Fausto è un emiliano sulla trentina. Canta, suona, gli piace il cinema e adora scrivere.
In tutto è cintura nera di mediocrità.
Nel breve volgere di un giorno il destino lo priva di fidanzata e miglior amico.
Troverà rifugio nell’impiego in una sgangherata videoteca frequentata da una variopinta umanità.
Tra la nebbia della pianura padana e le spiagge di Formentera, al ritmo di citazioni cinematografiche, A che ora ti chiamo? è un romanzo degli equivoci, dei sogni infranti, del Peter Pan da scacciare o accettare come perenne compagno di viaggio. Una lettura per chi ha amato il clima folle del film Clerks, le fughe in stile Marrakech Express o i personaggi grotteschi di Bar Sport, dove ridere non è solo delle sventure altrui, ma anche di se stessi e delle proprie debolezze.
Un libro per chi si accorge ogni giorno che la realtà sa essere più sorprendente di ogni fantasia.
Carloalberto Vezzani, classe 1969, vi narrerà dalla sua piccola videoteca, della lieve follia di un luogo in via di estinzione e farà di voi, probabilmente, l’oggetto della prossima storia.
A che ora ti chiamo? è la sua opera prima.
Non ti distrarre
Che non sarebbe stata una gran giornata si era capito subito da una terrificante craniata gentilmente regalatami dallo spigolo del comodino alla sinistra del mio letto. Dopo trenta secondi, ancora intorpidito dal dolore, pensai bene che una doccia avrebbe ridato tono al mio fisico lievemente provato dalla precedente esperienza. Completamente insaponato, cominciavo a dubitare dell’esistenza di un Dio quando un rumore sordo e tristemente noto, proveniente dalla caldaia, fece cessare la fuoriuscita d’acqua.
Cercai di dirigermi verso la cucina per trovare una bottiglia di minerale, vedendomi costretto a essere vieppiù blasfemo perché realizzavo passo dopo passo che la sera prima l’avevo finita.
Mi rimanevano solo un quarto di rosso d’Albola e una Coca Cola e, con la coda dell’occhio semiaperto, constatai che il pacchetto di sigarette vuoto sul mobile della Tv poteva essere il triste suggello di quella mattina non proprio felice.
Era l’otto dicembre, “il giorno della Madonna”.
Ormai prossimo alle lacrime causate da dolore e frustrazione, squillò improvvisamente il telefono.
“Pronto!”
“Ciao amore sono Lilli, che stavi facendo?”
“Stavo cercando di evitare la cecità causata da sapone, schiuma e bile fuori controllo. Ho un bernoccolo del diametro di una pallina da golf che mi gonfia l’arcata sopraciliare. Tu piccola che fai? Hai per caso avuto notizie dei romanzi?”
“Non hai ancora sentito Marco? No, non so nulla, credo non ci siano novità. Vedrai che appena sa qualcosa ti chiama, anche perché il tizio della casa editrice aveva detto che vi avrebbe contattato comunque, ricordi?”
“Lo so, lo so. Se non avessi impiegato gli ultimi dieci minuti della mia vita a cercare di sopravvivere, ti giuro che avrei chiamato Marco o la segretaria del Perini. Lo faccio appena mettiamo giù, amore. Tu dove sei scappata stamattina?”
“Avevo una lezione, non ricordi? Sono a Bologna con Giovanna.”
“Ah già!”
“Il seminario dura fino alle 15:00, ci vediamo stasera. Lo sai che ti amo vero? E sai anche che sei il mio scrittore preferito, che questa volta andrà per il meglio e potrai coronare il tuo sogno, n’est ce pas?”
“Eh, figurati… va bene, dai, l’ora dei gufi è scoccata. Ti lascio, provo a riaprire gli occhi… bacio.”
Riattaccai.
Lentamente il bruciore agli occhi scomparve e in pochi secondi riacquistai una parvenza di vista.
Io e Marco, il mio migliore amico, da anni coltivavamo la passione per la lettura e la scrittura. Sin dai tempi del liceo la tendenza a rivaleggiare e a competere ci aveva più volte fatto scrivere racconti brevi piuttosto che poesie. Questa nostra inclinazione, che ci accompagnava ormai da una quindicina d’anni, era passata attraverso mille frustrazioni. Sì, perché in anni di improduttive peregrinazioni avevamo subito le più svariate forme di dinieghi e bocciature sottoforma di: “Cosa voleva dire? Che messaggio dovrebbe lasciarci la sua storia? Queste cose non vanno più” e per finire “Credo che lei dovrebbe dedicarsi ad altro.”
Marco aveva pubblicato con un paio di editori minori una serie di racconti brevi, che ebbero successo ma solo in ambito regionale, con l’aggravante che il mio amico non vide mai una lira dei proventi. Io avevo messo in internet un romanzo al quale avevo lavorato tre anni e una ventina di poesie giovanili, con il risultato di dodicimila visitatori in un anno; dato che alle case editrici, nei mesi a venire, suonò più come una mia smania statistica che una reale e valida referenza.
Gli amici comuni, le rispettive compagne che si erano succedute negli anni, il nostro autentico legame più che decennale e l’amore per quell’hobby settario avevano contribuito a non farci desistere dal nostro progetto, dal famigerato sogno nel cassetto: diventare degli scrittori e poter vivere facendolo di mestiere.
Negli ultimi quattro mesi avevamo inviato materiale ad una decina di editori più o meno famosi. Seguirono silenzi più che eloquenti. L’unico che ci degnò di una seppur minima attenzione fu un certo Dott. Perini, un ex attore teatrale che, grazie a una eredità imbarazzante, realizzò il suo sogno di fondare una casa editrice per scrittori emergenti. Sembrava davvero l’unico a credere nelle nostre possibilità, o forse era stato semplicemente l’unico che si era degnato di leggere ciò che gli avevamo inviato.
Era l’unica, concreta possibilità che avevamo. Lo sentivamo ogni settimana e il primo di dicembre, evidentemente tediato dai nostri continui contatti telefonici ai quali banalmente e con le scuse più svariate ricorrevamo per aver accesso a una qualche forma di udienza, sentenziò sibillino:
“Tranquilli ragazzi, il 7 mi vedo con i vostri carnefici. Lo sapete già, faccio il tifo per voi, ma ho un gruppo di progetti da promuovere e non sono l’unico finanziatore di questa iniziativa. Ne abbiamo già parlato, si tratta di pubblicare dodici scrittori emergenti e, se andrà bene, faremo pubblicare singolarmente i rispettivi lavori. Nella peggiore delle ipotesi ripiegheremo su di una raccolta delle cose più importanti di ciascuno. Ora, la riunione noi l’avremo il 7 sera, vi giuro che l’8 al mattino, anche se è festa, sarete i primi a sapere del vostro destino, nel frattempo acqua in bocca e soprattutto NON CHIAMATEMI PIU’, d’accordo?”
Facile immaginare che la settimana d’attesa passò cercando i più disparati modi per stemperare ogni tensione e l’innegabile voglia di sapere quanto prima il responso finale.
Passammo le giornate a divorare le ore di lavoro che ci separavano dalla sera, momento nel quale i nostri deliri da posseduti, raggiungevano vette insospettabili.
Marco lavorava “casualmente” da due anni nella libreria più affermata di Mantova, potendo vantare una voracità letteraria di prim’ordine e l’ambizione di diventare un giorno uno di quei bellimbusti in posa per la quarta di copertina di uno dei tanti romanzi che spostava da uno scaffale all’altro.
Io invece ero passato ai cugini del cinema, lavoravo in una videoteca d’essai nel modenese, un’autentica rarità.
Stavamo traghettando da anni le nostre ambizioni e le nostre più lontane paure di non farcela con la speranza che un giorno qualcuno ci avrebbe svegliato, trovando la riva giusta per farci compiere lo sbarco al quale aspiravamo.
Liliana aveva vissuto con me gli ultimi due anni di tribolazioni e tentativi, dovendo subire peraltro i miei frequenti attacchi d’ansia dovuti alle immancabili bocciature.
Finii di aggiustare quella caldaia recidivante e mi venne in mente che alla sera non sarei stato in grado di vedere Liliana per cena, perché era il compleanno di Gianni e, immemore di tale funesta dimenticanza, decisi di dirglielo subito al telefono in modo da lasciarle la possibilità di organizzarsi la serata.
“Ciao Lilli.”
“Amore dimmi, buone nuove?”
“No, non ancora. In realtà ti ho chiamato per dirti che mi sono ricordato che compie gli anni il nostro amico poliziotto, me ne ero completamente dimenticato. Faremo la solita cena in collina col gruppo di scollegati, quindi non ci sarò ok?”
“Tranquillo, era scappata anche a me la ricorrenza, che ci vuoi fare, forse l’avevamo rimossa visti i precedenti degli anni passati. Va beh, dai, ci sentiamo più tardi, mi raccom… ”
La parola fu mozzata di netto da un fragoroso e inequivocabile annuncio, molto, molto simile a quello di un altoparlante di una stazione ferroviaria, che gracchiante emise un secco “MANTOVA STAZIONE DI MANTOVA.”
Il silenzio di pochi secondi che seguì all’altro capo del telefono, si tradusse in una serie di dubbi immediati. Liliana tentò di trovare rifugio in un commiato di maniera, plausibilmente forzato, che la aiutasse ad uscire da quella difficile situazione.
“Mi raccomando se ci sono novità ci sentiamo, ciao.”
“Ciao.”
Mantova? Che cazzo ci faceva a Mantova, perché due minuti prima mi aveva detto di essere a Bologna a un corso?
La testa cominciò a scansare deduzioni e illazioni che, ronzando melliflue, cercavano di insinuarsi come tarli nel legno.
In breve però non potei non elucubrare una losca e impensabile teoria, che anche ai miei occhi normalmente incauti e creduloni non pareva davvero somigliare a una casuale coincidenza.
Il mio amico Marco abita e lavora a Mantova. Noi abitiamo a Carpi e Lilli a Mantova ci va una volta all’anno. Precisamente per il festival della letteratura che si tiene in settembre.
Perché si trova là, perché oggi poi?
Non capivo, davvero non mi tornava quella menzogna frettolosa consumata tra i binari virgiliani.
A quel punto la curiosità, travestita da timore allo stato puro, prese il sopravvento. Decisi che sarei andato a fondo, avrei preso la moto e in barba a una logica vecchia come il mondo, “occhio non vede, cuore non duole”, avrei scardinato quella sequela di dubbi che, umidi, cominciavano ad appesantirmi il petto.
Prima che i gesti seguissero le mie intenzioni, il telefono prese a squillare nuovamente.
“Sì?”
“Ciao Fausto, sono Marchino.”
“Ciao socio (simulando una calma tibetana), allora qualche novità, dai non tenermi sulle spine, sai qualcosa?”
Il tono della sua voce nell’incipit della telefonata l’avevo immediatamente interpretato come il presagio di qualche brutta notizia se non la triste conferma della paventata pugnalata alle spalle.
“Beh… vedi, non è andata così bene Fausto.”
“Lo sapevo... spiegati per favore.”
“Cioè non è andata proprio come ce l’aspettavamo noi, ce l’eravamo immaginata diversa. Fausto non so come dirtelo ma... il mio romanzo lo hanno scelto, il tuo purtroppo no.”
“Ah… ma pensa!”
Oltre al prevedibile scompenso dovuto a quella notizia non propriamente accolta dal mio animo come una lieta novella, un’altra voce riecheggiava sistematica tra testa e cuore.
La sua voce, le sue pause e il suo tono mi dicevano in che direzione andare e quale interpretazione dare ai segnali precedenti.
“Senti Fausto, io non lo voglio fare il libro, lo avevamo detto tante volte o tutti e due o nessuno, ricordi? Non è giusto. A parte che così hanno dimostrato tutta la loro incoerenza, e poi insomma lo sapevano che tipo di legame ci unisce, non è giusto.”
“Quale tipo di legame ci unisce?” avrei voluto chiedergli a bruciapelo, ma non lo feci. Rimasi ferito ma riuscii a contenere la rabbia.
“Ma che cazzo dici Marco, ma ti pare. Non ci siamo mai promessi nulla del genere e poi io al tuo posto non ci penserei un minuto, ti voglio bene ma nei sogni non c’è tutto questo tempo per i sentimentalismi: i sogni durano poco e se svanisce il loro effetto benefico puf… addio; quindi Marco, grazie per la solidarietà, ma se non lo pubblichi sei un deficiente, ok?”
“Davvero non lo so Fausto, mi dispiace un casino.”
“Ho capito Marco. Senti smettila, sono contento, davvero contento per te, lo meriti perché scrivi bene e sei una bella persona.”
Falso come i soldi di cuoio (diceva mio nonno).
Fino a prova contraria il fatto che lui e Lilli c’entrassero con la storia dell’altoparlante restava tutta da dimostrare.
L’unica possibilità era di recarmi a Mantova, seduta stante.
Pronto a uscire di casa, mentre mi accingevo a vestirmi con l’abbigliamento del motociclista, arrivò una telefonata che a quel punto della vicenda si rivelava del tutto inaspettata.
“Pronto?”
“Amore ciao sono sempre io. Senti mi sono dimenticata di dirti che se per te non ci sono problemi domani mattina alle nove c’è una lezione di Umberto Eco e mi farebbe piacere rimanere a dormire da Giovanna, così appena sveglia sono già qui. Tu hai il compleanno di Gianni quindi ci vedremmo solo per pranzo. Che ne dici? A meno che…”
“A meno che cosa?”
“A meno che non arrivino notizie strepitose da festeggiare.”
Ma che gran brutta persona. Era già a Mantova pronta a festeggiare col suo amante, nonché mio amico e collega di mille passioni (che coincidenza le passioni, a quanto pareva erano diventate mille e una, l’ultima nata era amare la stessa persona, cioè la mia fidanzata) e continuava a fingere l’innegabile. E poi da quando si fa lezione l’otto di dicembre, che è festa?
In sintesi: una gran troia lei, un gran bastardo lui.
Che senso aveva prendermi così palesemente per il culo, quando in realtà lei sapeva già che il romanzo di Marco era stato scelto e il mio no?
E poi perché continuare a fingere quando anche la chiacchierata di qualche minuto prima avrebbe dovuto dissuaderla dal proseguire, o perlomeno avrebbe dovuto infonderle qualche ragionevole dubbio circa la prosecuzione di quel perfido progetto concubino?
L’altoparlante rivelatore avrebbe dovuto dirle che una qualche forma di comprensione mi avrebbe sfiorato la mente. Invece, la massima da lei perpetrata sembrava proprio essere la celeberrima negare l’evidenza.
La seconda telefonata in realtà era la risposta alle mie neonate inquietudini.
La subdola voleva assicurarsi che il provolone che desumeva avere quale compagno non avesse realmente compreso dove ella si trovasse. Il mio tono e la mia reazione le avrebbero fornito le risposte immediate di cui necessitava.
Cercai una qualche forma di armonia zen per equilibrare la voce, anche se stomaco e viscere intonavano una canzone dei Metallica.
“Figurati Lilli non c’è problema. Tranquilla, in negozio ho una marea di ordini da chiudere e poi stasera festeggiamo il pazzo quindi, come dici tu, no problem. Tranquilla, davvero”.
“Sei sicuro? Non è che dopo mi tieni il muso come tuo solito?”
No che non sono sicuro bastarda, ingrata. Ma come hai potuto, lurida bugiarda, solo tre mesi fa mi chiedevi cosa ne pensavo dell’idea di avere un figlio e come minimo stavi già amoreggiando col mio amico. Come hai potuto prendermi in giro per così tanto tempo? E poi con Marco, cazzo. Con tutti ma non con lui, il mio miglior amico, non si fa, ci sono delle regole. Quante volte ce lo siamo detti di essere onesti, che non avremmo mai e poi mai fatto perdere tempo, energia e salute all’altro.
Quante volte ti ho pregato scongiurando gli Dei di non mentire sul nostro rapporto, che avremmo affrontato tutto nel bene e nel male. Ma lo stronzo sono sempre io, che sapevo tutto, ma ignoravo la realtà. Dimenticavo di giorno in giorno le banalità alle quali prestavo il fianco e mi dimostravo sordo e cieco riguardo ai molteplici segnali che la tua insofferenza da tempo immemore mi trasmetteva.
Sono io che avrei avuto bisogno di più onestà. Avrei dovuto ascoltare quella voce fioca ma inequivocabile che la prima sera che ti conobbi, dinanzi allo specchio di casa mia, mi disse perentoria: non è per te, ti farà soffrire e tu non la renderai felice.
E invece sai cosa ti dico: che non è giusto, cazzo, che mi fa una male cane qui in mezzo allo stomaco e la testa sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro, quindi, gran madrina di tutte le mignotte, io posso dire che ti amo, io lo posso dire.
Io confermo al mondo che gli spilli che ho conficcati nel petto sono tuoi, me li appunti di secondo in secondo con la tua ingratitudine e il tuo egoismo.
Se il massimo che riesci a fare è trattarmi come un idiota raccontandomi solo fandonie e vuoi che sia io a fare, visto l’ineluttabilità degli eventi, beh mi uniformo, cara la mia giovane meretrice, ok!
Da oggi, visto che si cambia, mentre festeggi con quello sterco travestito da uomo, io sevizio la tua gatta. Rendo giustizia al mondo animale e sindacalmente mi unisco veemente alla protesta, avendo subito anch’io privazioni sessuali negli ultimi tempi.
Decido, contrariamente alle tue teorie pro-sterilizzazione, che è giunto il momento che la tua micina la dia via, e di gusto anche, porca puttana! Scendo le scale, vado dai Corsini, la faccio montare per un paio d’ore da Igor (un gatto di trentadue chilogrammi che guarda i film di Rocco Siffredi) così forse capirai che qualcuno a cui veramente tieni si salvaguarda, si protegge, si accudisce, e non lo si fa solo parlando a sproposito: lo si fa coi fatti, per cui della mia rabbia sicuramente non te ne farai nulla, ma di quella della tua gattina forse sì. Addio merdina.
Quella erano le parole che avrei voluto proferire, in realtà ribadii il concetto laconico di poco prima:
“Ma sì, te l’ho già detto. Non ti preoccupare.”
“Va bene. Allora ciao amore… ti amo.”
Quelle parole stridevano nei miei timpani stupiti e increduli di tanta impudicizia.
Non riuscivo a concepire come una persona che sta palesemente tradendo, quasi a voler annientare una qualsiasi forma di alibi, si scopra in maniera tanto smaccata e inequivocabile. A quel punto, in una sorta di regressione mentale, mi comportai come molti degli abbandonati per amore. Allorquando emerge la realtà lapalissiana, si trova a forza uno spiraglio, si allarga volontariamente e in modo goffo quell’unica e tanto amata cruna dell’ago, che si rivelerà essere soltanto il nostro univoco e stupido modo di non credere alla realtà.
Per un tempo che variò dai cinque ai sette secondi, riuscii a giustificarla.
Pensavo: “Dice quelle cose perché in realtà mi ama davvero, cioè mi vuole bene ma non sa come dirmi che non c’è più la magia dell’inizio. Magia che forse ora prova per un altro e, proprio perché mi ama, non trova la forma indolore per comunicarmelo.”
All’ottavo secondo, un vaffanculo censorio delle mie cazzate ed un principio di lacrima strozzata resero con chiarezza la realtà che appariva di ben di altra natura.
La contraddittorietà delle miei reazioni necessitava urgentemente di un ausilio esterno. Da solo, frastornato da quel risveglio allucinante, cominciavo davvero a perdere la ragione.
Cercai di mettere ordine ai pensieri per non lasciarmi andare a comportamenti affrettati.
Telefonai a Gianni, l’amico poliziotto, per chiedere se fosse stato possibile revocare la validità del servizio civile da me svolto dieci anni prima, potendo così comprare una Beretta e scatenarmi nella follia omicida tipica delle faide coniugali.
Da subito il valido amico mi scoraggiò suggerendo una tattica più accorta.
“Intanto non sai esattamente come sono andate le cose, prima devi sapere con assoluta certezza.”
“Gianni cosa devo aspettare? Che Marco sotto Natale mi chieda di andar per negozi a comprare il regalo a Liliana, dai, che equivoci vuoi che ci siano? Anche tu lo sai già, guarda che non c’è bisogno di consolarmi, la realtà ce l’abbiamo davanti agli occhi.”
“Ho capito, ma voglio dirti che per poterli accusare non puoi dire loro che hai sentito un altoparlante gracchiare mentre parlavi al telefono. E poi lo saprò io cosa si fa in questi casi, o no?”
Pensai un attimo all’ultima asserzione e in effetti Gianni aveva in quel suo tono una certa solennità che di tanto in tanto riusciva a fare presa. Il più delle volte però era impossibile non ricordare in brevissimo tempo quali e quante disavventure erano legate al nome e alla scarsa fortuna del mio amico agente.
Come quella volta che a un’uscita tra soli uomini (tutti regolarmente sposati o fidanzati) propose una simpatica gita nel rovigotto, alla ricerca di uno pseudo-agriturismo che un collega gli aveva caldamente consigliato.
Ovviamente aveva garantito a tutti gli astanti (dodici anime in pena) che sarebbero tornati per il canonico coprifuoco, evitando ogni genere di complicazioni, ma semplicemente passando una serata in un bel locale con facce nuove.
L’agriturismo in realtà si rivelò essere una stalla riattata, dove una donnona di cento chili serviva con poco garbo pietanze non troppo prelibate e il di lei marito, dal nome già parecchio inquietante (Bernardo), dopo averci devastato con ogni sorta di sostanze alcoliche ci condusse su, in quello che tempo addietro era stato un simpatico solaio, dove pronte e fameliche ci attendevano dodici (guarda il caso) esseri femminili in calze a rete e giarrettiere che mi parevano avere poca attinenza con lo spirito aziendale. A dire il vero, se quello che avevamo mangiato era tutto prodotto dall’allegra famigliola, il sospetto che il concetto valesse anche per le donne del piano di sopra (alla faccia della prole!!!) ci fece dubitare di essere al cospetto del più puro esempio di azienda a conduzione famigliare.
Non andò così. I nomi delle pulzelle erano: Irina, Svetlana, Greta, ecc… e fu facile capire che non erano stagiste che si divertivano con un simpatico hobby dallo zio Bernardo.
Il bollettino fu terrificante: in tre (io, Marco e Francesco) tornammo divorati dal rimpianto alle 4:40, dovendoci inventare storie di forature, aggressioni e controlli della stradale.
In due purtroppo tornarono alle 5:20, ma in realtà a quell’ora, centrarono l’unica unità abitativa presente all’inizio di una piccola frazione nei pressi di Godo (credo che il nome fosse veramente poco casuale). La sorte volle che la casa che sventrarono fosse quella di un padre france-scano che, nel valutare gli ingenti danni subiti dalla propria abitazione, comprese anche che i due pirati della strada erano totalmente ubriachi e che le due pertiche seminude al loro fianco non erano due assicuratrici preoccupate per qualsivoglia franchigia.
Padre Franco, e anche in questo caso il nome non tradiva le promesse, chiamò carabinieri, carta stampata, una TV locale, e per tre TG regio-nali nei condomini dei due sventurati, si poterono udire solo le grida e le minacce delle rispettive mogli un tantino risentite per essere state tradite in diretta TV.
Ne mancano ancora sette all’appello.
Ugo si è sposato con Irina, si è separato circa un anno dopo, non prima di essere messo sul lastrico dalla consorte sovietica. Ora vaga con l’animo del redentore andando in giro a parlare male delle ragazze dell’est che in qualche modo sbarcano il lunario su e giù per lo stivale.
Paolo, quella sera, fu l’unico di quelli rimasti dopo le tre a non consumare nessun tipo di esperienza. Si seppe qualche tempo dopo che era parecchio omosessuale e che quella sera fu per lui una rivelazione in tal senso.
I rimanenti cinque imbecilli furono assolti dall’accusa di sfruttamento della prostituzione qualche mese dopo. Alle 6:56 di quella mattina indimenticabile fecero irruzione nel solaio peccaminoso la guardia di finanza insieme a tre pattuglie dei carabinieri e una dei NAS, per porre fine a quella che era un’indagine che andava avanti da mesi.
Chi ci condusse verso quell’inferno dantesco?
Gianni, un poliziotto per bene. Gli voglio bene come se fosse normale, intendiamoci, però da allora stento a fidarmi pienamente.
Lui ovviamente dal triste episodio mette bolli ai passaporti, ma gli è rimasta addosso quella follia involontaria che lo rende davvero unico, nel bene e nel male.