Un incontro casuale, un romantico luogo nel Nord della Francia, un uomo e una donna.
Due sconosciuti e un destino in comune segnato dalla sofferenza e da legami che hanno lasciato segni indelebile nell'anima di entrambi.
Un sentimento contrastato dai fantasmi del passato che non vogliono allentare le loro catene, ma l'Amore è più forte di ogni cosa. Anche quando sembra che la vita trascini i protagonisti lontano l'uno dall'altra, e la violenza del dolore torni a bussare alla porta, la forza dell'amore aiuterà Marco e Matilde a ritrovarsi, per ricominciare partendo proprio dalle loro anime che, dopo tanto silenzio, aprono le braccia alla vita.
Primo capitoloIl vento del Nord increspava le grigie e spumose acque del mare di Cherbourg. Le onde spinte dalla corrente, veloci come il pensiero, quel giorno spiaggiavano sull’arenile. Era di maggio, uno di quei mesi con un risveglio naturale. Ogni prato era rivestito d’erba e ogni germoglio era attaccato al proprio albero. Tutt’intorno si sentiva l’odore del mare, misto all’odore dei tanti fiori della scogliera, quei fiori colorati e piccoli che liberavano misteriose essenze verso le porte aperte del cielo. Quella mattina, il sole si faceva spazio tra le nuvole scorrevoli, tornando a risplendere in alto, nel blu del cielo. Quel sole che, con fasci di luce, era talmente bello e luminoso da poter confondere la vista a chiunque lo guardasse. Quel sole che, penetrando tra i vetri del grande salone, rifletteva nei magnifici occhi neri di Matilde. Lei, seduta al tavolo del ristorante all’angolo della piazza, si lasciava via via sedurre da due abbaglianti occhi scuri che, poco distanti da lei, la guardavano intensamente. Che male c’era a seguire di nascosto il suo sguardo mentre l’ammirava? “Alto, moro, bello e seducente,” si diceva lei, continuando a sbirciare. Effettivamente, quell’uomo aveva un impeccabile charme, con un corpo strepitoso! Quel ragazzone era da solo, seduto a un tavolino posto in un angolo del vasto locale. Lui, nascosto da una grande pianta di ficus benjamin, si scorgeva a malapena. Forse era proprio per quello che Matilde riusciva a guardarlo, tra le foglie, senza poter provare imbarazzo. Aveva un naso differente da molti uomini e le labbra carnose, incastonate in un volto da maschio. Un volto interessante da un punto di vista artistico. Non che lei, a quarant’anni, fosse d’un tratto diventata un’artista. Lei era un pilota di aereo e non una ritrattista e se anche lo fosse stata, non avrebbe scelto di dipingere un uomo. Matilde aveva chiuso con gli uomini! Ma quell’uomo era talmente bello e sexy da riportare scompiglio nella sua mente appannata. Matilde era là, a Cherbourg, in quella cittadina della Francia del Nord, per riprendersi dopo la sua ennesima scioccante avventura. Aveva scelto quel viaggio, ma più che scelto, le fu imposto dai suoi amici per rilassarsi e cercare di riottenere un po’ di quella fiducia in se stessa che ormai aveva perso. Matilde non era un semplice pilota. Matilde era il pilota per eccellenza, una super qualificata. La cloche e la cabina dei comandi per lei erano pane quotidiano. L’ aereo era sempre stata la sua passione. Un giorno pose fine alla sua noia quotidiana. Insegnava letteratura e storia antica, ma non le bastava più. Aveva bisogno di vivere la sua libertà. Chiusa in una stanza con tante teste da riordinare non le bastava più! Aveva deciso ormai, voleva la sua libertà! Si sentiva libera solo volando nel cielo. Per lei, la parola “libertà” aveva un solo colore, quello di un blu sfumato. Così un giorno, contro il parere di tutti, iniziò il corso per il brevetto di volo. Dapprima come pilota privato, e per acquisire ore di esperienze, si unì alle missioni di trasporto sanitario d’urgenza. Qualche anno dopo, sentendosi più sicura di sé, decise di unirsi a un’agenzia aerotaxi. I giorni di ferie che le toccavano, li dedicava alla missione sanitaria e all’aerotaxi. Fu proprio durante uno di quei trasporti che la sua vita cambiò, quasi del tutto. Il piccolo aerotaxi che stava pilotando aveva perso quota. Lei, accortasi del pericolo che incombeva, riuscì a stento a mandare un SOS. Quel giorno, Matilde era andata in Valtellina per prelevare un ricco industriale e la sua segretaria. L’industriale, nonostante le previsioni del tempo non fossero perfette, voleva partire lo stesso. Non poteva assolutamente rimandare. L’attendeva un’importante cena d’affari internazionali, per cui doveva essere a Brescia il prima possibile. C’era in palio la chiusura della sua azienda, con centoventi operai e altrettante famiglie da sfamare. Si era posto di risolvere a qualunque costo il bilancio della fabbrica. Per lui, era un vero e proprio ultimatum! Matilde scossa da questa importante rivelazione, non pensando alle raffiche di vento che poteva incontrare, e al pericolo che potevano procurarle, portò al decollo il piccolo aereo. Decollò senza pensarci, anche contro il parere della stessa agenzia. Era un giorno di forte vento contrario. Dopo aver decollato, sorvolando la vallata, una forza incontrollabile di vento spinse il piccolo aereo in giù, diminuendo di molto la spinta necessaria al velivolo per decollare. Per il pilota non sarebbe stata la prima volta; Matilde era pratica di atterraggi di emergenza. Questa volta però, avrebbe dovuto effettuarlo tra le montagne. Scrutò dal cielo e poco distante, vide un luogo non spazioso ma giusto per ripararsi, almeno fino a quando quelle ripetute raffiche di vento non sarebbero cessate. Le balenò all’istante come atterrare senza pericolo, e con una manovra speciale iniziò. Voleva far posare il veicolo proprio su quell’unico spazio visibile di quella grande vallata, fitta di alberi. L’aereo non rispondeva ai comandi, la cloche si era bloccata e il circuito operativo era andato in fumo. Matilde decise di svuotare il serbatoio, solo così non sarebbero esplosi. C’era sempre una speranza di salvarsi e quella speranza si chiamava albero, nato per caso in una roccia un centinaio di anni addietro. Il vento era troppo forte, l’aereo ondeggiava nell’aria, la paura era da brividi. Matilde tentò di scendere il più possibile per compiere un atterraggio in sicurezza. L’aereo ruotò su se stesso, per qualche chilometro; volarono a testa in giù fino a quando, con una manovra speciale, Matilde riuscì ad atterrare. Il veicolo si incastrò tra i rami di quell’immenso albero secolare intrappolato tra le rocce della montagna, andandosi a posizionare, quasi per miracolo, sui suoi rami grossi e folti. Lei, il copilota e la segreteria rimasero in vita, fortunatamente. L’industriale morì subito dopo lo schianto, senza neanche poter dire una sola parola. I suoi occhi sbarrati che sembravano fissarla le gelarono il sangue. Per tre giorni e due notti, erano rimasti appesi su quell’albero saldamente radicato nella roccia, e salvati dalla sua gigantesca circonferenza. La segretaria, dopo qualche lamento, perse i sensi. Il copilota, accanto a lei, era vivo ma malconcio. Aveva un braccio conficcato tra la lamiera del veicolo e il vetro del finestrino, e pezzi di vetro infilati ovunque nel suo corpo. Matilde invece era bloccata, schiacciata dal sedile che nell’impatto si era spostato. Era incapace di muoversi, non riusciva neanche a prendere il telefono di bordo per rispondere alle continue chiamate della torre di controllo. Tutto sommato stava bene nonostante lo schiacciamento del sedile, il suo dispiacere era che il copilota accanto la fissava con dolore. La ragazza dietro di lei sembrava morta ma Matilde notò con sollievo che respirava ancora. In attesa che arrivassero i soccorsi e che l’SOS di posizione avesse fatto in tempo a giungere a chi di dovere, Matilde sperava in uno di quei famosi miracoli che ogni tanto avvengono. Non poté fare a meno di pensare a quell’incidente mentre sola e distratta, in quel locale, giocherellava nervosamente con la cerniera della sua borsetta. “Ma perché pensarci ancora?” si disse. “In fondo sono qua, viva e scagionata per avaria al motore. Ora, cerco di godermi questo forzato ma meritato riposo… Mi passerà!”. Aveva passato giorni terribili. La compagnia l’aveva accusata di imperizia. Lei, un’esperta pilota che aveva sorvolato spesso l’Africa e il Medio Oriente, era stata messa da parte per mancanza di esperienza. Lo sguardo chino sul tavolo e con la sua mente altrove non poteva non sentire quelle voci nel cervello. L’una nell’altra come scatole cinesi si susseguivano in continuazione. Come tutte le volte in cui le succedeva qualcosa di anormale, rispuntavano quegli squilibrati ricordi. Veniva così travolta dal suo passato. Quel passato assillante che sapeva solo avvolgerla nella pesantezza, la stava nuovamente torturando. Era troppo distratta da quelle disavventure perché si accorgesse della presenza dell’uomo al suo fianco. Quell’uomo che lei, poco prima, ammirava da lontano, ora era là, accanto al suo tavolo. “Salve. Piacere, sono Marco. Posso sedermi al suo tavolo?” disse l’uomo, avvicinandosi a lei. Quella figura che da seduta non dava il giusto risalto alla sua altezza, la colpì all’istante. Da vicino, era ancora più bello e affascinante, con quel suo sguardo fisso, intenso e penetrante. “Il tavolo non è solo mio, anche se intorno ci sono altri tavoli liberi, quindi potrebbe girare i tacchi e andarsene all’istante,” rispose Matilde, con una voce assente e sgradevole. Rispose a caso, mentre i suoi pensieri si arrovellavano, portandola alla casa di sua proprietà fuori Milano. Quella casa che non riusciva più ad amare. Quella casa in cui si erano consumate tutte le sue energie. La casa dell’orrore, come era solita chiamarla, quando con il consiglio dello psicanalista, aveva affidato tutte le sue sofferenze e le sue riflessioni alle pagine di un diario. Forse, sebbene ingiallito con gli anni, qualcuno l’avrebbe trovato e leggendo le sue disavventure, avrebbe avuto pietà per quella finta forza che Matilde ostentava. “Non sarebbe forse bello passare le serate potendo condividere con qualcuno la tua vita?” le ripeteva spesso una sua cara amica, “Mia cara, creiamo noi la nostra solitudine, i soliti artefici dei nostri dolori”. “Mi scusi, posso sedermi, o resto qua a farle da guardia del corpo?”. Finalmente si accorse di quella figura di fronte a lei e alzando gli occhi all’ improvviso, il suo cuore si fermò. Per qualche istante, rimase senza fiato nel guardare quell’uomo. Dovette ammettere, suo malgrado, che da vicino l’ammirato sconosciuto era ancora più incantevole. Aveva un corpo perfetto, come un bronzo di Riace. Nonostante avesse chiuso con gli uomini, perché provava un vago brivido all’idea che quell’uomo fosse là, al suo tavolo? “In guardia ragazza mia!” si disse severa, “Ha fascino da vendere così quanto ne aveva avuto tuo marito un tempo, e guarda come è andata a finire! Hai dimenticato quel tuo passato scritto ogni giorno con il pianto? Accidenti, nella vita sono stata capace di innamorarmi solo di persone false”. Lui era stato un bugiardo, un impostore. Un impostore che si era preso gioco di lei per giorni, mesi e anni, fingendo di essere quello che non era. “Tra tanto spazio, mi chiedo: perché vuole sedersi qua, al mio tavolo?” disse Matilde, dopo un lungo silenzio. Poi, scrollando le spalle, abbozzò un sorriso incerto e tolse la borsetta che aveva posto sulla sedia in cui l’uomo desiderava sedersi. Nonostante ci fosse l’aria condizionata, il caldo era soffocante in quella super primavera. Forse era la vicinanza dello sconosciuto? La sete non si riusciva a sopportare, avevano entrambi bisogno di rinfrescarsi la gola. L’uomo chiamò un ragazzo che serviva ai tavoli. Nel frattempo un altro cameriere, trovandosi in prossimità, arrivò per primo al suo cenno, porgendo il menù. “Oh, grazie,” mormorò Matilde, scorrendo in fretta i piatti del giorno. “Mi sono permesso di ordinarle un aperitivo,” disse Marco, sperando di aver indovinato i suoi gusti. Lei dapprima non gli diede retta poi, senza degnarlo di uno sguardo, gli accennò un ‘no’. “Vuole o non vuole, ormai l’ho ordinato anche per lei. Il cameriere è già qua. Non posso bere due aperitivi, corro il rischio di ubriacarmi,” disse sorridendo. “A dire il vero, mi interessa poco se lei si ubriaca, non la conosco e io non bevo con gli sconosciuti”. “Ma cosa vuole che sia un aperitivo in compagnia di qualcuno, poi non siamo sconosciuti, ci siamo presentati,” disse lui, accennando a un sorriso disinvolto. Sicuro di sé continuò: “Mi ripresento, sono Marco e lei come si chiama?”. “Matilde. Sono gentile e soprattutto non mi piace discutere in presenza di persone, per questo la ringrazio ma non la conosco, per cui non avrebbe dovuto ordinare anche per me,” continuò, allungando la mano per prendere la sua bevanda. “In fondo cosa c’è di strano nel condividere un Martini ben ghiacciato?” disse lui, “Siamo vicini di tavolo!”. L’uomo sorseggiò il suo Martini. “Il piacere che provo quando bevo un bicchiere di Martini fresco è al pari di un bicchiere d’acqua in un deserto,” disse Marco, allontanandosi dopo aver bevuto, per poi uscire in fretta dal ristorante. La donna guardava allibita la sua strana mossa, non sapeva come definirla. “Sbruffone,” fu la prima parola che le venne in mente. Marco intanto, a sua insaputa, entrò nel negozio di fiori adiacente al ristorante, e sorridendo con garbo alla proprietaria, chiuse la porta dietro di sé come se non volesse farsi rubare quella inaspettata idea. Una signora dai capelli grigi, dall’aria giovanile e con un bel sorriso si alzò da dietro il bancone. Bassa e minuta, fece cenno di aspettare, posò la sua bella sciarpa di lana che stava facendo con i ferri, e si dedicò a lui. “Salve,” disse l’uomo, cercando di rendere il suo sorriso più smagliante possibile. “Avrei bisogno del mazzo dei fiori più belli che ha”. “Vanno bene questi? Sono lilium gialli arrivati stamattina,” disse la simpatica signora. “Si, mi piacciono. Sono bellissimi nella loro perfezione, proprio come la donna che ho conosciuto,” disse Marco, rivolgendosi alla piccola fiorista. “Ha proprio ragione. Per la loro bellezza, sono dei veri capolavori della natura, e sanno rallegrare gli animi di chi li riceve”. Così dicendo, la donna preparò un bouquet con i lilium e all’ultimo chiese al suo cliente di passaggio se volesse inserirci una rosa rossa, simbolo d’amore. Quei fiori color sole, con la rosa rossa che spiccava al centro, annunciavano a tutti i presenti le coup de foudre per quella donna. Matilde intanto si stava chiedendo come mai avesse accettato quell’invito, senza neanche tentare di resistere un poco. Non fece in tempo a rispondersi che l’uomo era accanto al suo tavolo a porgerle quei fiori. “Questi fiori sono per lei. Li ho presi gialli, come il sole che ha riportato dentro di me e soprattutto per la sua classe che sa di nobiltà,” disse. “Come vede, c’è una rosa rossa che simboleggia l’amore”. Poi fece una breve pausa graffiata dal suo respiro affannato, simbolo di un piacere mai provato fino ad allora. “A dire il vero, volevo donarle un’orchidea bella come lei, ma la fiorista mi ha detto di non potermi dare un simile fiore perché non era stato ancora scoperto”. Lei lo guardò basita e allo stesso tempo lusingata mentre l’uomo le donava un amorevole sorriso. “Per cortesia, non faccia l’adulatore. Non le ho dato il permesso di interessarsi a me” lo rimbrottò Matilde ancora più acida. “Sa, da lontano ho visto che era perfetta e mi sono innamorato subito di lei. Quando poi mi sono avvicinato, ho scoperto davvero la sua perfezione,” disse sorridendo. “A me non interessa, poteva anche fare a meno di sedersi al mio tavolo e non mi prenda per i fondelli!” aggiunse ancora lei, freddamente. “I fiori fanno da cornice agli eventi importanti delle nostre vite, suggellano le occasioni speciali, i momenti e le persone da ricordare,” disse lui. Matilde, colta da una gioia incontenibile che le esplodeva dentro, non fece in tempo a replicare che Marco le mise i fiori in grembo. Mentre li avvicinò a lei, le loro dita si sfiorarono. La donna notò che le faceva un certo effetto. “Comunque sia, i fiori sono davvero belli, e i fiori non si buttano; i fiori sono creature dolci e indifese perciò non li voglio maltrattare e li terrò. Grazie!” così dicendo, posò il mazzo sul tavolo. “Li accetto come richiesta di scuse perché si è seduto prepotentemente al mio tavolo; però, come già ho avuto modo di dirle, non le dò il permesso di continuare a importunarmi”. “Posso lasciarla in pace, se lei proprio non vuole parlare con me”. Marco fece per alzarsi e andare a sedersi in uno dei tavoli liberi della sala, ma poi si girò e si riavvicinò a Matilde. “Lei si sente terribilmente sola vero?” disse Marco sfacciatamente, “Ho captato la sua solitudine ed eccomi qua ad aiutarla. Oltre a questa solitudine, lei nasconde qualche segreto”. “Lo sa? Lei è proprio uno sfacciato, gliel’ha mai detto nessuno?” rise lei con la testa all’ indietro. “Io sfacciato? Ma se sono uno degli uomini più timidi al mondo. A parte questa grande sciocchezza che ho detto, le dico che lei è talmente bella, triste e sensuale che quando la conoscerò meglio, mi innamorerò per davvero!”. Matilde lo guardò stranamente come se fosse un “animale” unico. “Conosco bene gli uomini come lei, adulatori e stronzi che fanno di tutto per conquistarti e poi ti lacerano il cuore”. “Una bella donna come lei non può stare da sola e soprattutto, non deve mangiare in solitudine”. Era vero, si sentiva terribilmente sola, e lui l’aveva percepito, ma lei non voleva attaccare bottone con il primo arrivato; il primo dopo tantissimo tempo che l’aveva attratta, che per altro era spavaldo e troppo sicuro di sé. Matilde lo guardò di sottecchi più da vicino. Il suo sorriso suscitò in lei la forte tentazione di scoprire chi fosse realmente quello sconosciuto. La sua mente andava oltre, riusciva a immaginarlo persino come doveva essere stato da ragazzo, con i suoi pantaloni corti, a giocare al pallone, a ridere e scherzare con i suoi coetanei. Sicuramente sarà stato uno che piaceva a tutte le ragazzine. Scosse la testa, per allontanare quel mondo di fantasie infantili, per poi tornare alla realtà. Lasciando quei pensieri, continuò a leggere il menù. Decise per il suo pranzo e fece un cenno al cameriere, che arrivò a passo spedito e dopo aver attraversato l’intera sala, si avvicinò solare al loro tavolo. “Entrèe,” gli disse subito lei. “E come secondo che gradisce?” le domandò il cameriere, vergando una nota sul piccolo taccuino tutto sgualcito. “Per secondo, vorrei, un’entrecôte au poivre vert, avec salade composée. Mercì”. “Qualcosa da bere?”. “Una bottiglia di un ottimo Bordeaux rosé,” disse intromettendosi Marco, “ottimo per accompagnare sia l’antipasto che il piatto di carne che ha scelto la signora”. “Acqua minerale non gassata, grazie,” si affrettò a contraddirlo lei. Non era interessata al vino, quel giorno voleva farne a meno. “E a lei signore, cosa porto?”. “Per me va benissimo anche il menu di giornata”. Matilde era là ma assente, si stava perdendo nei suoi pensieri. Per anni, si era costruita quella specie di corazza esterna da mostrare al mondo intero ma dentro di sé, continuava a essere più vulnerabile che mai. Il passato seguitava a ossessionarla e i ricordi minavano la sua sicurezza. Facendo leva su tutta la sua volontà, si era sforzata di scendere a patti con il dolore, ma l’umiliazione subìta, aggravata dagli squallidi comportamenti del marito, le impediva di superare quella barriera di diffidenza e di rancore profondo nei confronti del genere maschile. “Signora, signora, signora!”. Riscuotendosi di colpo, si girò perplessa. “Si?”. Il cameriere attendeva con il vassoio in mano. “Scusi, ero sovrappensiero”. Il ragazzo finalmente poté cominciare a servire: “Ecco a voi il vino, lo facciamo arrivare volutamente per noi da una cantina vicino a Saint’Emilion!”. Marco ringraziò, anticipando la commensale. Durante il pranzo, tentò di conversare con lei, sperando d’apparire rilassato ma la voce lo tradiva. La sua compagna di tavolo era un pezzo di ghiaccio. “Un iceberg è più semplice da sciogliere,” pensò lui. Non sapeva che quella mattina Matilde era talmente depressa, da voler porre fine alla propria esistenza. Quel giorno doveva essere per lei il grande giorno: era andata al mare con l’intenzione di farsi inghiottire. Ma neanche in quello era riuscita! Fortunatamente! L’uomo, notando quel silenzio tombale, stava già pentendosi di essersi fermato a quel tavolo. Ormai le pietanze erano già arrivate, e andarsene in quel momento sarebbe stato davvero scortese; così, mangiarono in totale silenzio. Marco, tuttavia, non era un uomo pronto ad arrendersi alla prima difficoltà. Lui pensava, pensava sempre a queste parole: “Da lontano ho visto che sei perfetta e mi sono innamorato di te. Quando ti conoscerò, scoprirò che non sei perfetta e allora ti amerò ancor di più”. Marco cercò in ogni modo di intavolare un discorso con lei, ma senza esito alcuno. “Conosce la città?” le chiese, sperando così di rompere un po’ il ghiaccio, ”Se ha bisogno di una guida per conoscere meglio il posto, nessuno è migliore di me. Vi risiedo periodicamente da quindici anni e conosco ogni parte della scogliera”. Raddrizzando le spalle, Matilde si scostò dal viso la soffice cortina castano scuro del suo lucente caschetto. I lunghissimi capelli che era solita portare un tempo li aveva tagliati da sola in un gesto di rabbia. “Ma lei non si arrende mai? Comunque ci penserò,” rispose finalmente, accennando un bel sorriso. “Wow, sa anche sorridere e che bel sorriso che ha”. Poi impacciato si voltò, e affascinato guardava una giovanissima coppia che mano nella mano mangiava una pizza. Lo sguardo dell’una si perdeva negli occhi dell’altro. Quell’immagine d’ amore e di serenità non sfuggì a Matilde, tanto che non staccava gli occhi da quel quadretto. Era bello vedere la scena del ragazzo che, alzandosi, sfiorò con il naso il collo della ragazza, inclinandole la testa per cercare la bocca che lei aveva già pronta per essere baciata. Cosa strana, lei per qualche attimo invidiò quei due ragazzi. Lei, che non conosceva invidia, era gelosa di quella felicità a lei sempre mancata. Di colpo il profumo che le arrivava dal bicchiere di vino davanti a sé la riportò coi piedi per terra. Ringraziò ancora una volta Marco per il vino che le aveva offerto e, dopo aver mangiato la fetta di charlotte che aveva ordinato, finì di bere. Un silenzio regnava in quella sala, un silenzio inverosimile che fu interrotto da un assordante rumore. All’improvviso si sentì un boato. Riscossi da quel fragore d’inferno, gli avventori del ristorante balzarono in piedi all’unisono. Vi fu un attimo di silenzio tombale, mentre dalla strada adiacente giungeva un suono di vetri infranti e rumori di lamiere piegate. A quel punto incominciarono tutti a parlare e a sperare che non fosse successo qualcosa di grave. Marco si sbarazzò del tovagliolo che aveva ancora in mano e corse verso il luogo dell’incidente. Dietro di lui, si precipitò anche Matilde. Un ragazzo chiedeva aiuto sopraggiungendo verso di lei in fretta e furia. La donna non ebbe il tempo materiale di schivarlo. Fu come sbattere contro una parete di roccia; l’impatto fu così violento che Matilde lottò per ritrovare il fiato. Il ragazzo, per contro, non parve risentire della collisione. Continuava a correre sempre più forte, era rimasto talmente scioccato dall’incidente che piangendo a singhiozzi chiedeva a tutti quelli che incontrava di chiamare i soccorsi perché nell’impatto il telefono si era rotto. Matilde, sempre a passo spedito, indicò al ragazzo il ristorante, per poi svoltare l’angolo per raggiungere il luogo dell’incidente. Giunta sul posto vide a terra una ragazza esamine, mentre Marco su di lei le prestava i primi soccorsi. Guardò la donna con gli occhi chiusi, poteva avere circa venticinque anni e i suoi capelli biondi erano corti e lisci. Indossava una camicetta verde e un paio di jeans che sottolineavano la sua forma snella. I lineamenti del volto erano dolci e delicati. Era davvero una bella ragazza. Era là, stesa e fortunatamente, ancora viva. Marco si chinò su di lei, per praticarle un massaggio cardiaco, alternando la respirazione bocca a bocca. Dopo lunghi sforzi, finalmente si notò un impercettibile movimento dal corpo della giovane donna. Matilde notò che il petto si sollevava e si abbassava lievemente, con regolarità. La ragazza poi aprì gli occhi, era viva. Fu un sollievo per tutti coloro che avevano assistito all’evento e un applauso scrosciante si alzò per Marco. All’improvviso si udì una voce distante che chiedeva aiuto indicando un fossato adiacente la strada. C’era un’altra ragazza che aveva bisogno di cure e che, dal forte impatto, era stata sbalzata fuori dal veicolo poiché non aveva la cintura di sicurezza allacciata. Marco corse verso il fossato e trovò una giovane donna col volto cianotico; capì all’istante che stava soffocando. Le infilò le dita in bocca e con delicatezza le afferrò la lingua che era volta all’indietro. Ma il cuore ancora non dava battiti. Marco incominciò così a rianimare la ragazza, “Posso aiutarla?” disse Matilde avvicinandosi al soccorritore, “Per il lavoro che faccio, ho dovuto apprendere i rudimenti del primo soccorso. Posso essere d’aiuto?”. “Si, grazie. Cortesemente, prema sul petto, qui dove le sto indicando, io le praticherò la respirazione artificiale” disse Marco, accennando un sorriso per darle coraggio. E così iniziò la pratica di rianimazione. Lei, aggrottando la fronte, si abbassò e cominciò a contare, con le mani unite sullo sterno della ragazza. L’ autoambulanza arrivò qualche minuto dopo, la ragazza aveva già ripreso fiato e fu condotta in ospedale per eventuali controlli. “Quale lavoro svolgerà quest’uomo?” si domandò Matilde, “Non mi stupirei affatto se fosse un medico; è stato troppo perfetto nei movimenti così come la giusta posizione delle mani sul torace e ha avuto una calma così eccessiva”. Matilde si poneva soltanto domande su di lui: “Da dove arriverà quest’uomo? Sarà sposato? Avrà figli?”. Non riusciva a capire perché fosse tanto curiosa, in fondo aveva deciso di non avere più interesse per gli uomini. “Tra poco ritorneremo al nostro tavolo, che ne dice di una bibita fresca?”. Era proprio una giornata caldissima e luminosa, il cielo era completamente sgombro di nuvole. E in quel celeste lucido, il sole mostrava con orgoglio tutto il suo splendore. Tornarono nel ristorante e Matilde accettò con piacere la fresca bibita perché aveva troppa sete. Lui continuava a guardarla, ammirandola nel suo modo di vestire e camminare. Lei indossava una gonna di cotone nero, con minuscoli fiori gialli, lunga appena sopra il ginocchio e una canotta gialla. Portava con sé anche un maglioncino di cotone nero messo sulle spalle, annodato sul petto, mettendo in risalto la sua bella postura. Non c’era nulla da dire; aveva un bel seno, sodo e alto e la taglia di sicuro poteva essere una quarta o una quinta naturale. Rimase estasiato dall’armonia di quel corpo e fu letteralmente rapito dalla morbida sensualità delle sue gambe accavallate sotto il tavolo nudo di tovaglie. Matilde nella sua semplicità era capace di fargli girare la testa. Marco invece indossava pantaloni di lino blu notte e una maglietta bianca che metteva in risalto la sua eleganza e soprattutto la sua abbronzatura. Finalmente, quel pranzo finì, con i tempi supplementari ma finì, proprio come una partita di calcio. Mentre Marco con atteggiamenti da fighetto si sistemava gli occhiali per ripararsi dal forte sole, Matilde ne approfittò per girare dietro l’angolo del ristorante e allungare il passo verso la spiaggia. Era intenzionata a scappare via il più lontano possibile da lui. Era bello da mozzare il fiato, sarebbe stato meglio non rivederlo. Meglio dimenticarlo! Nonostante fosse molto attratta da quell’uomo, aveva paura di precipitare di nuovo in quel baratro di sentimenti e di incessanti conflitti. Non essendo del luogo, non sapeva che quella strada era l’unica che portasse alla spiaggia, per poi proseguire verso la cittadina. Marco la raggiunse sugli scogli altissimi, da dove si poteva ammirare il piccolo porto della cittadina francese. La donna sentì una presenza dietro di lei, si girò di scatto e, spaventata, gli tirò la borsa in faccia. Lui d’istinto la scostò con la mano, per non essere preso in pieno. Matilde barcollò per un istante, fino a che cadde tra le sue braccia, mentre la sua borsa nuova di zecca cadde nei cespugli di rosa selvatica. Marco aveva tra le braccia una donna sola e disarmata e di colpo ebbe voglia di baciare quella sua carnosa bocca color ciliegia. Erano talmente vicini che sentiva il profumo del suo alito fresco di Martini. Sarebbe solo bastato allungare le labbra e avrebbe dato vita a uno di quei baci più profondi e desiderati. Ma lasciò quel pensiero da dove era partito e si abbassò a prendere la borsa. “Scusa, non volevo spaventarti. Mi farò perdonare con un caffè o un gelato,” così dicendo, le accarezzò i capelli. “Lei è proprio uno sfacciato. Si presenta senza conoscermi, mi insegue, mi fa spaventare, poi, per concludere, senza permesso mi dà del tu e mi accarezza persino i capelli. Ma a che gioco sta giocando? Cos’ altro vuole da me? Sei come tutti gli uomini, hai voglia di portarmi a letto? Caschi male!”. Poi, voltò le spalle e si allontanò via da lui e da quel panorama suggestivo, con quel mare legato al cielo. Quel mare che in quel momento sembrò cambiare d’abito. Marco la rincorse, le prese la mano e quasi la trascinò giù, verso la spiaggia. Lei non protestò stavolta, non protestò perché si sentiva invadere da brividi che correvano lungo la schiena. A un tratto l’uomo si fermò a indicare una villa maestosa, là, sulla scogliera più alta. “Ecco, quello è il mio rifugio,” disse con orgoglio, “la prima volta che sono venuto in Normandia, me ne sono innamorato subito. Qualche anno dopo era in vendita e l’ho comprata”. Era il posto ideale per rilassarsi e rigenerarsi. Matilde rimase affascinata da quella casa abbarbicata sulla scogliera e collegata al mare grazie a una ripida scalinata, scavata direttamente nella nuda roccia. Era a dir poco magnifica. Ne fu talmente rapita tanto da non accorgersi che Marco le si era avvicinato così tanto da poterne percepire il respiro, sentendo il fiato umido sulla sua pelle color ambra. Marco avrebbe voluto cingerla a un fianco per aiutarla a camminare contro l’impetuosa corrente di risacca ma Matilde lo allontanò con un gesto deciso e stavolta non brusco. Per lui fu quasi una carezza, tanto che il cuore cominciò a battere più forte nel petto. Fu invaso da un’emozione forte, tanto da vedere intorno a sé un pullulare di farfalle. Si sentiva come un ragazzino alla prima cotta. Lei, dopo un attimo di esitazione che la fece restare con il braccio teso e appoggiato al petto di lui, si avvicinò di scatto e si lasciò abbracciare. Le sue labbra chiuse aspettavano un tenero bacio che arrivò all’istante. Marco la baciò lungo il collo e lei si divincolò per un attimo ma poi la voglia di quell’uomo era troppo forte che si riavvicinò con la bocca semiaperta. Vi fu tra loro un bacio ardente e decisamente inaspettato, un vero toccasana per i loro cuori. “Se vuoi, posso baciarti per sempre, sarò una pioggia ininterrotta di baci sulle tue labbra”. Di colpo, lei si staccò dalle sue braccia, e corse verso le numerose luci della città.