Continua la saga di Gheler l'esploratore
IV: Dal diario di Moga
Cento anni prima degli eventi narrati nella prima trilogia, Maedo Olen Gheler Aermidia è un generale di Aglan a cui è stato promesso il bianco trono di Nuria. Per sposare la principessa, gli basterà diventare generale di Azan, l'avamposto ai confini del Sialden dove gli Etne sono schiavi e prigionieri. Qui Gheler scoprirà di essere un uomo diverso e tradirà Nuria, fuggirà nelle terre inesplorate e raggiungerà la vetta del mondo, diventando Moga.
Maedo Olen Gheler Aermidia
Aglan brillava di luce propria quel giorno. Le bianche vie erano ricoperte di drappi d’argento catturati dal vento, le balconate erano gremite di gente in festa e l’aria profumava di petali. I soldati sorridevano, questo è vero, ma nessuno di loro aveva in realtà voglia di festeggiare. Alcuni avevano perso un amico, altri un braccio o una gamba, io avevo perso cento dei miei uomini eppure, così come l’eseguire gli ordini del re, anche sorridere dinanzi al popolo faceva parte dei miei doveri.
Era l’anno del Dio che non muore, Maedo Darsiark, un generale del passato che nonostante le ferite riportate in più battaglie era sempre riuscito a sopravvivere. Il re in carica era mio zio lord Brada, fratello della mia defunta madre e primo Galvat a sedere sul trono della giovane e potente Nuria. Era stato lui ad allenarmi e a educarmi nell’arte della guerra e del comando poiché spesso si sentiva in colpa per la morte di mio padre, avvenuta nella famosa guerra per il trono.
Quando la strada della corona finì, le porte che conducevano al castello si aprirono scricchiolando. Ad accoglierci, un lungo corridoio di persone in festa. Tra la servitù e la corte c’era Dardu, il capo delle cucine, che sovrastava tutte le voci. Argo il maestro d’armi, che si ergeva silenzioso e immobile come un palo di fianco alla sua grassa moglie. Darv il bardo, che già cantava le mie ultime gesta e un’intera flotta di damigelle che chiamavano il nome di Gheler Aermidia: il mio vero nome. Uno stalliere afferrò le redini del cavallo e mi aiutò a scendere.
«Gheler, signore, Lord Brada vi attende con ansia nella sala scarlatta. Seguitemi pure» disse una delle guardie.
«So dov’è» ribadii, «restate pure al vostro posto. Beriador, venite con me, voi altri siete congedati, potete tornare dalle vostre famiglie.»
«Vi ringrazio mio Olen.»
Olen Dermar è il vero Dio della guerra, il prescelto dei preti rossi, il generale che molti anni prima portò alla completa estinzione gli elfi nella battaglia di Agat. Mio Olen, dunque, significa “mio Dio della guerra” e solo i generali che non hanno mai perso una battaglia hanno diritto a questo titolo.
Quando entrai nella sala scarlatta, lord Brada e i suoi dodici consiglieri anziani mi accolsero con un caloroso applauso.
«Eccolo!» urlò il re, «il degno figlio del grande generale Zoiro. Sette battaglie, sette vittorie e a soli vent’anni.»
«Sto semplicemente seguendo le vostre orme, mio signore, ma la strada è ancora lunga.» Brada si avvicinò ridendo e mi scompigliò i capelli, salutando in seguito e con fredda cortesia anche il mio scudiero, Beriador.
«Lunga e irta di pericoli, questo è vero, ma il popolo ha cominciato a chiamarmi con l’appellativo di Maedo solo tre anni fa! Dopo questa vittoria per Aglan, figliolo, sei diventato ufficialmente il grande Maedo Olen Gheler Aermidia, un nome imponente!»
«Io... ecco, ho fatto solo il mio dovere.»
Il titolo di Maedo invece è assegnato dal popolo che quando capisce di non poter fare a meno di una certa persona, comincia a desiderare che non muoia mai proprio come l’omonimo Dio.
«Giovane, bello, forte e anche modesto!» incalzò uno degli anziani.
«Se solo i tuoi genitori potessero vedere cosa stai diventando per questo regno. Ancora piango la morte di tua madre, così giovane, così... innocente. La maledizione degli Agatiani continua a mietere le sue vittime anche dopo tutto questo tempo.»
«L’odio è difficile da estinguere, al contrario dell’amore e della fiducia.»
«Giovane, bello, forte, modesto e pure saggio. Adesso capisco perché mia figlia ha scelto te.» Quelle parole mi fecero arrossire e lord Brada rise ancora più forte. «Certo è ancora giovane e ingenua ma è pur sempre la mia primogenita, destinata a diventare la regina di Nuria. Tu e io però abbiamo fatto un patto, otto vittorie nel nome di Lord Brada per la sua mano, quindi ti resta ancora una battaglia da vincere e avrete entrambi la mia benedizione.»
«Non chiedo di meglio che rendervi onore.»
«Avanti, raccontami tutto nei minimi particolari» mi pregò accomodandosi.
«Morvar vi è di nuovo fedele. Il suo barone aveva schierato una buona ma poco numerosa difesa, l’assedio è durato circa sei mesi e quando malattia e fame hanno cominciato a fare strage tra la sua gente, Moido ha deciso di arrendersi. In verità lui sperava nel supporto immediato della città di Dria, come avevate previsto voi ma a giudicare dalla noia che regnava tra i nostri accampamenti, devo ammettere che Onnu il cannibale ha fatto un buon lavoro.»
«Recentemente ci sono state recapitate lettere da parte sua» m’informò il re, «il signore di Dria ha ammesso la sua colpa e ha giurato fedeltà alla corona. Tra qualche giorno il distruttore farà ritorno ad Aglan con uno dei suoi figli a garanzia della sua lealtà. Il tuo dono, invece?»
«Moido? Mi sono preso la libertà di giudicarlo colpevole. È stato il boia della sua stessa città a decapitarlo. La sua famiglia, in seguito alla condanna, è fuggita da Morvar con un paio di cavalli e una misera riserva di cibo e adesso alla guida della città c’è vostro cugino Iaren.»
Lord Brada annuì e si carezzò la corta barba, picchiettando le dita contro il tavolo.
«Molto bene, un’altra ribellione estirpata alla radice. Inconsapevolmente ci stanno facendo un favore, ci offrono su un piatto d’argento il pretesto per spodestarli e sostituirli con membri fedeli ai Gadna. Ottimo lavoro, Gheler, chiedi pure tutto quello che desideri come ricompensa.»
«Io... mi basta la vostra gratitudine, mio Maedo. E, se possibile, anche cenare con vostra figlia Teana, questa sera. È da lungo tempo che non ammiro il suo sorriso.»
«Nessun problema, la informerò personalmente, prima però fatti un bagno e renditi presentabile» e con una forte pacca sulla spalla mi congedò.
Ricordo l’entusiasmo e la felicità che provai quando varcai la soglia della mia stanza. Era grande, profumata e riccamente arredata, quello che più si avvicinava al mio concetto di casa. Con Beriador avevamo in comune solo il corridoio e la sua stanza era decisamente più modesta della mia, per questo spesso gli concedevo di pranzare insieme. In fondo condividevamo gli stessi dolori, passati e presenti.
Beriador era stato portato ad Aglan come prigioniero all’età di otto anni. Primogenito dei signori ribelli di Velda, aveva assistito all’esecuzione dei propri genitori per poi finire nelle cucine come lavapiatti. Nonostante l’età, aveva già imparato a usare la spada così, quando a dodici anni un soldato ubriaco poco divertito dalla serata, ebbe l’ardire di sfidarlo a duello, Beriador vinse. Lord Brada, che aveva assistito alla scena, gli ordinò di uccidere la guardia e lui obbedì. Sorpreso da tanta lealtà, il re decise che sarebbe diventato il mio scudiero. All’inizio litigavamo spesso e con violenza ma la morte di mio padre prima e quella di mia madre dopo, in qualche modo ci avvicinò.
Non appena fui presentabile, una delle ancelle di Teana bussò alla porta. Si chiamava Dori, non che m’importasse, ovvio, ma il motivo per cui ricordavo il suo nome era Beriador. La ragazza lanciava spesso occhiate interessate al mio scudiero così, quando con gentilezza mi pregò di raggiungere Teana, la spinsi all’interno della camera e serrai la porta. «Fate piano» le dissi ridendo, «ha una ferita alla gamba che ancora gli duole.»
Teana aveva l’età di Beriador, diciassette anni. Era bella, alta, capelli neri come nuvole cariche di pioggia e occhi verde smeraldo. Quella sera indossava un abito rosso fuoco con fiori d’oro ricamati sul corpetto. Quando mi vide con un mazzo di rose, scoppiò in lacrime e si gettò tra le mie braccia, singhiozzando.
Apparecchiata la tavola e servito il vino, la principessa attese con ansia che iniziassi a mangiare.
«Buono» ammisi, «avete cucinato voi questo pesce? Oh, finalmente, mi mancavano i vostri sorrisi. Non fraintendetemi però, vi faccio questa domanda perché, be’, sembrate attendere con ansia un mio giudizio.»
«Sono la futura regina di Nuria, i nemici della corona potrebbero avvelenare i miei piatti, per questo aspetto sempre che sia qualcun altro ad assaggiare.» In quel momento non riuscii a delineare il confine tra ironia e serietà, per questo la mia faccia confusa la fece ridere un’altra volta. «Stupido. È da sei mesi che non ci vediamo, credete davvero che io abbia fame di cibo?»
«La servitù ci osserva» l’avvertii. «Vostro padre non ci ha ancora dato il suo favore.» Teana posò con impeto le posate sul tavolo, costringendomi a ignorare il secondo pezzo di salmone.
«Mi ha detto del vostro patto, è una cosa stupida.»
«È il volere del Re vostro padre.»
«Solo perché vi è andata bene fino ad ora, non vuol dire che sarà sempre così. La guerra è una cosa pericolosa e io non voglio perdervi, mio Maedo.»
«Vi prometto che non succederà, adesso però scusatemi ma non tocco cibo da questa mattina.» Le dedicai un largo sorriso e continuai a mangiare, divorando anche la maggior parte delle sue portate.
«Rischiate la vita per me, o per il trono?» mi domandò a fine pasto, spiazzandomi. Tossii un paio di volte e scolai il bicchiere di vino per non strozzarmi, rassicurandola con un gesto della mano che presto avrei soddisfatto quella sua assurda curiosità.
«Rischio la vita per il regno.» La risposta la irritò a tal punto che la sua faccia assunse un’espressione demoniaca. «E per voi» aggiunsi infine, «tuttavia il pericolo ci sarà anche quando saremo sposati. Se il mio senso del dovere verso Nuria e verso il re non fosse così grande, vi avrei già rapita tempo fa.»
«D’accordo, ammetto che questa volta ne siete uscito indenne. Mettiamo che questo vostro senso del dovere non sia così grande come dite, e che quella finestra sia al piano terra, come agireste?» Il gioco sembrava divertirla, così allontanai di colpo la sedia dal tavolo e mi gettai su di lei, atterrandola e stuzzicandola con del solletico finché non mi pregò di smetterla.
«Getterei voi dalla finestra e poi farei il giro dalla porta per raggiungervi, dopodiché ruberei un solo cavallo e vi porterei oltre le mura di Aglan fin nelle terre inesplorate, attraversando le montagne di fuoco e passando a fil di spada tutti gli Orghen con abbastanza coraggio da fermare la nostra fuga.»
«Bene, signor Maedo Olen Gheler Aermidia, credo proprio che vi siate meritato un bacio.»
Non mi è ancora chiaro se quello, da parte mia, fosse amore o semplice e spietato interesse per il trono, l’unica cosa certa era la felicità, ero felice della mia vita, felice di tutti i miei titoli, della mia importanza a corte, di Teana e di quanto sarebbe potuto diventare rigoglioso il mio futuro restando al suo fianco. Insomma, il popolo mi amava, Lord Brada Gadna mi adorava quasi come se fossi un suo diretto discendente e persino i consiglieri anziani di cui il re si circondava, avevano sempre belle parole sul figlio di Zoiro Aermidia.
Non esiste cosa più crudele della propria invisibile ingenuità.