L’essere umano fin dai suoi primi vagiti è l’incarnazione vivente di una questione che si ripete assillante: Che cosa vuole l’Altro? Tale questione è indirizzata verso il luogo (che finora nella nostra civiltà è stato occupato generalmente da una madre) dal quale comincia a prendere consistenza la funzione dell’Altro, da intendersi come alterità primigenia.
Quindi si può affermare che l’essere umano non è altro, nel suo stesso essere, che il porsi reiterato della predetta questione indirizzata all’alterità. E qui dovremmo correggerci perché, propriamente parlando, è da questo luogo dell’Altro che l’essere vivente – Je – pone siffatta questione.
Uno dei modi più tipici in cui la troviamo declinata è la formula: io ti domando che cosa sono per te. Il vantaggio di questa formulazione è di farci intendere che questa domanda nella sua essenza ultima è una domanda di segni d’amore. Una volta ottenuti questi, o anche solo fortuitamente captati, seguirà l’identificazione dell’essere umano a questi stessi segni quali altrettanti tratti dell’Ideale dell’Io. L’Ideale dell’Io è il punto da dove il soggetto si vedrà amato e amabile.
Ma questo risultato è insoddisfacente. Nulla potrà arrestare il porsi insistente e indefinito di questa domanda a partire dalla sequenza dei significanti che si dispiegano nel campo dell’Altro. Ciò accade perché è mancante nell’ordine simbolico il Significante del desiderio dell’Altro, il significante fallico, il solo significante capace (se ci fosse) di significare se stesso e che viceversa con la sua mancanza dà la ragion d’essere a tutti gli altri significanti, così come analogamente con la sua presenza determinerebbe l’abolizione di tutti quanti gli altri significanti. Questo significante del desiderio dell’Altro dunque, la cui rimozione è dunque qualcosa di irriducibile, lascia senza risposta ultima la questione sul desiderio dell’Altro, che in questo modo è un Altro colpito dalla barra della castrazione simbolica. Tale questione è simbolizzabile nel simbolo S(A/).
Lacan entra in dialogo con Socrate: cosa ne è della gloriosa massima socratica “conosci te stesso”, incisa nell’oracolo di Delfi, dopo il grande sisma che si è inscritto nella parabola del Logos con Freud? Dal momento cioè in cui l’inconscio comincia a calcare le scene della ragione, il “conosci te stesso” diventa insostenibile, viene ferito dal fatto che non può più essere enunciato in modo integrale perché gli va affiancato un costitutivo, essenziale insuperabile “io non so”, come posso conoscere me stesso se in me abita questa ferita del “non so”?
Con questa fondamentale ferita sullo sfondo, Lacan riprende il Platone del Simposio che ci ha descritto una situazione amorosa caratterizzata da uno sbilanciamento: l’erastès o l’eron l’amante, qualcuno che manca di qualcosa e che attivamente lo cerca nell’Altro che presume avere questo qualcosa e l’eròmenos, l’amato, qualcuno che ha o che si presume avere, in posizione passiva. Su questa coppia platonica classica, che Lacan va a ripescare e a rinverdire, egli aggiunge la modificazione radicale e devastante che l’adagio socratico subisce dopo l’avvento dell’inconscio, il Conosci te stesso che dopo Freud è divenuto Io non so. E dall’abbinamento tra amante-mancante e Io non so da una parte e tra amato-che ha e Io non so dall’altra, scaturisce tutta la problematica del desiderio nella visione psicoanalitica e la spiegazione del fatto che il desiderio che muove l’amante verso l’amato è votato a uno scacco.
Va da sé che la coppia platonica amante/amato è riformulata alla luce del fatto che colui che manca non sa di cosa manchi e colui che ha è qualcuno che non sa che cosa abbia.
L’incontro tra la mancanza e la presunta consistenza non è però a incastro, non è naturale perché l’introduzione del non so condanna l’uno e l’altro a un non incontro sostanziale, come ben descrive l’esempio lacaniano del ballo in maschera, dove Arlecchino cerca e trova la sua Colombina e Colombina il suo Arlecchino, ma a festa finita, quando calano le maschere, l’uno e l’altra si trovano reciprocamente ad ammettere che non erano proprio quelli che stavano cercando.
Se questa è la formula della sfasatura, l’amore come metafora verrebbe ad avvolgere questa faglia irriducibile per portarvi rimedio e cercare di sanarla permettendo a questo iato di tenere e stare insieme. Allo scacco del desiderio risponderebbe insomma la riuscita della metafora dell’amore come metafora di compensazione.
Dire all’inizio del capitolo terzo che la metafora dell’amore costituisce il rimedio che tampona la deficienza fondamentale nell’incontro dell’Altro veicolato dal desiderio è un gong che risuona in duemila anni di discorso sull’amore, se pensiamo che già la filosofia e la teologia medioevali – da S. Agostino a Scoto Eriugena a S. Tommaso o Duns Scoto – abbiano dipinto una grande opera erotica con il loro impegno a raccogliere e analizzare le innumerevoli sfumature del concetto di desiderio e di amore, nella spasmodica ricerca tesa a capire quale forza spinga un uomo verso una donna e quale spinga l’uomo verso Dio e Dio verso il mondo.
Torniamo allo scoramento finale con cui si concludeva la festa da ballo, la caduta delle maschere e la constatazione che il desiderio non ha portato a raggiungere ciò verso cui si anelava. Questo scacco va letto in contrapposizione all’amore invincibile della falange tebana, che è l’antitesi della delusione davanti alla caduta delle maschere: se alla caduta delle maschere corrisponde il momento dello iato, la falange tebana rappresenta, al contrario, il legame più saldo e invincibile che si sia potuto instaurare fra commilitoni.
Due grandi generali tebani, Pelopida ed Epaminonda, s’erano resi conto che l’unico modo di rendere invincibile un esercito era far sì che fosse costituito non da unità isolate tese a salvare la propria pelle ma da unità binarie, accoppiate, in cui ogni miles combattesse sì per se stesso – per mantenersi all’altezza dell’ideale da guerriero che gli veniva presentato dal mentore più anziano e più valoroso a cui era legato – ma anche cercando di salvare l’Altro, in forza di quel rapporto d’amore che legava strettamente l’uno e l’altro soldato, il giovane e il suo maestro. Così, trasformando l’esercito da luogo in cui venivano aggregate unità isolate a massa in cui si aggregavano unità abbinate e per di più congiunte dal vincolo saldo dell’amore, se ne ebbe come risultato una forza possente e invincibile.
Il fallimento del desiderio e la salvezza dell’amore sono due realtà antagoniste di cui il desiderio è il motore primario votato al fallimento, mentre l’amore, formazione di risulta, è capace di un legame poderoso che il desiderio, benché abbrivio di tutto il processo, non riesce ad assicurare.
L’amore è una forza capace di grandi cose, che unisce e che gli dei premiano perché strabiliati dalla sua potenza. La riflessione di Lacan va in un crescendo rossiniano: Orfeo ama Euridice come Alcesti ama Admeto e Achille ama Patroclo; tutti e tre amano, ma l’amore vero è solo quello di Achille.
Quello di Orfeo è un amore fiacco, vile, che infatti gli dei puniscono: scende sì nell’Averno, ma non è disposto a sacrificarsi per lei; vuole che lei ritorni in vita perché la desidera accanto a sé per godere del loro amore da vivi, ma non la ama fino al punto da sostituirsi a lei.
Nella vicenda di Alcesti la testimonianza del legame d’amore è più forte: ella si sacrifica per il marito, sacrifica la gioia e il godimento che le darebbe la presenza dell’amato, prendendo il suo posto e gli dei premiano il gesto di Alcesti riportando in vita Admeto.
Tuttavia l’amore che più sorprende gli dei è l’amore di Achille, che non esita a scendere in battaglia per vendicare Patroclo, pur sapendo che quel gesto gli avrebbe procurato, dopo la vendetta, la certezza della morte; Achille sceglie di morire per Patroclo e gli dei gli conferiranno il premio supremo della sopravvivenza immortale.
Ora, finché l’erastès-Alcesti si sostituisce all’eròmenos-Admeto abbiamo un amore in linea con le rispettive posizioni, al contrario, il gesto di Achille – il più forte eroe greco, ma eròmenos in quanto paidos, più giovane – è quello di un eròmenos che abbandona il suo stato, esce dalla sua posizione di oggetto prezioso verso cui tende l’appetito dell’erastès per trasformarsi egli stesso in un amante e prendere la posizione scomoda dell’erastès.
Nell’amore vero si tratta sempre di una sostituzione, di qualcuno che prende il posto dell’Altro: e questa è la soluzione che rende la coppia invincibile. Il vero amore si ha allorché colui che è nella condizione presunta dell’avere, lascia la posizione dell’avere per diventare colui che è mancante.