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Edizioni del Loggione

Lucilla Rainer
D.A. Le iniziali del mio cuore

D.A. Le iniziali del mio cuore
Prezzo Fiera 12,00
Prezzo fiera 12,00

ROMANZO FINALISTA AL CONCORSO R COME ROMANCE 2019

D.A. Un angelo e un diavolo. Ava e Patrick Drummond.
Due mondi agli antipodi che per un caso fortuito si avvicineranno a tal punto da non poter più fare a meno l’una dell’altro.
Lei è una giovane neolaureata aspirante archeologa, che si guadagna da vivere facendo la commessa in una libreria. Lui, compositore e pianista, nonché front man di una pop band, è capace di mandare in visibilio con un solo sguardo migliaia di fan. Una sera, Ava mentre si reca al lavoro, trova abbandonato sotto ad una poltrona della metropolitana, un misterioso taccuino dal contenuto esplosivo. Patrick Drummond, insofferente della sua vita da rock star, fugge spesso dalla sua gabbia dorata per mischiarsi tra la folla e ossigenarsi. Durante una delle sue fughe, perde qualcosa di molto prezioso che vuole ritrovare.

Primo capitolo

 

1

 

Quando esco di casa è ancora buio. Il vento gelido che soffia da nord non promette nulla di buono. Cammino svelta verso la stazione e, infreddolita, mi vado a sedere in una fila di poltrone lontana dalle rotaie, per cercare un po’ di riparo.

 

 

 

Lavoro in una grande libreria del centro di Londra che – a causa del neoliberismo, nonché del capitalismo imperante, sbandierato come unico antidoto alla crisi e alla povertà – è aperta al pubblico giorno e notte, nella speranza che pure gli homeless, per scaldarsi d’inverno o rinfrescarsi d’estate, finiscano dentro al negozio e con i pochi spiccioli racimolati elemosinando per strada, optino per l’acquisto del best seller pubblicizzato in vetrina, al posto del solito panino al formaggio o di un paio di mele verdi, per sopravvivere alla giornata.

 

A una velata critica riguardo l’orario di lavoro, accampata durante il colloquio sostenuto prima dell’assunzione, mi è stato fatto capire a chiare lettere che sono un soggetto incapace di comprendere i pilastri che stanno alla base del mercato, come pure le strategie di vendita, e il valore apportato dal marketing – che a mio parere non è altro che l’arte, o l’inganno, di vendere sabbia a un beduino del deserto. Ma “per fortuna”, mi ha detto l’intervistatrice, “le decisioni importanti non spettano, e mai spetteranno, a lei o a tutti quegli sciocchi di cui il mondo è pieno!”. Il destino ha voluto che non le abbia risposto e mi sia limitata ad abbassare il capo, per non cadere nella tentazione di sputarle in faccia. Grazie a quel mio silenzio, ora sono una delle tante neolaureate in lettere antiche che, in attesa del lavoro dei miei sogni, sbarca il lunario facendo la commessa. Poteva andarmi peggio, molto peggio.

 

 

 

Guardo l’orologio e mi rendo conto di aver perso la metro delle 5:00. Non posso fare altro che aspettare quella delle 5:25, e arrivare con circa 5-6 minuti di ritardo al lavoro. Anne, la collega che smonta alle 6:00, lo andrà a riferire a Eleanor, la responsabile. Sarò richiamata, come ho già visto succedere ad altre ragazze. “Un altro ritardo e sei fuori” mi dirà la “capo” della libreria, con tono sprezzante e con un certo sadico compiacimento. Se in passato avevo solo sospettato che i mezzi capi fossero peggio dei capi veri e propri, adesso ne ho la certezza matematica. Questi esseri si arrabattano al limite delle loro forze per renderti la vita invivibile e stopparti in ogni modo possibile e immaginabile. Ma il neoliberismo ha assoluto bisogno di questi Polifemi fetenti e frustrati, di cultura pressoché inesistente, che si prestano a fare da “occhio del grande fratello”. Consapevole della giornata in salita che mi attende, penso con tristezza a quanto sia vicina la nostra realtà a quella descritta da Orwell nel suo 1984.

 

Per la fretta ho dimenticato, come al solito, i guanti a casa. Senza pensarci troppo, cerco di scaldarmi un poco infilando le dita tra il bracciolo e l’imbottitura sporca della poltrona, ma urto contro qualcosa. Cerco di capire di cosa si tratta, sfilando cautamente l’oggetto dalla fessura. È un piccolo taccuino con la copertina in morbido tessuto nero. Deve essere inavvertitamente scivolato fuori dalla tasca di qualcuno e finito proprio lì, quasi sotto al sedile. Lo apro furtivamente. Non c’è nessun nome, nessun indirizzo. Sfoglio alcune pagine scritte fitte fitte con calligrafia veloce e decisa. Leggo un paio di frasi. Sto violando la privacy – quella più sacra che ci sia – di qualcuno che non conosco, che si è fidato e confidato soltanto con quei fogli ora aperti tra le mie mani. Richiudo immediatamente il taccuino e lo rimetto dove l’ho trovato. Il proprietario verrà sicuramente a cercarlo.

 

 

 

*****

 

 

 

È sabato. Oggi cambio turno in libreria. Lavoro da mezzanotte alle sei, alla faccia della “febbre del sabato sera”.

 

Le mie due coinquiline – Susan e Karol – sfilano in minigonna e tacco dodici davanti allo specchio attaccato alla parete del salotto – senza minimamente preoccuparsi di quanti gradi ci siano, o non ci siano, questa sera fuori dalla porta, mentre io mi preparo il caffè da portare al lavoro per evitare di addormentarmi sul bancone. Auguro loro un gigantesco in bocca al lupo, mi raccomando di non far dormire nessuno nel mio letto, ed esco per prendere la metro delle 23:00.

 

“Non può continuare così” mi dico chiudendo la porta. La paga non è granché e il tempo libero che mi rimane è troppo poco. Non riesco a dedicarmi a ciò che vorrei, alle mie ricerche, ai miei studi. È logorante, deprimente.

 

E mentre cammino a testa bassa, mi chiedo se il taccuino sia ancora là, incastrato tra il bracciolo e la seduta della poltrona nella sala d’attesa della metropolitana.

 

Da quando l’ho scoperto, mi siedo sempre nello stesso posto e controllo ogni giorno. Con una piccola parte del cuore spero che il proprietario, passando nuovamente di lì, lo abbia ritrovato. Con la restante parte, ben più grande invece, spero che non sia così. Quindi faccio scivolare velocemente le dita sotto all’imbottitura e quando sento il tessuto soffice della copertina contro i polpastrelli, tiro un inspiegabile sospiro di sollievo. “È ancora qui!” mi dico contenta.

 

Stanotte ho ripetuto il solito rito, ma è successo qualcosa che non so spiegare. Ho estratto il taccuino e l’ho tenuto stretto tra le mani come per infondergli un po’ di calore vitale finché non è arrivata la metropolitana. A quel punto, invece di rimetterlo al solito posto come avrei dovuto, l’ho infilato dentro alla borsa, come una ladra, e mi sono precipitata sul treno. Il cuore mi batte ancora fortissimo. Ho commesso un’azione meschina e riprovevole, ma ormai l’ho commessa.

 

Il turno di notte è insopportabile. Il tempo sembra non passare mai. Per quanto mi piacciano i libri, trascorrere la nottata in un ambiente con la luce al neon sparata a giorno è da neuro. È contro non solo la natura umana ma anche quella dei libri. Libreria non è sinonimo di sala operatoria. È un luogo che dovrebbe favorire – o almeno stimolare – la concentrazione con atmosfere create ad hoc: luci calde e soffuse, divanetti e poltrone disposte in modo da “scimmiottare” salottini per la lettura, aree poco in vista, “protette”, per consentire al lettore di stare da solo con il libro che ha scelto. Questa libreria invece, a mio parere, è nemica dei libri e dei lettori. Chi ha voglia alle tre di notte di farsi accecare da fasci di luce algida che inondano scaffali di ferro senza arte né parte?

 

Infilo la mano nella borsa. Oltre al thermos pieno di caffè sento la seta del taccuino. Forse stanotte non avrò bisogno di tutto il beverone che mi sono portata per stare sveglia!

 

Ah, dimenticavo: mi chiamo Ava.

 

 

 

Specifiche

  • Pagine: 174
  • Anno Pubblicazione: 2019
  • Formato: 14x20
  • Isbn: 9788893471435
  • Prezzo copertina: 12

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