costringere un essere umano all’interno di un muro di cemento mantenendolo in vita. Ma fino a quando poi? Fin quando non si sarà stancato? Metterà un tappo a questo maledetto tubo? O mi farà crepare di stenti e morire di sete? Prenderà un martello pneumatico e mi spaccherà la testa?
Ma poi, perché!?
Cos’ho fatto per meritarmi una cosa del genere? È contro di me o sono vittima di un errore o, peggio ancora, sono solo uno che si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato?
Non voglio morire...
Possibile che non ci sia nemmeno un appiglio, una piccola speranza?
Mi sento così impotente.
Vorrei piangere, ma non posso permettermelo; devo guadagnare tempo in attesa di un qualcosa, di un miracolo, di un gesto di clemenza del mio carnefice... di un meteorite, di qualsiasi cosa, porca miseria! Nel frattempo devo cambiare orizzonte.
Così comincio a pensare alle cose belle, a figurarmi il mio bimbo e la sua risata contagiosa. Mi crogiolo nel ricordo dei suoi abbracci e del suo odore di pulito. E allora lo vedo lì, davanti a me, com’era accaduto pochi giorni fa, per la festa del papà. A scuola aveva preparato un bellissimo biglietto con tanto di coccarda e una frase scritta di suo pugno: ‘Sei il papà migliore del mondo, ti voglio tanto bene’. E io l’avevo abbracciato stretto e mi ero detto che quello era il momento perfetto, quello per cui chiunque, madre o padre, sogna di vivere. Quella felicità che ti fa volare.
C’è poco da fare: più i ricordi sono belli e più il dolore, alla luce della mia attuale condizione, cresce. Mi viene da piangere, questa volta non resisto.
Lo faccio, ma in silenzio, cercando di governare quel toro imbizzarrito che è la disperazione. Lascio cadere le lacrime che mi scivolano appena sopra le orecchie e lentamente muoiono dietro la nuca.
Sono stanco, ho voglia di dormire e sognare.
Mentre mi addormento un pensiero mi coglie: sono steso di schiena; le traiettorie delle lacrime parlano chiaro. Potrà essermi utile? Non lo so, non ho la forza di pensare ad altro. La stanchezza si sta impadronendo di me lasciandomi al pensiero dei miei amori.
Continua