Due sono gli elementi che più a fondo colpiscono, nel leggere questo bel libro, lirico, evocativo, denso di immagini e di pathos, che segna un punto fermo nella storia poetica di Lucia Freda.
Da un lato, vi si osserva infatti l’efficace intreccio di soggettività percettiva e di nitore descrittivo che pervade i bellissimi paesaggi (ma anche i cari profili umani o animali) di volta in volta raffigurati, quasi fosse all'opera qui il cesello di un orafo capace di creare poesia (e vivida immagine) dal dettaglio.
Dall'altro lato, spicca la qualità prosodica della sequenza verbale, tutta fondata su un uso sapiente del verso breve e brevissimo, strumento perfetto di una sillabazione franta al modo dell’Ungaretti maggiore, di rado tuttavia scandita dall'ansito di un dramma storico o esistenziale in atto, tessuto anche di silenzi profondamente drammatici, bensì più spesso distesa nella calma riflessiva e talvolta meditativa di un respiro fluido, capace di evocare l’armonia perduta di un mondo.
Ciò non significa che memoria e interiorità dell’Io lirico siano prive di asperità esistenziali e di conflitti irrisolti, ma solo che i traumi derivati da un’esperienza piena dell’assenza, del dolore, ma anche di uno “smisurato amore”, in questa Araba fenice vengono elegantemente declinati entro una struttura coesa, che si propone prima di tutto di interagire con una sensibilità ricettiva, rivolgendosi senza malizie, pudori o gesti impositivi all'empatia e alla partecipazione di un Altro da sé.
Alberto Bertoni