Vi siete mai fermati ad ascoltare il vento quando soffia, forte e impetuoso? O quando sussurra, dolce e calmo? Avete mai provato a far vostre le parole che la gente gli affida? È quello che ha cercato di fare l’autrice in questi racconti… E così incontreremo Louis, un cantante dal volto luminoso ma con un grande dolore nascosto nella parte più profonda di sé, dolore che Etienne, un ragazzo su una sedia a rotelle, riuscirà a lenire. Ci sarà anche Bastian, che un mattino si ritrova sospeso in un luogo infinito, avvolto da una nebbia così fitta da fermare chiunque voglia avvicinarlo… ma Thomas, il suo migliore amico, non vuole arrendersi a nessun costo… Capiremo che siamo noi stessi a costruirci le prigioni e che soltanto noi abbiamo le chiavi per uscirne. E quanta liberazione possiamo provare quando riusciamo a sconfiggere il nostro sogno oscuro? Incontreremo Luca e Marisa, che pattugliano le strade della loro città di notte, per poter dare un po’ di serenità a chi, in quelle strade, è costretto a viverci. Saremo testimoni di una guarigione. Saremo capaci di mettere anche noi da parte l’orgoglio per ritrovare un’amicizia creduta perduta?
L’AUTRICE
Anna Campo è nata ad Alcamo (TP). È vissuta ad Alcamo fino all’età di 5 anni per poi andare a vivere a Udine, dov’è nata sua nonna. Sposata giovanissima ha avuto 4 bambini ormai tutti grandi (il più giovane ha 21 anni). Lavora come assistente di una persona diversamente abile. Si professa cattolica. Ed è un’assidua frequentatrice della parrocchia, dove presta il suo aiuto come catechista. Ha partecipato a diversi concorsi: “Poesia Onesta”, arrivando terza nel 2014 con “Mio padre”; “Premio Arco dei Gavi”, nel 2014, arrivando settima e inserita nell’antologia; “Poesie in video”, nel 2015, arrivando prima con la poesia “Vivi”. Ha ottenuto il Riconoscimento con Menzione di merito al “Premio internazionale Michelangelo Buonarroti”. Nell’ottobre 2012 ha pubblicato la sua prima silloge, “Frammenti del cuore” (SBC Edizioni). Nell’aprile 2018 esce, presso Pluriversum Edizioni, “Un gomitolo di storie”, una raccolta di racconti che ha avuto e sta avendo ancora un grosso successo. Ha pubblicato un racconto anche nell’antologia “#Petstory” (Pluriversum Edizioni) dal titolo “Il ponte dell’arcobaleno”.
La sera prometteva bene. Louis era carico a mille. La sua voce non aveva avuto nessun calo, nonostante l’influenza che lo aveva messo k.o. per una settimana almeno e, anche se le sue forze sembravano leggermente più... come dire... appannate, nessuno se ne stava accorgendo. Il suo gruppo lo sosteneva bene, il pubblico reagiva alla grande. Dentro di sé tutto reggeva benissimo. Non era vero che senza un microfono era una nullità. Anzi. Senza quel microfono lui era un grande lo stesso, e questa non era vanità o superbia ma un dato di fatto. Lui era nato per comandare. Fin da piccolo lo aveva sperimentato con tutti quelli che gli vivevano accanto. Era l’ultimo di tre sorelle, adorato chiaramente da tutte. Bastava un suo sguardo per farle capitolare. Così continuò anche a scuola, sin dalla materna. Era un angelo, coi capelli biondi che si inanellavano attorno a un viso dai lineamenti dolcissimi, dove spiccavano due occhioni di un azzurro intenso screziato di blu. Alle medie subentrò la passione per la musica e il nuoto. Così anche il suo fisico si modellò, vasca dopo vasca, giorno dopo giorno. Non gli importava di far parte di una squadra, di diventare un nuotatore professionista. Lui l’acqua l’adorava perché non lo costringeva a fare qualcosa ma, al contrario, l’accompagnava nei movimenti, l’avvolgeva come un’amante. Silenziosa, gentile, amica, sensuale, esperta. Gli facilitava i movimenti senza ostacolarlo e modellava il suo corpo già longilineo. Avrebbe potuto diventare veramente un campione, ma cresceva in lui anche l’amore per la musica. Volle fare il conservatorio per imparare a suonare perfettamente ogni strumento a corde, fin dall’età di sei anni e, anche se poi scelse il Rock, tutti i suoi pezzi risentivano di questa impronta classica, diventando così struggenti e particolari da segnare un’impronta precisa nel mondo della musica. In ogni città dove andava per fare un concerto, cercava un albergo dotato di piscina o collocato nei pressi di una piscina, anche se piccola, non importava. A lui interessava soltanto scaricare nell’acqua ogni pensiero, e così fu anche quella sera, quando conobbe Etienne. Aveva saltato la piscina quell’ultima settimana per forza di cose; era stato bloccato da quell’accidente di influenza che aveva messo a letto mezza popolazione mondiale. Sette giorni chiuso in una stanza della sua villa che divideva con il suo fedele cane e con una delle sue sorelle, quella che aveva quattro anni più di lui. Era lei che scriveva, con lui, tutti i testi delle canzoni e ne curava l’arrangiamento, in una complicità che difficilmente raggiungi con qualcuno che non abbia respirato, con te, la tua stessa aria. Ariel era la sua preferita. Voleva un gran bene anche alle altre, ma con lei l’affinità era completa. E quando era stato il momento di andarsene, l’aveva portata con sé. Lei accettò a patto che lui la buttasse fuori nel momento in cui sarebbe diventata una rompi... scatole (anche se usò un altro termine meno fine), di quelle insopportabili. Questo lo convinse che stesse facendo la cosa giusta. Ariel e Rocki, il suo pastore tedesco, lo curarono facendo il vuoto attorno a sé, senza invadere il suo spazio ma facendo attenzione a non lasciarlo solo. Perché uno come lui non era felice se restava solo. Uno come lui, che amava la luce e la vita, temeva la sua parte in ombra, quella parte che celava con molta cura. Non si trattava di aver paura di perdere il controllo e fare del male agli altri. La sua era una paura diversa. Sentiva nettamente che un’ala nera lo ricopriva oscurando, quando glielo permetteva, la luce. Non diventava cattivo in quei momenti, ma aveva paura di guardarsi dentro. Ne era, semplicemente, terrorizzato. Ormai Ariel lo sapeva bene e cercava di non lasciarlo mai da solo. Quando era in concerto lei non lo seguiva, ma sapeva che la stanchezza lo avrebbe fatto crollare. Era sfinito, anche se una luce rimaneva sempre accesa nella sua camera per tutta la notte. Così, coccolato dagli unici esseri viventi che lo conoscevano, la sua ripresa fu quasi totale. Fu quando si sedette al piano per suonare il suo pezzo preferito, il primo che l’aveva portato al successo, che si rese conto di quanto fosse stanco. Paul, che suonava la batteria ed era con lui dall’inizio, gli portò dell’acqua con dentro sciolto un po’ di Guaranà e un asciugamano. Il tutto mentre il palco piombava nel buio completo. Il consueto tuffo al cuore... mentre il sapore forte di quella bevanda energetica gli dava la carica necessaria. L’asciugamano sul volto e tra i capelli biondi, poi le luci che si accendevano sul piano, dove lui si era seduto nel frattempo. Le dita che correvano dolci sulla tastiera di quello che fu il suo primo pianoforte e la voce che accompagnava la melodia che accese, nell’oscurità, tante piccole lucciole. Una sterminata platea di ragazzi pronti ad alzare gli accendini e ad accompagnarlo in coro. Un momento che aveva vissuto infinite volte e che sempre gli regalava la stessa identica emozione. Fu lì che qualcosa accadde. Lui aveva l’orecchio assoluto. Tante volte ci avevano scherzato su; nulla sfuggiva al suo udito indefettibile. Poteva ascoltare un’intera orchestra e riuscire a sentire chi avesse steccato nel preciso momento che questo accadeva. Come quella sera, quando udì una voce accanto alla sua che usciva dalle altre. Acuì il suo udito e si rese conto che era vicino a lui. Veniva dal retro del palco. Accompagnava la sua canzone senza stonare, con delicatezza. Non era una delle solite voci, non era uno dei suoi coristi. Quando terminò di cantare e le luci si accesero, cercò il proprietario di quel timbro così particolare. Allora ricordò: aveva dato il permesso a un ragazzo con la carrozzina di venire sul palco, alla fine del concerto, per ascoltarlo da vicino. Il ragazzo però aveva deciso di starsene sul retro. Quando gli avevano chiesto un biglietto sotto il palco per un disabile, lo diede senza esitazioni... ma lo stupore degli altri fu grande quando lui disse che lo voleva sul palco all’inizio di quella canzone. Aveva agito d’impulso chiaramente, senza pensare a nulla, non certo per farsi pubblicità. Aveva avuto un amico malato di sclerosi multipla bilaterale, Stefan. Sapeva che cosa volesse dire stare su una carrozzina, per questo lo aveva voluto li, con lui. Tutto qui. E che i giornalisti scrivessero pure quello che volevano, non gliene importava nulla. Lo aveva visto di sfuggita prima di iniziare il concerto, sotto il palco, lo aveva anche salutato. Un ragazzo piegato quasi su una carrozzina, così gli era parso, ma adesso quella voce aveva cambiato ogni cosa. Non era piegato più sulla carrozzina, aveva la schiena dritta, il viso pieno di malinconia, un corpo piccolo e magro e una voce splendida che gli era entrata nel cuore. Il concerto finì tra le ovazioni. Non aveva presentato il ragazzo al pubblico perché gli aveva fatto cenno di no con la testa e lui aveva capito. Quando salutò tutti quanti e lo cercò per parlargli, lui non c’era più. Erano venuti a prenderlo. Chiaramente nessuno sapeva dove fossero andati. La delusione fu grandissima, quasi pari alla sua stanchezza. Andò nella piscina che sua sorella gli aveva trovato per fare le solite vasche più giù del solito, e non soltanto per la serata e i postumi dell’influenza, ma anche per la delusione. Perché se n’era andato così? Per quale motivo? Come poteva esistere una persona così schiva? Avrebbe voluto soltanto salutarlo, ascoltare ancora quella voce meravigliosa. Notò che c’era qualcun altro. Chi mai era così malato da fare, come lui, delle vasche a quell’ora indegna? Ricordava bene, la piscina veniva aperta soltanto per lui. Cioè... sua sorella gli aveva fatto avere le chiavi visto che, di solito, nessuno era ancora aperto a mezzanotte. Doveva essere un conoscente del proprietario. A ogni modo, chiunque fosse, si mostrava cortese e discreto. Tutto questo lo pensò con quella piccola parte del suo cervello che non riusciva a mettere a tacere, il resto si stava annullando nella magia dell’acqua che lo avvolse amica, silenziosa. Abbracciandolo completamente. Iniziò a fare la prima vasca in totale relax, buttando fuori ogni contrasto, ogni cosa che non andava, ogni pensiero oscuro. Tutto quanto. Continuò così per gli altri trecento metri. Fu quando si appoggiò al bordo, indeciso se farne ancora qualcuna o uscire per quella sera, che vide qualcosa che lo gelò lì sul posto: una carrozzina. Era sul bordo della piscina, a pochi metri da lui. Doveva essere sconvolto davvero per non averlo notato appena arrivato. Sconvolto dalla stanchezza e dalla debolezza, certo. E dalla delusione. Ma... una carrozzina avrebbe dovuto vederla. Voltò la testa di scatto, aveva sentito, prima di entrare e mentre nuotava, la presenza discreta di qualcuno ma non si era reso conto di chi fosse. Non fino a quel momento. Etienne era a pochi metri da lui, appoggiato anch’esso sul bordo, davanti alla carrozzina; non lo stava guardando, intento a raccogliere le sue forze per issarsi sulle braccia e uscire. Abbracciò con lo sguardo la sua figura, incapace di fare qualsiasi movimento. Era magro, sì, incredibilmente magro, anche se le spalle e le braccia apparivano muscolose. Vide la sua fatica, ma non l’aiutò, ricordando come il suo amico Stefan non sopportasse di essere aiutato. E fu questo che colpì Etienne più di qualsiasi altra cosa, più del suo fisico prestante, dei suoi occhi indaco, della sua voce calda. Fu il rispetto che ebbe per lui, quel suo lasciarlo fare, quel suo riconoscere in lui un essere umano che aveva il suo stesso diritto di fare da solo. Di vivere senza nessun aiuto che non fosse richiesto, come tutti gli altri. Quando Etienne fu fuori, Louis lo vide sedersi su un asciugamano già pronto e disteso. Notò le gambe magre, piene di cicatrici... Alzò lo sguardo sul suo volto, anch’esso pieno di cicatrici nella parte destra. Sul palco, con quelle luci sul viso, era stato ingannato e non le aveva notate, poi Etienne lo salutò e lui riconobbe la sua voce. Tutto il resto perse d’importanza. Ogni cosa. Compresa l’acqua che lo stava ancora avvolgendo. Capì di essere perso. Mentre sentiva la sua stessa voce che ricambiava il saluto, uscì anche lui con facilità, avvolgendosi nell’accappatoio blu e sedendosi sulle piastrelle accanto a colui che, per la prima volta nella sua vita, lo aveva colpito profondamente.
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