È l’inizio di agosto del 1971 quando a Torino due sacerdoti vengono assassinati, a poche ore l’uno dall’altro.
Il vicecommissario incaricato coinvolge nelle indagini Ennio Alfieri, avvocato cinquantatreenne ritiratosi prematuramente dalla professione perché deluso dalla giustizia degli uomini e incapace di abituarsi all’idea di difendere i colpevoli.
Alfieri vive in piazza Solferino, nella grande casa di famiglia affacciata sulla Fontana Angelica, con l’unica compagnia di Beppegaribaldi, un canarino permaloso che si arrabbia se non viene nutrito a orari precisi. Don Mario è l’amico di sempre: insieme hanno frequentato il liceo e l’università e hanno combattuto la guerra partigiana.
Se, dopo il primo delitto, sembra prevalere la pista, facile da percorrere e poco faticosa nel caldo opprimente di quei giorni, del tentativo di rapina finito male, altre strade si propongono dopo il secondo delitto, da quella dei furti d’arte sacra su commissione agli omicidi rituali perpetrati da una setta della collina.
Lungo i vicoli deserti del Balon, nelle sale lussuose dei caffè del centro e in quelle fumose delle vecchie piole di Porta Palazzo, la caccia dell’Avvocato continua, sul filo di nuovi indizi e antichi ricordi.
Romanzo vincitore di GialloFestival 2020
Primo capitoloDomenica 1° agosto 1971
Ore 5.25 del primo giorno
Beppegaribaldi cinguettò il suo buongiorno al primo raggio di sole.
L’avvocato Ennio Alfieri lo sentì attraverso il sogno che stava facendo.
C’era una spiaggia lunga e vuota e lui la percorreva sotto il sole cocente, in toga.
Era uno dei suoi ricorrenti sogni in toga: di solito, però, affrontava la pioggia e camminava fra mucchi di foglie gialle e bagnate lungo le vie vuote di una città senza fine.
Invece questa volta faceva un caldo del diavolo, avanzava a fatica e le scarpe gli si riempivano di granelli umidi e pesanti.
Non era propriamente un incubo, era piuttosto un sogno disagevole e bizzarro, ma senza ombra di angoscia.
Quando le onde presero a cinguettare come un canarino affamato, lui poté fare ancora un paio di passi, affondando nella rena prima di ritrovarsi in pigiama fra le lenzuola umide del letto.
Per un attimo si chiese in quale delle camere della sua vita si trovasse, finché la stanza si ricompose e recuperò l’orologio sul comodino: erano le 5 e 28 e una lama di luce, proveniente dalla finestra aperta in salotto, penetrava da sotto la porta.
Beppegaribaldi era peggio di un gallo e si sentiva in dovere di informare tutto il quartiere che il mattino era arrivato.
Alfieri si rigirò un paio di volte, la bocca impastata al ricordo della cena della sera prima alla piola sotto casa.
Pensò che era domenica, l’unico giorno in cui, da quando era in pensione, non poteva permettersi di stare a letto fino a tardi.
Si trascinò stancamente fino alla gabbia, nella quale il pennuto intonava una gamma di variazioni sui temi preferiti: — Svegli tutto l’isolato, Beppegaribaldi! Io ti sopporto perché mi fai da sveglia, ma gli altri vogliono godersi la domenica mattina!
Lo rifornì di acqua e becchime, riuscendo infine a zittirlo.
— Sei proprio un ingordo senza dignità. Sacrifichi la tua arte per due miseri semi... Pazienza... Ora facciamo tutti colazione e buona domenica.
Si scaldò un po’ di caffè avanzato e abbrustolì una fetta di pane.
Aveva due appuntamenti quella mattina e aveva fretta. Non poteva perdere tempo in cucina.
Gli sarebbe piaciuto scegliere un libro a caso, chiudendo gli occhi davanti agli scaffali della libreria, in modo da farsi consigliare dalla sorte. Oppure soltanto affacciarsi e guardare la piazza che si animava, ma era un uomo di parola: se prendeva un impegno, cascasse il mondo, lo rispettava.
Così lavò via con l’acqua fredda i residui della notte e dell’afa appiccicosa, poi si specchiò e, come sempre, si riconobbe: il tempo lo aveva graziato, mantenendolo simile al se stesso giovane. Aveva appena compiuto cinquantatré anni e le rughe lo solcavano garbate, senza infierire.
I capelli non volevano saperne di imbiancare e gli occhi, tanto blu da sembrare neri, erano sempre loro.
Gli amici lo prendevano in giro, dicendogli che si era mantenuto così bene perché non si era mai sposato, ma lui sapeva che non era per quello e che, anzi, la più crudele di quelle rughe accennate, l’unica profonda, era la cicatrice di un antico amore.
Nello specchio riconosceva un’increspatura più in basso, ai margini della bocca, che rendeva ogni sua espressione, anche la più drammatica, simile a un sorriso amaro: si era formata nel tempo, ogni volta che aveva ripensato a quell’amore infelice e aveva creduto di scorgere Ines, la dolce Ines del suo cuore, tra la folla, tra i mille volti indistinti e anonimi fra i quali aveva continuato a cercarla.
I visi di tutte le altre donne si confondevano in un unico volto dai lineamenti indefiniti, come quello di una statua dagli occhi vuoti e senza espressione. Anche se, da qualche mese, sembrava che qualcosa avesse incrinato lo scorrere pacato dei suoi giorni tutti uguali. Ma era una novità alla quale faceva fatica ad abituarsi e della quale taceva con tutti, soprattutto con se stesso.
Il suo viso era modellato dalle passioni e dalla curiosità, che gli avevano aguzzato i tratti, rendendolo simile a un felino, di cui aveva lo sguardo mobile e cacciatore, capace di captare e anticipare.
Un volto che nascondeva sotto la pelle – come lava che fluisce lentamente nei meandri della terra – le ferite e gli insulti subiti in nome della libertà, per la quale aveva combattuto, e della giustizia, che aveva tentato di servire nelle aule di tribunale, immolandole carriera e denaro.
Proprio per amor di giustizia, due anni prima, aveva deciso di ritirarsi dalla professione, nel momento in cui gli era stato fin troppo evidente che nulla era rimasto dello zelo giovanile che lo aveva animato, ed era subentrata una noia pigra e oziosa che aveva trasformato la lotta in routine.
Si sbarbò alla bell’e meglio, indossò il consueto completo scuro, l’immancabile cravatta granata della domenica e fu pronto per uscire.
— Ciao Beppegaribaldi, fai la guardia. Ci vediamo a pranzo.
Dal lucernario delle scale entrava il sole violento e bruciante che lui aspettava tutto l’anno e che lo riempiva di nostalgia nelle giornate invernali, tutte ugualmente grigie.
Si sentiva proprio di buon umore quella mattina.