Prefazione
di Alessandro Quasimodo
La drammatica dialettica della vita indissolubilmente legata
alla morte, come esito naturale del nostro esistere, in un
flusso continuo, filtrato dalla vigorosa luce della memoria,
ci viene proposto con autentica intensità in questo racconto,
dove i ricordi si illuminano su una distesa di parole semplici,
essenziali ma vigorose, capaci sempre di muoversi con
immediatezza e senza inutili artifici nello spazio interiore di
chi è pronto ad accoglierle e a condividerne lo spirito.
Nel racconto di Milena Ercolani, la memoria arde senza
mai estinguersi in cenere, mantenendo intatto il tenue velo
di lontananza che riveste l’inarrestabile, inesausto fluire del
tempo.
La protagonista, fin dalla sua prima e tenera apparizione,
si affaccia alla vita mentre “le ali di Tanatos” avvolgono
inesorabilmente la creatura che l’ha generata.
Quando la madre di Celesta, prima di morire, la stringe al
seno, è come se “un ritmo ed una melodia”, insinuandosi
nelle sue orecchie, le suggeriscano dei “passi di danza”.
Quella danza resterà sempre impressa nella sua anima, come
se la madre l’avesse insufflata in lei e quasi fosse l’espressione
più significativa “da cui scaturivano l’amore, la libertà,
l’energia vitale” di una donna che spesso ripete: “Sono
dell’ottocento, ma mi piace di più il novecento”, Celesta,
femminista ante litteram, è affamata di vita e proiettata
verso il futuro, pur nella consapevolezza di vivere in “una
società mortificata da insulse consuetudini”, nella quale
le donne devono mostrarsi compiacenti a padri e mariti
per essere figlie, mogli e madri rassegnate a un destino di
mortificazioni, umiliazioni, fatiche e soprusi da subire in
silenzio.
In un mondo chiuso e arretrato, fatto di miseria e di duro
lavoro, questa donna alimenta in sé una forza istintiva,
quasi invincibile, che riesce tenacemente a farle “respirare
la natura, la vita, in modo consapevole”. Una forza che si
oppone fieramente alle angherie e alla brutale violenza di un
marito incapace di amare, un uomo in cui la luce non era
probabilmente mai penetrata, neanche negli attimi fugaci
di segreta intimità, “destinati però ogni volta a morire, a
sciogliersi, a venire confiscati dal richiamo di Lazzaro verso
un pericoloso concetto di padronanza maschile”. Celesta
transita instancabilmente sullo sfondo dei due conflitti
mondiali, mai prigioniera di una retorica vuota e stantia,
aperta invece alla libertà, “alla magia della vita” così tanto
vicina alla morte.
Non c’è senso della morte che non sia crudelmente unito
alla vita, che consapevole svanisce quasi innamorata della
sua stessa fine, perché “la vita è una danza continua alla
quale partecipa anche la morte”.
L’autrice sa sfiorare con grazia e poesia l’imperscrutabile
mistero di questa intima certezza, da cui emergono tutti i
fantasmi, i ritagli, le sfrangiature della nostra esistenza.
Identificare la nostra vita con l’acqua del fiume: scorre verso
il mare e vi si perde senza ritorno; scorre verso l’abisso,
salta, batte sul fondo e si interra; scorre verso il lago e vi si
addormenta; sosta nella valle e sogna.
Nella lunga esistenza di Celesta, è insita la volontà di una
speranza per un sogno più bello, che spinge verso il futuro.
In questa donna, così distante da Dio per scelta, eppure
attraversata da un sole senza tramonto, l’umano scandisce la
sua storia, che sembra costruita sul ritmo del divino.
Una religiosità, suo malgrado, affiora prepotente in lei,
un’appartenenza che ha origini molto antiche ed è propria
di chi sente la terra come la “grande madre” da cui tutto
proviene.
Celesta vive intensamente il suo tempo, sempre attenta al
senso e alla profondità dell’infinito; forse, in questo è il
significato stesso della sua vita, che, come quella di molte
altre donne, suggerisce parole che solo dall’anima possono
scaturire e ad essa appartenere.
Il racconto della Ercolani ce le restituisce intatte, fedeli,
sagge, responsabili, intense di significati vissuti, nei quali
possono fruttificare tutti gli echi e germogliare tutti i
suggerimenti possibili. Alla fine del racconto si ha la viva
impressione di aver conosciuto di persona Celesta, di essere
penetrati nel cerchio magico della sua inesauribile, forte
danza di vita. Noi abbiamo imparato ad ammirare e ad
amare questa donna proprio per come ha saputo percorrere
la sua esistenza, con coraggio, coerenza e senza mai venire
a compromessi che potessero violare la sua libertà e la sua
indomita dignità di femmina. Merito questo della nostra
scrittrice che ha fatto scorrere davanti ai nostri occhi, con
la forza della sua prosa sempre sorvegliata e precisa, come
sequenze cinematografiche, le vicende della vita di un
personaggio che rimane vivo e presente nella memoria del
lettore.
Nel racconto si snoda l’enigma della vita e della morte verso
il mistero dell’eternità: ricordo a questo proposito: “te ne
andasti, liberandoti nell’eternità celeste dove si danno la
mano per ricongiungersi tutte le donne del mondo”.
E come chiudere questa mia analisi del libro, se non citando
alcune righe di Milena Ercolani che, a mio vedere, sono il
perno e il tema dominante o meglio il credo che plasma e dà
forza alla straordinaria femmina di nome Celesta?
CELESTA*
Ti chiamarono Maria Celeste quando, a poche ore dal
penoso parto di tua madre, ti battezzarono con sollecitudine
per evitare che la tua anima si dannasse per sempre.
Nascesti senza un lamento, affogata dentro a un brodo
di sangue copioso, mentre tua madre stava combattendo la
sua ultima battaglia per la vita. Battaglia che vinse per te,
nata senza gemito, nata con la morte negli occhi. Affranta e
sfinita, levò alla luna un ultimo grido e tu fuoriuscisti, piccola
e indifesa, dalle sue viscere dolenti. Al suo grido si unì il
latrare dei cani. Anche le vacche nella stalla cominciarono
a muggire.
Le bestie, tenute insieme da un lamento surreale,
nemmeno più animalesco, capace di sfidare la paura
della notte, ti accolsero col grido di sconfitta della morte
sopraffatta dalla forza della vita. Per tua madre fu l’ultimo
grido poiché il fiato le si bloccò in gola e, dissanguandosi
poco a poco, venne accolta nell’anticamera della morte.
Erano le 3 del mattino del 17 agosto 1899 e tu nascesti
arrivando inattesa, in anticipo sui tempi. Più tardi avresti
confermato “Io sono dell’ottocento, ma mi piace di più il
novecento”, secolo di emancipazioni, di lotte e di rivincite,
secolo anche per le donne. La notte del tuo arrivo, a benedire
* - Termine dialettale utilizzato in alcune zone della Romagna in sostituzione
del nome proprio femminile Celeste.
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Milena Ercolani
le fatiche del giorno, sul casolare regnava il riposo. Le imposte
al piano di sopra erano state lasciate socchiuse per lasciar
filtrare un po’ d’aria. Nella stanza più piccola giacevano
ammucchiati su due giacigli tua nonna, tuo fratello e le tue
tre sorelle. Quella accanto alla loro era, invece, la camera
dei tuoi genitori, la più grande, quella che avrebbe dovuto
ospitare anche te. C’erano, infine, altre due stanze dove,
se non si faceva attenzione, si rischiava di sbattere la testa
contro le vecchie travi che reggevano il soffitto. Queste due
stanze erano occupate dai fratelli di tuo padre e dalle loro
giovani mogli, l’ultima delle quali aveva da poco partorito
una coppia di bei gemelli maschi.
Quella notte, la sua ultima notte, tua madre in silenzio
ascoltava il respiro rumoroso di tuo padre che russava.
Si sentiva nervosa. Nel ventre non percepiva più i tuoi
movimenti. Rivoli di sudore le solcavano la fronte. Aveva
caldo, il suo corpo bruciava, aveva sete e si sentiva arida.
Non le andava, tuttavia, di scendere in cucina a bere l’acqua
di sorgente dalla brocca, allora, senza svegliare il marito,
si era alzata dal letto e si era avvicinata al catino innanzi
alla finestra. Vi aveva versato qualche goccia dell’acqua da
utilizzare al mattino per lavarsi, vi aveva immerso le dita
e, con avidità, se le era portate alla bocca per ristorarsi.
Improvvisamente una colata calda di sangue tra le gambe le
preannunciò il tuo arrivo. Mancava ancora un mese al parto,
non dovevi arrivare quella notte eppure intorno a te, agitato
e preoccupato, il casolare si mise in movimento. Tempestive
le donne si fecero intorno a tua madre. Tua nonna scese in
cucina per mettere a bollire l’acqua nel pentolone di rame
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Celesta
che abitava il camino; si tirò fuori della biancheria pulita
e ci si prodigò in mille modi per arrestare l’emorragia. Tuo
padre, da parte sua, si infilò i sandali e percorse in fretta uno
stretto sentiero che lo condusse dalla mammana. I suoi passi
pesanti si frangevano sul silenzio circostante mentre il canto
delle civette accompagnava le pulsazioni del suo cuore. La
mammana abitava solitaria in una piccola casa rossa. Giunto
a destinazione tuo padre batté e ribatté sul suo portone fino
a che la donna lo udì: – Sono Gidio. Venite, presto! Mia
moglie deve partorire! Non era ancora il tempo, ma le si è
aperto tutto. Adesso è tutta sporca di sangue. Venite! –
Gli apparve un’anziana donna, bassa e corpulenta, con
le braccia corte e robuste, quelle braccia che, afferrando la
tua testolina, ti avrebbero portato alla vita. Costei, udite le
parole di tuo padre, senza porre domande, si chiuse la porta
di casa alle spalle e lo seguì nella notte. Dovevano camminare
in fretta. Non c’era un minuto da perdere. Tua madre
rischiava di morire e tu che fine avresti fatto? Dopo la nascita
consecutiva di tre figlie femmine, tuo padre si aspettava che
tu fossi maschio. Egli aveva già generato un figlio maschio, il
primogenito, ma poi gli era andata male, gli erano capitate tre
femmine, nate ciascuna a distanza di un anno dall’altra. Per
la prima si rallegrò, ci voleva una figlia femmina in famiglia,
ma dopo la nascita della terza ci rimase così male che per
quasi un anno non osò sfiorare sua moglie, vinto dal timore
di vederle mettere al mondo ancora un’altra bambina. Per
fortuna nel paese trovò donne generose disposte ad offrirgli,
senza chiedere nulla, un corpo sul quale sfogare le proprie
voglie amorose. Tua madre ne fu felice in quanto per gioco
cominciò una tregua. Mentre il marito in paese si godeva
nuove carezze, lei, furtiva, poté godersi l’amore per i suoi
figli senza penare per una nuova gravidanza. Quella tregua
finì una sera di settembre allorché tuo padre, invitato dagli
aromi che diffondeva nell’aria l’uva appena recisa, afferrò
tua madre per i fianchi e la trascinò sotto ad un ulivo. Da
quel momento riprese la loro attività sessuale, un’attività
onesta, persino santificata da una chiesa che benediceva gli
sposi per ogni figlio che, ignari, concepivano. L’importante
era non venire mai meno ai propri doveri coniugali. Doveva
essere dannata quella donna che avesse tentato di sottrarsi
alle voglie del marito, maggiore dannazione a colei che non
avesse accolto il seme del marito fino all’ultima goccia.
Tua nonna accolse la mammana con le lacrime agli occhi.
Temeva per sua figlia e temeva per te. Qualcosa nel suo
cuore le preannunciò che sarebbe arrivata un’altra femmina
e inspiegabilmente sentì d’amarti, sentì il cuore gonfiarsi
di un amore amaro. Intanto tua madre stava morendo per
te. Quando la mammana le si pose innanzi e le allargò le
cosce inzuppate di sangue, emise un sospiro di sollievo,
tentò allora di raccogliere le poche forze che le erano rimaste
per imprimere al suo corpo un ultima spinta, la decisiva.
Repentina l’anziana donna ti afferrò dalla morte per offrirti
alla vita. Il tuo ingresso nel mondo avvenne nel silenzio.
Dopo un profondo grido, cavernoso e cupo, tua madre cessò
quasi di respirare, tua nonna e le due zie rimasero col fiato
sospeso e tu stessa non riuscisti a gemere poiché avevi il naso
e la gola tappati dal sangue.
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Celesta
– È una femmina! – Sentenziò la mammana e non
aggiunse altro.
Dopo avere reciso il cordone ombelicale ti consegnò a
tua nonna. Lei ti avvolse in un lenzuolo immacolato, quindi
ti strinse fra le braccia. Avvertì di nuovo una fitta d’amore
nel cuore. Si chinò a guardare il tuo sesso, sofferente. Come
l’avrebbe presa tuo padre? E se tua madre fosse morta? Egli
avrebbe per sempre reputato te responsabile dell’accaduto,
te miserabile ed inutile femmina. Eppure, nonostante la
paura e a dispetto della pena, sentì di tenere fra le braccia
un tesoro, prezioso, nudo, non ancora nascosto dai tabù
contro i quali avresti combattuto per l’intera tua esistenza.
A quel punto dagli occhi della tua vecchia scese una lacrima,
un frammisto di gioia e fiele. Le scese delicata solcandole le
guance sino a che ti toccò le labbra. Allora tu incominciasti
a tossire. Tossisti sempre più forte e in quel modo ti liberasti
del sangue che ti impediva di respirare. Anziché piangere
tossisti, buttasti fuori la morte, buttasti via la rabbia e il
dolore perché nella rabbia e nel dolore forse già sapevi che è
possibile combattere per la vita.
Allorché tu incominciasti a respirare, tua madre si accinse
a sfiatare. La mammana l’aveva lasciata lì, sanguinante sul
suo letto di morte e se ne era andata via. In attesa di una
nuova chiamata, era tornata alla sua piccola casa a custodire i
propri gerani. La signora della vita aveva espletato il proprio
compito, ora doveva calare le ali Tanatos, il signore della
morte. Nel paese Tanatos era incarnato da don Tonino.
Costui, non appena si avvicinava ad un giaciglio coi suoi
oli e le sue benedizioni, emanava dalla tonaca nera un
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Milena Ercolani
fetore di morte. Quella stessa tonaca lo innalzava in virtù
di un’importante facoltà, quella di santificare il trapasso coi
suoi riti di purificazione. Ecco che don Tonino diventava,
allora, anche una specie di Caronte. In cambio dell’obolo
del pentimento delle anime ancora in vita, egli impartiva
benedizioni di durata eterna. L’anima salvata costituiva, in
quel momento d’afflizione, l’unica consolazione per coloro
che rimanevano. Va da sé che in simili circostanze la mano
santa del curato non mancasse mai. Non si poteva rischiare la
dannazione perpetua del congiunto. E se poi, per estensione,
fosse calata la malasorte anche sul resto dei familiari? No! La
benedizione di Don Tonino era indispensabile. Vitale!
Don Tonino quella notte, si stava facendo l’alba per
l’esattezza, venne chiamato anche per te. Infatti anche tu
rischiasti di essere ingoiata nelle fauci delle tenebre. Avevi
incominciato a respirare, eri viva, ma per quanto tempo? Eri
nata prematura, eri piccola, scheletrica…E se tua madre fosse
morta, quale mammella ti avrebbe nutrita? Del resto poco
importava a tuo padre che, pensandoti già spacciata, stentava
invece a credere che tua madre potesse morire. Infilandosi
ancora una volta i sandali di cuoio che si era fabbricato, si
incamminò sotto ad un cielo meno sconosciuto, sotto ad un
cielo che cominciava a rischiararsi.
Tua nonna, che ancora ti stringeva fra le braccia, venne
colta dall’impulso di portarti innanzi a tua madre e di
elevarti sul suo letto. Nonostante si stesse spegnendo e una
coltre di nebbia biancastra le offuscasse lo sguardo, ella riuscì
a vederti grazie ad una luce improvvisa che le attraversò le
pupille. Una luce remota, interiore, da lei si riversò su di
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Celesta
te e tu cominciasti a risplendere, a rivelarti a lei qual eri,
energica e potente. In quell’attimo intuì che con la tua vita
l’avresti salvata, avresti riscattato la sua. Saresti stata un astro
di congiunzione fra un passato di abusi e limitazioni ed un
futuro a rischio di mercificazione, dove utero e mammelle
hanno diritto d’esistere solo su riviste d’interesse medicoscientifico
ed i capezzoli erti vengono apprezzati solo per
fare bella mostra su qualche calendario pseudo-artistico.
Sulle labbra secche di tua madre si disegnò un sorriso,
l’intero suo volto sembrò per un istante perdere il pallore
che l’offuscava per ravvivarsi di luce. Un fuoco cominciò
a scaldarle il petto e, come dei vulcani in eruzione, i
suoi capezzoli sparsero sulle sue gonfie mammelle una
lava giallastra che, scendendo abbondante, ben presto le
impregnò la camicia da notte. Immediatamente tua nonna,
addentrandosi con lo sguardo in quello di sua figlia, capì
quello che doveva fare, quello che la vita chiedeva, offrirti
a tua madre, la tua terra primordiale perché ti nutrisse. Ti
affidò alle giovani braccia di tua zia Angelina e, con le mani
libere, si mise a slacciare i bottoni della camicia di sua figlia
per denudarle una mammella. Era arrivato il momento di
ricongiungerti a lei prima di salutarla per sempre. Fu così che
tua nonna ti riprese fra le braccia per deporti, con premurosi
gesti d’offerta, sul corpo di tua madre, avvicinando la tua
piccola bocca al suo capezzolo generoso. Succhiasti. Ingeristi
quel nutrimento amorevole senza difficoltà, serena, paga.
Col latte ingoiasti anche la tua genitrice, ti riempisti dei
suoi dolori e delle sue speranze e, prima ancora di lei, di
quelle di tua nonna, e, prima ancora di lei, di quelle di sua
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Milena Ercolani
madre, di tutte le donne, le madri, di tutte le genitrici che ti
avevano preceduta, coi loro amori negati, con la loro vitalità
agonizzante e col loro prepotente attaccamento alla vita.
Tua madre avvertì la pressione della tua bocca sul suo
capezzolo ed un brivido la percorse. Le parve di riacquistare
le forze. Un ritmo ed una melodia si insinuarono nelle sue
orecchie e le vennero in mente dei passi di danza. Si ritrovò
sospesa per aria a danzare con te, felice, al di sopra di tutto,
entrambe libere nel cielo infinito.
Quando giunse don Tonino, sazia, ti eri addormentata.
Te ne stavi, nuda e quieta, a riposare sul corpo caldo di tua
madre. Anche lei aveva chiuso gli occhi. Il respiro le era
diventato corto, quasi impercettibile, ma sul viso conservava
l’espressione estatica e gioiosa di chi sta danzando.
Don Tonino sentenziò che prima di lei bisognava
pensare a te poiché ella in fondo era già cristiana ed una
madre che moriva per dare una nuova anima a Dio non
poteva dannarsi. Tu rischiavi, invece, di finire nel limbo a
ricercare la salvezza per l’eternità. Nessuno mosse obiezioni.
D’altronde solo don Tonino poteva conoscere le priorità da
rispettare di fronte al rischio della dannazione. Egli decise il
tuo nome e ti battezzò Maria Celeste: Maria era il nome di
tua madre che stava morendo ed anche il nome della Madre
dei cristiani, della Madre Celeste, che, visto come si stavano
mettendo le cose, vi stava aspettando.
– Io ti battezzo, Maria Celeste, nel nome del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito Santo … E che tu possa presto
raggiungere tua madre e la Madonna in cielo. –
L’augurio funereo non piacque per nulla a tua nonna
che si ritrovò a pensare: “…Gli prenda un colpo a quel prete
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Celesta
maledetto, la mia bambina sopravviverà. Che ci vada lui in
cielo.”
A causa di quel pensiero e di quella sorta di maledizione
lanciata nei confronti del parroco, la povera donna visse alcuni
anni credendo di essersi dannata e temette addirittura che
il suo pensiero malvagio le si ritorcesse contro. Comunque
l’augurio di don Tonino su di te non sortì alcun effetto.
Vivesti a lungo, percorresti un lungo sentiero, difficile e
tortuoso, lo percorresti salda, forte e bella, così come ti vide
tua madre allorché ti illuminò con la sua luce interiore.
Si rivelò efficace, invece, la maledizione di tua nonna.
Infatti esattamente ventiquattro ore dopo averti battezzata,
alle cinque del diciotto agosto mille ottocento novantanove,
a causa di un ictus cerebrale, don Tonino raggiunse la Madre
Celeste. Fu da quel momento che tua nonna cominciò a
tormentarsi col timore della dannazione dell’anima per essersi
resa responsabile di quella morte. Col tempo, per fortuna, il
suo tormento decrebbe. Probabilmente, vedendoti crescere,
ammirando la tua forza ed il tuo coraggio si convinse che la
tua esistenza valeva mille volte più di quella di don Tonino e
se il suo pensiero era valso a salvarti dalla morte, valeva pur la
pena barattare la propria anima in cambio della vita. Le dita
unte d’olio santo di don Tonino chiusero gli occhi immobili
di tua madre. Tua nonna si lasciò scorrere sul volto lacrime
silenti. Nel suo cuore afflitto si allargò un pensiero: “Quali
mammelle ti avrebbero nutrita adesso?” Adesso che era stato
deciso che tu dovevi vivere, lo dovevi alla donna che ti aveva
messo al mondo ed alla quale con la tua vita avresti dovuto
ricongiungerti. Dovevi vivere per tua nonna e per le donne
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Milena Ercolani
che prima di lei avevano percorso lo stesso cammino. Quel
cammino ti stava aspettando, attendeva la nudità dei tuoi
piedi inermi perché si scorticassero e, dolenti, si incallissero
per diventare solide piante sulle quali ergerti senza vacillare.
– È piccola. Come sopravviverà senza sua madre?
– Gemette preoccupata la madre dei due gemelli. Le sue
guance rubiconde si coprirono di lacrime accorate. Il petto
le si gonfiò di dolore.
Aveva partorito sei mesi prima e si sentiva ancora sul
collo il soffio gelido del vento di morte. Era stato un parto
difficile, tuttavia la morte nel grido sinistro del vento le
aveva solo sussurrato il suo canto funereo. Accovacciata sul
letto con la mammana che le girava intorno, aveva ascoltato
il frangersi del vento sui vetri. Per tutta la durata del parto
il vento non aveva cessato di suonare la sua cupa melodia.
Soffiando da dietro le imposte, le era giunto fin dentro
alle viscere per tormentarla, ciononostante il suo corpo era
riuscito ad aprirsi lasciando sbocciare alla vita due splendide
creature. Allora il vento con un ultimo fischio benedisse i due
bambini e se ne andò, lasciando Angelina, così si chiamava
la donna, a godersi il vagito onnipotente della vita.
Ora Angelina era lì, accanto a te, affranta, singhiozzante.
L’acqua santa di don Tonino ti aveva strappato dalla quiete
del sonno ed anche tu, accanto a lei, contorcendoti nella tua
cesta di vimini, piangevi. Tua nonna vi guardava entrambe.
Improvvisamente un lampo le balenò negli occhi. Con un
gesto rapido ti sollevò dalla culla e ti porse a lei: – D’ora
in poi l’allatterai tu. Le tue mammelle sono ancora piene,
appena Maria Celeste vi si attaccherà produrranno latte in
abbondanza per tutti, per i tuoi figli e per lei. –
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Celesta
Angelina non rispose. Adesso la vita di Maria Celeste
dipendeva anche da lei. Non si sarebbe tirata indietro, ma
avrebbe pregato il buon Dio affinché la rendesse prospera e
generosa, affinché dilatasse la sua essenza di madre fino al
punto più profondo dell’anima.
Angelina allattava ancora i suoi gemelli, avrebbe potuto
allattare anche te. Bastava poco. Succhiando con energia,
da te stessa avresti generato in tua zia il nutrimento di cui
abbisognavi. Vita per la vita e così fu: una donna ti mise al
mondo, un’altra donna ti nutrì, una terza donna, furtiva,
col suo ricco fardello di anni sulle spalle, ti accompagnò
mentre crescevi. Tuo padre, distante, provò a trattarti con
indifferenza. Non eri importante per lui. Aveva persino
sperato che morissi, che tua madre ti venisse a prendere
prima che tu diventassi grande. Il tuo carattere ribelle non
faceva altro che provocarlo. L’indifferenza per la tua sorte
lasciò in lui il posto ad un frammisto di odio e stupore.
Come aveva potuto la vita scegliere te e portarsi via la sua
donna?
Fu solo dopo la morte di tua madre che egli si accorse
di quanto ella per lui fosse importante. Sotterrandola egli
seppellì sotto terra anche le proprie speranze e la quiete.
Nessuna donna riuscì più ad appagarlo. Frugò fra altre cosce
di femmina alla ricerca di quei piaceri che otteneva quando
tua madre era ancora in vita, ma non riuscì più a trovarli.
Una parte di sé era ormai morta, l’altra, invece, ardeva di
un fuoco incontenibile. In apparenza tutto pareva scorrere
come sempre. In apparenza non c’erano stati mutamenti
nella sua vita. Da bravo lavoratore, come doveva esserlo
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Milena Ercolani
un uomo benedetto da Dio, continuò a dedicarsi al suo
campo, a sudare sui suoi raccolti. Arava, seminava, curava,
fortificava, recideva. Così ogni anno, assecondando il ritmo
delle stagioni, ascoltando i consigli della luna. Una sera,
guardando la bianca signora della notte risplendere alta nel
cielo, gli parve di scorgere nella sua candida rotondità, il
volto amorevole di tua madre, allora si mise a piangere. Non
aveva mai pianto dopo la sua morte, nemmeno il giorno del
suo funerale. Si era ubriacato, aveva bestemmiato, imprecato,
mai aveva pianto. Quella sera pianse e l’indomani ti parve
di intravedere dietro al suo volto ombroso uno squarcio di
sorriso. Ti piacque e per un istante sentisti di amarlo. Si trattò
di una sensazione subitanea eppure intensa. Un piccolo
attimo di amore che vi unì al di là di ciò che stavate vivendo.
Non ve ne furono altri, tuttavia bastò per alimentare nel tuo
cuore la speranza, la voglia di combattere contro l’ingiustizia,
contro i mali più subdoli che impediscono all’amore di
sbocciare nella vita.
Nel suo ruolo di padre severo egli non ebbe mai una
carezza per nessuno dei sui figli, nemmeno per Peppino, il
figlio maschio che adorava e nel quale aveva riversato tutte le
sue speranze. Trattò le tue sorelle con durezza. Doveva fare di
esse delle donne disposte a sopportare qualsiasi fatica fisica ed
allo stesso tempo degli esseri arrendevoli, accondiscendenti,
insomma delle buone mogli da maritare. Che avrebbe fatto,
invece, con te? Non eri bella. Troppo alta per quei tempi.
Ossuta, spigolosa e col mento prominente non eri di certo
attraente. Per non parlare del tuo pessimo carattere e delle
stranezze che ti contraddistinguevano. Sapevi lavorare sodo,
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Celesta
possedevi un’energia ed una forza che andavano al di là dei
pochi anni d’età che avevi quando ti trascinarono a lavorare
nei campi. Tu stessa amavi l’odore crudo della terra, quel
profumo che impregnava di sé i raccolti e si confondeva con
l’aroma dei frutti maturi che brillavano sugli alberi. Era un
amore che ti rendeva instancabile. Tuo padre comandava e
tu, a sfidare la sua attesa di vederti piegata in due per la fatica,
subitanea, eseguivi con le labbra sorridenti e lo sguardo
risoluto. Ogni giorno vincevi, ogni giorno trionfavi, mentre
lui, sconfitto, doveva piegarsi, suo malgrado, al tuo potere.
Per nulla rassegnato tentava di tormentarti lasciando per te
le mansioni più difficili, i compiti più duri, per te che eri
ancora una bambina, per te che già possedevi l’istinto forte
di una femmina matura. Per piegarti provò a colpirti. Non
gli riuscì difficile, l’aveva fatto perfino con tua madre, ma
si era trattato di episodi isolati poiché ella aveva imparato
a non contraddirlo preferendo piangere in silenzio. Alzò
le mani anche sulle tue sorelle, che presto impararono la
sottomissione, allora per loro furono sufficienti le minacce.
Bastava che tuo padre sollevasse il pugno in aria imprecando
che già esse abbassavano il capo silenziose. Per te nemmeno
la sua violenza bastò. Nulla poteva impedirti di ribellarti
alle ingiustizie. Rivendicavi i tuoi diritti lesi, rivendicavi
quelli di tua nonna, la donna che nell’ombra si prendeva
cura dell’intera famiglia senza che mai venisse convocata per
le decisioni importanti. Rivendicavi i diritti delle tue zie,
delle quali non tolleravi la funzione di cornice del casolare.
Ciascuna zia esisteva unicamente in quanto la moglie di
…, la madre di… niente di più. Cosa volevano quelle due
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Milena Ercolani
donne, quali erano i loro amori e i loro segreti? Perché di
nascosto piangevano? Chi le faceva piangere? Rivendicavi
i diritti delle tue sorelle che servivano Peppino senza mai
che avvenisse il contrario. Rivendicavi così anche i diritti di
Peppino, impedito dal suo essere maschio nel potere amare
liberamente, servendo se necessario, venerando le proprie
sorelle come forse avrebbe voluto, accompagnandole nel
cammino.
Tuo padre si sentiva mortificato di fronte ai fratelli a
causa del tuo atteggiamento sovversivo. A costoro la sorte
aveva destinato solo figli maschi. Esattamente sei figli maschi
vennero generati negli anni che seguirono la tua nascita.
Sei bambini forti e sani che promettevano bene. Avrebbero
tenuto alto l’onore della famiglia. A tuo padre toccarono, suo
malgrado, quattro figlie femmine. Che ci poteva fare? Non
era stata colpa sua. Egli stesso avrebbe desiderato una sorte
migliore, avrebbe desiderato quattro bei giovani robusti da
portare nei campi, ma un destino beffardo si era preso gioco
di lui. Aveva forgiato le tue sorelle come meglio gli riuscì di
fare, per redimersi, almeno, attraverso la loro educazione,
ma con te… Costituivi ed aumentavi la vergogna che
quotidianamente doveva provare agli occhi dei fratelli.
Tu alimentavi la sua rabbia e tu sola riuscivi a metterlo
di fronte alla propria debolezza. Quando ti ribellavi a lui,
affrontandolo verbalmente, egli, per non finire deprezzato
agli occhi degli altri uomini di famiglia, ti prendeva per i
capelli e minacciava di strapparteli fino a che non avessi
riconosciuto la tua insolenza chiedendogli perdono. Finiva
che te li strappava davvero, ma le sue minacce non sortivano
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Celesta
su di te alcun effetto. Giungeva a prenderti a pugni in testa,
a calci nel sedere, a gettarti sul pavimento allontanandoti da
lui come fossi uno straccio, ma ancora la tua voce gridava,
rivendicava la sua dignità. Tu non ti piegavi, mai. Allora se
ne andava e tu restavi lì, a leccarti finalmente col silenzio le
tue ferite, di fronte agli occhi di tutti, innalzata dal silenzio
di tutti che, a poco a poco, sparivano di scena. Restava
solamente tua nonna. Lei che, fino a quel momento, non
aveva potuto fare altro che pregare, si accostava a te e ti
stringeva sul suo petto. Con le sue lacrime ti ristorava le
carni là dove ti facevano male.
– Sei forte, Celesta. – Ti mormorava con dolcezza e ancora
ti stringeva amandoti di un amore potente, puro ed eccelso.
In te risiedeva un frammento di quel coraggio che dimorava
anche in lei. L’avevi inglobato. Inspiegabilmente avevi
inglobato ogni pezzetto d’audacia e di eroismo di ciascuna
delle donne che ti avevano preceduta e di ciascuna di quelle
che ti stavano accanto. Così fortificata, potevi esprimerlo in
maniera integrale, nuda, libera da qualsiasi paura, perfino da
quella della morte.
Il fuoco della passione con la quale esprimevi la tua sete
di equità non impediva alla tua anima di mostrare il suo
aspetto più candido e trasparente, la sua incommensurabile
pace, quella da cui scaturivano l’amore, la libertà, l’energia
vitale che metteva in moto il tuo corpo. Ciò che agli occhi
dei più parvero solo stranezze furono, invece, movimenti
dello spirito coi quali esso estrinsecava la propria essenza.
Tu, libera da paure e pregiudizi, lasciavi che esso sfuggisse
dai lacci della convenzione. Quando calava il meriggio e
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Milena Ercolani
la luna appariva sul mondo, alzavi le palme verso il cielo
e, muovendoti armoniosamente, ti dilettavi nel girare su
te stessa. Allora ti impregnavi di vita, della vita d’intorno.
Annusavi il profumo magico ed inquieto del campo,
respiravi l’odore pregnante della terra, assaporavi quello
fresco e dolce delle piante recise, l’aroma selvatico delle
cortecce umide, quello pungente degli steli secchi, l’essenza
delicata dei fiori spontanei. Tuo padre provava vergogna
per le tue frivolezze. Tentava di giustificarle ai parenti
dichiarando che, nata prematura, probabilmente il cervello
non ti funzionasse a dovere. Loro, comunque, col tempo
impararono ad abituarsi al tuo rito. Anzi, ogni volta che il
sole si preparava a tramontare e l’azzurro del cielo veniva
irradiato da tonalità ambrate, volgevano il loro sguardo su
di te. Silenziosi. In attesa. In te l’anima recondita usciva allo
scoperto ed assumeva il dominio del tuo corpo. Innalzavi
le braccia al cielo. Da prima roteavi le palme aperte, quindi
col capo elevato e gli occhi socchiusi, iniziavi la tua danza.
Via via il tuo volto si andava trasfigurando, un’invisibile
vibrazione di luci lo faceva brillare. Eri bellissima. Eri felice.
I tuoi piedi si muovevano leggiadri. Ondeggiavi. Girando
e rigirando ti immergevi sempre più in te. Lasciavi che la
natura circostante ti penetrasse con l’effluvio dei suoi odori,
la poesia dei suoi fruscii, l’arcobaleno dei suoi colori.
Era un rituale che espletavi ogni giorno, fin da quando,
ancora infante, venisti trascinata nella vigna a raccogliere
l’uva.
Gli adulti recidevano i neri grappoli maturi con le cesoie
e li lasciavano cadere. Voi bambini dovevate raccoglierli
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Celesta
e con delicatezza riporli nelle ceste di vimini dalle quali
sarebbero poi stati gettati nei tini. Dovevi fare attenzione a
non rovinare gli acini altrimenti sarebbero stati schiaffoni,
schiaffoni per tutti, anche per i tuoi cugini poiché si usava
così a quel tempo.
Sono dell’ottocento, ma mi piace di più il novecento…
– Quante volte l’avevi ripetuto a me e a mia madre che,
attente, ascoltavamo i tuoi racconti, le tue avventure di vita,
ci entusiasmavamo per le tue lotte, compartecipavamo alle
tue vittorie. Sono dell’ottocento …E a quel tempo le cose
andavano così. Andavano così all’esterno, si vivevano dentro
ad una società mortificata da insulse consuetudini. Non che
il novecento, cara Celesta, sia stato molto diverso…Sempre
consuetudini, convenzioni che hanno preteso di tappare
il vertice indolente del vulcano di amori indomiti che ci
invigorisce l’anima.
Quel giorno nella vigna ti piacque il profumo allegro
e voluttuoso dell’uva, ammirasti le tracce violacee del suo
umore sulle tue tenere mani dalle lunghe dita. Assaporavi
una gioia pura, onesta, che, a sera, ti prese il corpo affinché
potesse esprimersi con una danza. Si stupirono dei tuoi
movimenti inconsueti i parenti e tuo padre si spaventò. Che
stavi facendo? Eri pazza? Ansimando corse verso di te, ti
afferrò per un braccio e tentò di farti smettere, ma percepì
che il tuo corpo, ancora tenero, già gli opponeva resistenza.
Ti irrigidisti fino allo spasimo, eri diventata di pietra. I tuoi
vitrei occhietti gialli colpirono il suo sguardo, come due lame
affilate gli stavano innanzi, pronte per affondarsi nella sua
anima. Allora egli decise che non valeva la pena sprecare le
sue energie con te. Aveva ben altro a cui pensare! Continuasti
la tua danza. Fluivi morbida, veleggiavi grata. Rimanendo
nel mondo parevi innalzarti al di sopra di esso. Le tue sorelle
finirono con l’incantarsi dietro ai tuoi movimenti sinuosi
e, anche con loro, questa volta a nulla valsero i richiami di
tuo padre di sbrigarsi che era ora di rientrare a casa. Aveva
fame. Bisognava apparecchiare la tavola. A nulla valsero. Tua
nonna, invece, dalle tue braccia levate al cielo si sentì cullata.
Si percepì ancora infante a correre felice a piedi nudi nell’aia,
in mezzo alle galline che le razzolavano intorno. Il resto dei
tuoi familiari provò soltanto stupore. Comunque le tue zie,
anche se mai lo dissero e neppure mai lo diedero a vedere,
in cuor loro da quel giorno cominciarono a danzare con te.