Il dottor Ermenegildo Bosco, da pochi mesi trasferito dalla sua amata Venezia alla direzione di uno dei più famosi commissariati romani, si trova alle prese con una serie di delitti accaduti in buona parte ai Fori Imperiali. Particolari e suggestive sono le vittime di questi crimini.
Il trans ucciso brutalmente avrebbe voluto avere ben definita la sua identità con un seno erboso e rigoglioso di cui andare fiero. In realtà la situazione è complessa e imbarazzante perchè vede, al contrario, altri personaggi assassinati ristretti nei limiti d’identità non definite.
Le modalità simili di questi efferati delitti spingeranno l’opinione pubblica e i mass media ad ipotizzare l’esistenza di un crudele serial-killer. Nel corso delle indagini Bosco dovrà confrontarsi con personaggi di rilievo della “Roma bene” e del Vaticano e si renderà conto che, a volte, non tutte le verità possono essere perseguite.
Giacinto Monari e Gigi Taddei sono due autori di Modena
Roma, giovedì 22 maggio 2008
ore 4, Fori Imperiali
Era una notte buia di luna nuova. Una persona stava scavando tra le macerie di un sito archeologico abbandonato nei pressi del tempio di Giulio Cesare. All’improvviso un uomo passò di corsa a una decina di metri alla sua destra e un altro lo raggiunse per poi colpirlo alla schiena con un movimento che parve una pugnalata. Spaventato si nascose stendendosi a terra. Con orrore gli sembrò di vedere un fiotto di sangue zampillare dal collo della vittima. Il disgraziato, pur ferito, riuscì per un attimo a divincolarsi urlando: «No, no, perché?», ma l’altro con un balzo lo raggiunse continuando a colpirlo selvaggiamente. L’uomo steso a terra chiuse gli occhi per non vedere una scena così cruenta e contemporaneamente si portò le mani tremanti alle orecchie per non udire le urla strazianti della vittima. Restò così, incredulo e terrorizzato, senza rendersi conto del passare del tempo, poi, lentamente e con estrema prudenza, si alzò guardandosi attorno. Vide solo il corpo del disgraziato riverso a terra; l’altro, il suo assassino, per fortuna era scomparso. Non ci pensò due volte, e col cuore in gola fuggì il più veloce possibile in direzione delle luci che illuminavano il Colosseo.
Venezia, venerdì 9 maggio 2008
Bosco osservava distratto la campagna veneta scorrere oltre il finestrino. Quante volte aveva viaggiato su quel treno che da Rovigo porta a Venezia! I primi tempi, dopo il trasferimento alla Questura della laguna, ritornava a Rovigo per trascorrere il weekend insieme alla fidanzata Eleonora. Eleonora era stata il suo primo grande amore quando ricopriva la carica di vicecommissario nella sua città natale. Anche questa volta si ricordò di quei viaggi con un po’ di tristezza perché col passare del tempo il suo sentimento per Eleonora era via via scemato e ogni volta pesava il ricordo sfumato di quell’amore che portava con sé la fine della giovinezza, una giovinezza che ci si accorge di aver perduto solo quando è ormai troppo tardi e tutto diventa irreparabile. Così per Bosco arrivò il giorno che non prese più quel treno. Cercò di distogliere la mente da quei pensieri. Erano trascorsi già tre mesi da quando aveva accettato il trasferimento a Roma. Con un po’ di amarezza considerò che mai avrebbe pensato di lasciare una città nella quale si sentiva protetto, a suo agio, quasi come fosse tra le braccia della madre, quella madre che aveva perduto quando era ancora adolescente. Come poteva aver accettato di rinunciare alle sue passeggiate da Rialto a San Marco? O, peggio ancora, come poteva aver pensato di smettere di visitare luoghi sconosciuti al turismo di massa ma, forse proprio per questo, particolarmente amati? Non avrebbe mai immaginato di poter fare a meno di sedersi sul suo terrazzino e osservare pulsare la vita di tutti i giorni in quella sorta di teatro-verità che era quel tratto di Canal Grande.
La vista del Ponte della Libertà che collega Mestre a Venezia lo stupì ancora una volta distraendolo da quei pensieri. La città s’intravedeva appena, avvolta com’era da una leggera foschia, nonostante la primavera inoltrata. Mentre il treno si avvicinava alla stazione percorrendo lentamente quei quattro chilometri, Bosco iniziava a riconoscere le cupole, le torri e i palazzi che emergevano dalla foschia. Scese a Santa Lucia e, come sempre, avvertì la spiacevole sensazione del caos. Transitando davanti a un’edicola, la sua attenzione fu attratta dalla notizia, riportata a lettere cubitali sulla locandina di un quotidiano, della formazione di un nuovo esecutivo:
Roma 8 maggio 2008 nasce il quarto governo Berlusconi, il LX della Repubblica.
“Mah!” rifletté fra sé. “Dopo le esperienze precedenti chissà come sarà questo”. Come molti illusi non credette che al male non c’è mai un limite.
A stento riuscì a farsi largo camminando in mezzo a un’orda di turisti vocianti che occupava quasi per intero i gradini a ridosso della stazione.
“Qui la primavera è solo sul calendario – pensò –, poi fa anche freddo, e dire che a Roma è addirittura troppo caldo”.
Già, Roma. La mente tornò a quando il Questore Menarini, il romagnolo col quale aveva avuto un rapporto a dir poco difficile, lo sorprese invitandolo a cena. Fu mentre gustavano quella grançeola rimasta nel ricordo che il Questore gli propose il trasferimento nella capitale.
«Dottor Bosco, in considerazione dei meriti acquisiti in tanti anni di lavoro, ho il piacere di proporle la possibilità di un trasferimento presso il commissariato di Piazza Venezia, uno dei più prestigiosi della Questura di Roma.»
Bosco non se l’aspettava anche se, per la verità, l’inusuale invito a cena lo aveva preparato a qualche sorpresa. Era facile intuire che Menarini voleva sbarazzarsi di lui non riuscendo a trasformarlo in un sottoposto obbediente e fedele.
«Sono davvero commosso – rispose – ma non capisco perché non abbiano proposto a lei la direzione della Questura di Roma…»
«In effetti me lo sarei meritato» rispose con un sospiro Menarini, presto corroso dal dubbio che Bosco lo stesse prendendo per il culo.
«Commissario – rispose mentendo spudoratamente – in verità non ci tengo più di tanto a quel ruolo, è lei che ha la possibilità di trasferirsi e credo che alla sua età, mi risulta che stia per compiere 62 anni, sia un’occasione irripetibile prima della pensione, vero?»
«Veramente sarebbero 61, ma non credo che l’età sia importante. Comunque, Dottor Menarini, rifletterò a lungo sulla sua proposta, entro un paio di mesi le darò una risposta…»
«Eh no! La decisione deve essere presa entro un paio di settimane» precisò il Questore con un tono decisamente meno cordiale.
«Non posso darle una risposta in tempi così rapidi, sono impegnato in un’indagine molto complessa e ho problemi personali che devo risolvere.»
«Lo sapevo che lei, pur di farmi un dispetto, avrebbe rifiutato anche un riconoscimento come questo. Va bene, le do un mese di tempo per una risposta e non un giorno di più.»
«D’accordo, però, scusi dottore, possiamo parlare d’altro almeno fino alla fine di questa deliziosa grançeola?» concluse la conversazione mentre pensava che mai e poi mai avrebbe lasciato Venezia. In realtà non fu così perché una serie di avvenimenti presero a pesare su di lui, al punto di fargli mutare opinione.
La morte dell’amico Giorgio Molin, con il quale aveva avuto in comune un grande amore per la pittura, gli pesava sempre più col passare del tempo. Erano trascorsi quasi quattro anni, ma ancora continuavano a mancargli le loro passeggiate in cerca di nuovi scorci da dipingere. Non aveva più l’animo di camminare solo e così restava spesso chiuso in ufficio, raramente usciva la sera. Anche Matteo “Diogene”, il suo folle ex compagno di scuola, filosofo e anarchico, era profondamente cambiato. Amici comuni gli avevano confidato che si era invaghito di una vedova più ricca che bella e aveva completamente mutato stile di vita. Se ne rese conto incontrandolo per caso una sera a teatro in compagnia di un’anziana signora di bassa statura e molto in carne. Aveva i capelli corti, era sbarbato e indossava un’impeccabile giacca doppio petto: davvero un insulto al suo passato d’istrione antisociale. Bosco, incredulo, accennò un saluto e in cambio lui, allargando le braccia, restituì un mezzo sorrisetto che stava a significare: “Mi sono arreso, ma che ci vuoi fare, ero stanco di vivere con le pezze al culo”. Bosco rimase di sale, ormai si era abituato alle lunghe discussioni con l’amico sul perché dell’esistenza e sulla natura della Natura. Scontri che spesso finivano con l’enigma rappresentato dall’uomo: troppo intelligente per concludere i suoi giorni sulla Terra ma troppo stupido e fragile per poter sperare di viaggiare nell’Universo. D’altra parte cosa mai avrebbe potuto sperare dall’Universo, la vita era spesso difficile e dura anche a un metro da casa. Tutte queste discussioni ora non avevano più senso, esisteva già una risposta: l’uomo era semplicemente un animale il cui unico fine era il temporaneo benessere personale.
L’evento più spiacevole, comunque, fu la decisione di Giuliana Peretti, la sua vice, di accettare il trasferimento alla scuola di polizia di Nettuno. Bosco si era prodigato inutilmente per convincerla a desistere da quel proposito. Si era illuso che le notti trascorse nel suo attico e i momenti abbracciati sul terrazzino a parlare di tutto avrebbero potuto farle cambiare idea. Non la cambiò, e ormai era trascorso quasi un anno da quando Giuliana si era trasferita. Tutto ciò lo aveva scosso e profondamente addolorato.
Una domenica mattina, come d’abitudine, era seduto al bar Quadri in Piazza San Marco quando un’orda vociante di turisti aveva spazzato via l’incanto di quel luogo lasciando una scia di sporco che lordava il selciato. Più tardi nella sua mansarda, guardandosi allo specchio, si accorse improvvisamente di quanto fosse invecchiato: le rughe si erano trasformate in solchi profondi, i capelli e la barba erano diventati in gran parte bianchi, solo gli occhi di un bell’azzurro gli ricordavano lo sguardo che aveva da ragazzo. Anche Venezia, come un po’ tutta l’Italia, stava cambiando: nelle piazze, nei palazzi, nelle strade e nelle espressioni della gente c’era un’atmosfera malata di decadenza. Non sentì più quel posto come casa sua. Fu in quel momento che prese la decisione e l’indomani si presentò dal Questore confermandogli di accettare il trasferimento a Roma.
«Lei è un uomo fortunato Bosco, può chiudere qui la sua carriera a Venezia per andare a gestire un ufficio di assoluto prestigio» sentenziò allungando la mano verso il commissario.
«Non lo so, dottor Menarini, che differenza in fondo ci sia fra il chiudere bene o male un periodo della propria vita; quando finisce tutto sommato è come se non fosse mai esistito, salvo che per pochi bei ricordi ma tanta amarezza» rispose Bosco lasciando in fretta l’ufficio senza stringere la mano al Questore.
Appena confermata la sua nomina a Roma, aveva messo in vendita l’attico e in pochi giorni si era già presentato un acquirente. La sua visita a Venezia aveva proprio lo scopo di firmare il rogito, operazione che chiuse rapidamente senza nemmeno entrare un attimo nell’appartamento, non poteva sopportare la vista dal terrazzino.
Uscito dallo studio notarile, decise di fare un salto in commissariato per salutare alcuni uomini della sua ex squadra, in particolare Esposito, il suo fidato assistente di un tempo. Di sicuro gli avrebbe offerto il suo personalissimo caffè con una miscela a tre componenti, anche se non era certo il caffè che rimpiangeva in quel commissariato. Provò un grande piacere nel rivedere persone con le quali aveva condiviso momenti difficili e altri esaltanti quando, dopo una complessa indagine, il colpevole veniva assicurato alla giustizia.
Mentre usciva gran parte della sua vita gli passò davanti agli occhi. Si affrettò per non mostrare la propria commozione camminando senza voltarsi verso la stazione. Entro sera sarebbe stato di ritorno a Roma e così la domenica, a villa Borghese, avrebbe potuto ammirare la mostra del periodo “africano” di Pablo Picasso.
“Già – considerò – almeno nella capitale le rassegne artistiche non mancheranno di certo.”
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