Quante sono le donne che subiscono violenza e non decidono di farsi aiutare?
Le storie di Elisa e Serena sono le storie di tante donne, con trascorsi di violenza iniziati sui banchi di scuola.
Dal 1990 a oggi più di undicimila donne hanno trovato rifugio presso La Casa delle donne per non subire violenza onlus. Il Centro Antiviolenza accoglie in media circa 700 donne in un anno. Spaventoso, se si pensa che questi dati provengono dal Centro antiviolenza che opera sul territorio di Bologna e limitrofi. Ancora più spaventoso se ci si rende conto che questi sono i numeri riferiti alle donne che chiedono aiuto.
L’autrice: Cristina Orlandi ha pubblicato diversi racconti in varie antologie, tra cui Nessuna Più, (Elliot Edizioni, 2012), in Donne che fecero l’impresa Emilia Romagna (Edizioni del Loggione), Brividi a Cena in Appennino bolognese, Brividi a cena in Valmarecchia, Brividi a cena nel territorio pratese (Edizioni del Loggione).
Ha pubblicato il volume Bologna Meravigliosa (Edizioni della Sera), e curato l’antologia Bolognesi per sempre (Edizioni della Sera), il romanzo I Boschi del Tempo (Damster).
Dal 2018 è responsabile editoriale della collana “R come Romance”, la sezione dedicata alla narrativa “rosa” di Edizioni del Loggione.
Anno 2006, fine settembre,
da qualche parte in provincia di Bologna.
La luce dell’alba cominciava a filtrare attraverso le tende della cucina. Serena era stanca per la notte in bianco appena passata, ma l’adrenalina cominciava a farsi sentire, e il senso di fiacca per la mancanza di sonno stava lasciando il posto a un tremito convulso.
La notte precedente, Serena non aveva dormito perché era stata torturata. Domenico, il suo compagno, aveva deciso di punirla per qualche oscura colpa, e aveva all’uopo escogitato una penitenza di cui aveva sentito parlare, ma che ancora non aveva sperimentato: aveva impedito a Serena di dormire. Domenico non aveva autorizzato Serena a sdraiarsi nel letto, né a stendersi sul pavimento. Per evitare altre botte oltre quelle già prese, la donna era stata costretta a passare la notte su una sedia della cucina. In virtù di quella che a Domenico pareva una grande magnanimità, le era stato concesso di appoggiare le braccia sul tavolo. Ma attenzione: obbligatorio tenere la schiena diritta e vietato appoggiare la testa sulle braccia conserte o sul piano del tavolo.
Domenico, dopo aver dettato a Serena i comandi su come passare la notte, aveva bevuto una birra, poi un’altra, e alla fine si era coricato, sprofondando nel consueto sonno da creatura laida e ripugnante. Incredibile come, in un tempo ormai lontano, Serena avesse potuto credere di amarlo, al punto da accettare di condividere con lui la propria esistenza e relativo cammino.
Durante quella notte da incubo, Serena ripercorreva l’ultima lite tra lei e Domenico.
Lui l’aveva cercata per soddisfare il suo istinto di accoppiamento. Strano quanto lui non facesse altro che disprezzarla, apostrofandola con un’ampia gamma di insulti, per poi cercarla regolarmente per appagare le proprie voglie.
Serena sapeva bene che sottrarsi a quello che Domenico considerava un “dovere” voleva dire prendere un sacco di botte, per cui di solito cercava di accontentarlo.
Quella sera, però, era davvero molto stanca. Così stanca che, dopo cena, si lasciò sfuggire uno sbadiglio e disse che sarebbe andata a letto subito.
Bastò questo perché lui si innervosisse.
Come si permetteva, la femmina, di lasciarlo in bianco, dicendo semplicemente di essere stanca?
Prima che lei potesse indossare il pigiama, lui l’aveva già afferrata per i capelli, trascinandola verso il tavolo di cucina, non senza averle rifilato un paio di manrovesci.
«Sei stanca, eh? Ora ti farò sperimentare una cura contro la stanchezza» disse.
«Vedrai, ti piacerà. Si chiama “non si dorme”, è una cura sperimentale. Consiste nello stare svegli.»
Per dimostrare a Serena che non scherzava, Domenico le diede un altro schiaffo, mentre le diceva che quella notte, se non voleva farlo arrabbiare, doveva stare sveglia per temprarsi contro gli attacchi di sonnolenza.
Domenico aveva passato la notte nel solito modo, russando, sbavando ed emettendo rumori maleodoranti. Aveva impostato in modalità vibrazione la sveglia del cellulare con ritmi irregolari, a sorpresa, per controllare che Serena non stesse dormendo. Una volta l’aveva sorpresa appisolata, accasciata sul tavolo, vinta dalla stanchezza. E per la ragazza erano state altre botte. Sulla testa, sul viso, come sempre in quel maledetto incubo senza fine che era la sua vita.
«Ti ho detto che devi stare sveglia!» le aveva urlato, colpendola di nuovo sulla testa con un pugno.
Ed era stato in quel momento di umiliazione estrema che Serena aveva deciso che quello sarebbe stato il giorno più importante della sua vita. Il giorno in cui avrebbe lasciato Domenico.
«Tu sei mia, a ogni costo. Mia, o di nessun altro» le ripeteva spesso. E Serena si rendeva perfettamente conto della minaccia contenuta in quelle parole, il cui senso preciso era: “Se mi lasci, ti ammazzo”.
Un incubo iniziato sette anni prima, quando Serena aveva solo ventitré anni.
Era da un po’ che Serena aveva progettato di fuggire. Aveva cercato sull’elenco telefonico l’indirizzo della Casa delle donne, associazione che si occupa di fornire aiuto e ospitalità alle donne maltrattate e in pericolo. Di nascosto, aveva preparato una piccola valigia con lo stretto necessario e aveva iniziato a mettere da parte un po’ di denaro. Spiccioli, ovviamente, perché Domenico le confiscava tutto, compreso lo stipendio. Soprattutto lo stipendio. Ma un po’ di spiccioli alla volta erano meglio di niente.
Serena lo sapeva, con quei pochi spiccioli non sarebbe andata lontano, ma d’altra parte sapeva anche che non poteva continuare a rischiare la vita ogni giorno, sotto lo stesso tetto di quel pazzo.
Il pensiero del salto nel buio la terrorizzava. Lasciare la casa e i suoi effetti personali era di per sé una decisione forte, che le causava traumi. Per una donna, la casa è vita. “Ma una casa in cui ci sta Domenico è morte” si disse Serena. La promessa di libertà le disegnò un sorriso segreto, che Domenico non doveva vedere. Si alzò dalla tavola a cui non si sarebbe seduta mai più, e si preparò un caffè. Ufficialmente, era quasi ora di andare al lavoro. Domenico si alzò poco dopo. Vide Serena indaffarata in cucina e, soddisfatto, andò diritto verso il bagno. Serena sapeva bene come quello fosse l’orario della “botta di neve”.
Rozzo, violento, pericoloso e pure drogato. Ogni mattina Domenico si fumava e tirava polvere di cocaina. Ogni mattina rischiava la morte. Serena aveva smesso da tempo di sperarci, sapeva comunque che, appena assunta la dose quotidiana, seguiva almeno un’ora di rincoglionimento totale per Domenico, che per Serena equivaleva a un’artificiale e drogata tranquillità.
Quel giorno, Serena trattenne il respiro. Quel giorno, forse, il suo inferno sarebbe finito. Forse. Qualcosa sarebbe potuto andare storto.
“Addio fuga, se oggi decide di ‘farsi’ più tardi, magari mentre io sono al lavoro” pensò Serena, angosciata.
Il rumore del getto di urina nel water, seguito da quello dello sciacquone.
La maniglia della porta del bagno si abbassò, e Serena si ritrovò a sospirare, rassegnata.
“Ora esce per prendere un po’ di caffè”.
Domenico le si avvicinò, e lei gli porse una tazzina di caffè. L’uomo, ancora innervosito per la lite della sera prima, senza parlare le diede una spinta e aprì il cassetto delle posate. Ne estrasse un cucchiaino, che usò per zuccherare il caffè che afferrò in fretta, come se ci avesse ripensato. Poi tornò a chiudersi nel bagno.
Il sollievo fu talmente grande che Serena credette che il cuore avrebbe finito per scoppiarle dalla gioia! Andò in camera a vestirsi. Poco dopo, Domenico uscì dal bagno. Pulito.
Serena si sentì perduta. Vero, tra poco avrebbe potuto uscire con la scusa di recarsi al lavoro, e approfittarne per fuggire, ma come sarebbe riuscita a giustificare la valigia?
Ma l’angoscia di Serena durò poco: Domenico finì velocemente di vestirsi e uscì di casa.
“Ora o mai più” pensò Serena. “Devo solo varcare la soglia e sarò libera”.
La valigia! Serena la afferrò dal nascondiglio in cui si trovava da settimane, sotto la cesta del bucato, e uscì, senza dimenticarsi di portare con sé qualcosa di estremamente prezioso.
La paura le toglieva il fiato, ma doveva correre. Sbrigarsi, perché poteva rientrare da un momento all’altro. Senza voltarsi indietro, Serena uscì di casa, chiudendo in silenzio la porta dietro di sé. Scese in strada, prese l’auto e partì decisa verso una vita nuova.