Personaggio controverso e fascinoso, emblema della bellezza pericolosa, Elena di Sparta è portatrice di una complessità che ci sfugge. Crediamo di conoscerla, eppure, per certi versi, di Elena non si sa niente. Si sa, invece, l’effetto che fa sugli altri, al punto – così si dice – di aver causato una guerra. Chi ha paura di Elena, dunque, e perché? Qual è la verità su di lei? Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata dalle donne, apparentemente Elena non riabilita il femminile, non si presta a essere un’eroina da imitare come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio. Così sembrerebbe. Ma andando alle radici sembra disvelarsi la possibilità di una storia diversa e di un’altra bellezza. Perché fra le pieghe della Storia esiste sempre un’altra storia, soprattutto se il soggetto è donna. L’autrice, indagando su una fitta rete di fonti a volte disattese o trascurate, con occhio attento e consapevole ricostruisce un personaggio vivo e quanto mai attuale che ci rimanda a grandi temi della contemporaneità: l’uso (e abuso) del corpo delle donne, la fabbrica della propaganda bellica, la bellezza da possedere a tutti i costi, da consumare, mercificandola o asservendola al potere come strumento di seduzione.
Primo capitoloChi ha paura di Elena?
Fascino, disprezzo, pregiudizio
Il letto degli amanti è ancora caldo quando Menelao torna nella sua reggia violata. Si respira il suo odore. Lei non è più lì.
Elena.
Basta pronunciare il suo nome per suscitare pensieri che, come onde concentriche, si allargano intorno a lei. Bellezza. Distruzione. Fascino. Tradimento. Guerra, una guerra per una donna.
Qualche volta Menelao la sogna, e quelle visioni portano nel suo cuore l’illusione che la sposa gli dorma ancora accanto, che sia ancora sua. Poi, il simulacro che lo ha fatto trasalire gli scivola tra le mani precipitandolo di nuovo nell’angoscia.
Nelle stanze deserte ogni immagine di bellezza diventa insopportabile, sono freddi gli occhi delle statue. I soldati devono ancora vestirsi di armi ma il dio della Morte, come un mercante, ha già messo il banco nel campo di battaglia.
Distruttrice di navi, distruttrice di uomini, distruttrice di città, accusa chi legge nel suo nome la radice della perdizione. Helenas, helandros, heleptolis.1
È davvero così?
Chi ha paura di Elena?
Lei appare sempre con un fruscio di vesti leggere e una luminescenza che irretisce.
Gli occhi le si posano addosso, rapiti. Allora, il tempo si ferma sull’orlo dell’abisso e sbiadisce la memoria di ciò che era stato – tangibile, reale – fino a un istante prima.
È la donna dalla bellezza insostenibile, eppure non è mai descritta.
Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte.
Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa.
Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla ma non l’abbiamo mai guardata. È questo il suo paradosso, o forse l’indizio che ci lascia, agli albori di un viaggio nel suo mondo misterioso.
Di lei si conosce, però, l’effetto che ha sugli altri.
Incantamento. L’indicibile desiderio di possederla per sempre. Il piacere frammisto a un terribile senso di libertà. La paura, anche.
Lei è la grande disvelatrice, lo specchio dei desideri, ma gli esseri umani non sono sempre all’altezza della verità. Come muri mal costruiti, si sfarinano al suo incedere gli intonaci dei vincoli prestabiliti, delle convenzioni sociali, delle apparenze.
Bisogna tenerla lontana. Così, sulle mura di Troia i vecchi la guardano e parlano stridendo come cicale sugli alberi, con voce sottile: “Somiglia alle immortali terribilmente” dicono. “E se è così bella è meglio che se ne vada.”
I pensieri degli altri
Lei è lì, poco distante, ma finge di non sentirli, non si cura dei vecchi-cicala e delle loro parole vanesie. Parla, invece, con il padre del suo “secondo marito”, l’uomo che la chiama “figlia” riservandole una tenerezza a cui non è abituata e che lei ricambia, rendendosi docile alla sua richiesta di descrivergli gli avversari. Così, per qualche istante, Priamo ed Elena contemplano la battaglia e i destini degli uomini, dall’alto, come se non fossero proprio al centro delle vicende narrate. Sollevandosi dalle candide vesti, la mano di Elena indica al re troiano il cognato di un tempo, Agamennone sovrano e guerriero, Odisseo dai pensieri sottili, Aiace gigantesco, rocca degli Achei.
Poi un pensiero la assale, e con gli occhi inizia a frugare tra la folla in armi, in cerca di Castore e Polluce, i suoi fratelli. Si chiede perché non ci siano.
Già un tempo lontano i due inseparabili erano accorsi a salvarla, ma allora era diverso – avrà pensato –, allora era stato quell’uomo oscuro a rapirla, e lei era solo una bambina.
Forse non sono mai partiti, si dice cercandoli, o rifiutano di andare sul campo per la vergogna, per il disonore. Innocenza e colpevolezza si confondono in lei, mentre indaga con apprensione le ragioni di quell’assenza; i pensieri e l’eco di un passato sepolto rimbombano assordanti, senza risposta.
Quando si rivolge a Priamo, in questi versi dell’Iliade2 densi del suo mistero e della sua ambiguità, Elena chiama sé stessa “cagna”, quasi a volersi consegnare apertamente alla riprovazione.
È davvero così?
Nessuno come lei è capace di svelare, come un potente specchio, il pensiero degli altri, di imitarne le voci: la donna-cagna che si finge una penitente3 non fa che descrivere ciò che gli uomini sono capaci di fare, per un trofeo, per orgoglio, per un patto violato: muovere una guerra, uccidere, accecarsi di rovina.
Fino a pochi istanti prima di raggiungere Priamo sulle mura, Elena ha continuato a dar forma ai suoi stessi pensieri, reclusa nella sua stanza.
Riempendo la sua solitudine, ha consumato le ore tessendo un’immensa tela di porpora per raffigurarvi le imprese dei Troiani domatori di cavalli e dei Greci dai chitoni di bronzo: è questa l’immagine che la ossessiona, da cui non riesce a liberarsi, maestosa e malinconica.4
Lei, la multiforme, la mutaforme, sa bene di essere molte cose, vittima e maestra di contemplazione, oggetto del desiderio e tessitrice visionaria chiamata a rappresentare la sua stessa storia.
A rappresentare la storia del mondo.
Donna contro donna
“Uccidila” grida Ecuba a Menelao.
La città è già arsa in un grande fuoco, sono morti i guerrieri lasciando vedove e orfane che, in un oscuro contrappasso, saranno deportate come concubine dei loro carnefici più prossimi. Cassandra tocca ad Agamennone, e vede già con gli occhi della sua mente i tappeti rossi distesi da Clitennestra fino alla camera della loro morte; Andromaca apparterrà al figlio del guerriero che ha sterminato la sua famiglia – Neottolemo figlio di Achille; Ecuba sta per imbarcarsi sulla nave di Odisseo, il distruttore della città in cui un tempo regnò felice e amata da tutti.
Omero è alle nostre spalle, siamo dentro i versi immensi delle Troiane di Euripide, rappresentate mentre Atene sprofondava nei gorghi della spedizione in Sicilia, in una guerra senza ritorno.
“Uccidila, Menelao!”
L’ossessione di Ecuba è che lui porti Elena con sé, sulla sua nave, e che lei lo seduca di nuovo e per sempre. La regina di Troia sa bene che per resistere alla sposa perduta Menelao non deve vederla, altrimenti lei lo catturerà con il desiderio, con il veleno del suo incantamento che dagli occhi scivola lungo il corpo e irretisce la mente. «Attira gli sguardi degli uomini, distrugge gli stati, incendia le case. È così affascinante!»5
A Elena Ecuba rimprovera tutto. Di essere volubile, sempre attenta a sentire dove spira il vento. Di aver causato una guerra. Di essersi infiammata d’amore per quel figlio bellissimo, rilucente d’oro, che le avrebbe concesso ogni lusso, saziato ogni appetito. Nelle sue parole, Afrodite non è una dea ma il nome del vizio, è estasi, ambizione. Con i suoi trascorsi Elena avrebbe dovuto presentarsi umile, vestita di stracci, tremante di paura e col capo rasato. Invece, anziché impiccarsi o trafiggersi con una lama per il disonore, ha l’impudenza di mostrarsi bella.
Così dice a Menelao, per appiccare in lui il fuoco dell’odio e della rivalsa.
Cosa rende il maquillage di Elena persino più deprecabile delle mani guerriere e vigliacche che hanno precipitato dalla rocca il corpo del piccolo Astianatte?
Perché la bellezza di una donna è imperdonabile?
“Com’era vestita?”
“Cos’ha provocato?”
Come un inquietante coro millenario, le parole delle Troiane mettono in scena i riverberi della cultura patriarcale sull’universo femminile, e quanta violenza possa essere agita anche dalle donne contro una donna.
Risuona ancora forte la voce di Ecuba che chiede a Menelao di stabilire la pena di morte per coloro che tradiscono il marito,6 o quella di Andromaca che allatta i figli illegittimi di Ettore per legare a sé lo sposo ma disprezza le donne fedifraghe:7 nel nome di Elena le parole di Euripide svelano le contraddizioni di una società scissa, spaccata in due.
«Il non essere più deboli di quanto comporta la vostra natura sarà un grande vanto per voi, e sarà una gloria se di voi si parlerà pochissimo tra gli uomini, in lode o in biasimo»8 dice Pericle, “esortando le donne” nell’epitaffio ai caduti con cui celebra la democrazia ateniese.
Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata (e temuta) dalle donne, apparentemente la regina di Sparta non riabilita il femminile, non si presta a essere un’eroina da imitare come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio. Ma questo suscita una domanda.
Perché il dolore e la rinuncia di una donna sono più accettabili del fascino, della bellezza, del piacere? Il corpo sgozzato di Ifigenia è ancora caldo mentre proprio i suoi carnefici tessono le lodi del suo contegno e della dignità con cui accetta di sacrificarsi per la “Patria”.
Nel mito di Elena si annida il seme di un male che non è stato ancora compreso, trasformato, sconfitto. Sulla sua capacità di salvarsi Ecuba ha ragione. Lei tornerà a Sparta e sarà di nuovo regina. Siederà ancora sul trono, non solo per quei seni bianchi come un cigno che faranno trasalire Menelao, aprendogli la mano che impugna la spada di una vendetta impossibile.9
Unica a chiamare Zeus “padre”, Elena è anche una dea, lo scrigno che contiene il mistero della donna e della sua potenza.
Così, andando alle radici della sua storia, sembra disvelarsi per noi la possibilità di un’altra bellezza.
Il monito a trovare una nuova dignità e a farla risplendere.