Francesco è un uomo di quarantotto anni che di colpo scopre di essere morto. Vede la moglie e i due figli piangere al suo funerale. Vede gli amici, i parenti e i colleghi alla messa, e poi al cimitero dove tumulano la sua salma. Da lì è un susseguirsi di passaggi tra il nuovo e il vecchio mondo.
Nell’uno egli incontra i suoi cari che l’hanno preceduto nella morte, vede gli angeli, i dèmoni – con cui si troverà a confrontarsi – gli dèi irati dell’Immaginazione, le anime confuse, e innumerevoli altre creature dell’Astrale, la dimensione invisibile del sonno e della morte. Qui impara a prendere coscienza del suo nuovo stato. l’Esistere, il quale si rivela essere migliore e più reale del Vivere, e man mano acquisisce una sapienza che è rivelatrice persino del meccanismo che governa in terra il destino degli esseri umani.
Nell’altro sta accanto alla moglie Anna – la quale non si rassegna alla sua scomparsa – e ai figli Giuliano e Giacomo, e continua ad aggirarsi nei luoghi in cui egli ha vissuto, tutto vedendo, ma senza che altri possano accorgersi di lui.
L’AUTORE
Biagio Filardi, nato a Taranto, è residente a Torino, città nella quale si trasferì per compiere i suoi studi al Politecnico nella prima metà degli anni Settanta. Sposato con Antonella da trentadue anni, ha due figli, Antonio e Lorenzo. Esercita la libera professione di ingegnere, con indirizzo architettonico. Oltre alla passione per lo scrivere, ha quella dei bonsai. Questo è il suo quinto romanzo e il primo pubblicato con Pluriversum Edizioni.
Mi chiamo Francesco V., sono di Torino, ho quarantotto anni, e sono morto. Lo desumo anche dal corpo composto nella bara scoperchiata, vestito per bene in un completo scuro. Mi riconosco, infatti: ecco, son proprio io. Ho le braccia stese sul corpo e le mani una sull’altra, le scarpe nere lucide ai piedi. Vedo ogni cosa dall’alto, come agganciato al soffitto della stanza. Ho la cravatta. Io di solito non l’indosso, devono avermela messa dopo. Sì, dopo l’ultimo respiro. Eppure, mai più di ora mi son sentito vivo e cosciente d’essere vivo. Mi è capitato all’improvviso di trovarmi in questo stato, come fossi apparso in un altro mondo varcando la soglia di una porta per una spinta. No, a ripensarci, l’impressione è di essere stato risucchiato dall’interno. Nulla ricordo di prima, ossia di come sia morto e quando. Mi chiedo chi io sia adesso, o cosa. Sento di avere mani e braccia ma non le vedo quando le cerco. Abbasso lo sguardo e non scorgo né le gambe né i piedi. Porto le mani alla faccia – poiché sento di averla, una faccia – e la tocco! Ecco, la percepisco sotto le dita. Tasto ogni parte del viso. Il naso è quello. Ho i baffi e la barba. Sono lo stesso di prima, nulla è cambiato se non che ora sono... siamo in due. L’altro è immobile, supino nella cassa a un po’ di centimetri da terra. Gli sto di colpo accanto: come ho fatto? Ho l’impressione che mi basti pensare di muovermi ed ecco che giungo alla meta ancor prima di rendermene conto. Beh, fa un certo effetto vedersi da morto. Non mi ero accorto di essere tanto sgraziato. Il naso è grande per quel viso, ma credo che lo sarebbe per qualsiasi altro viso. E la bocca! Senza labbra, quasi: una fessura sottile, un taglio orizzontale, uno sbrego dai contorni pallidi. La barba è corta e troppo scura per un viso troppo bianco. Forse i lineamenti li ha scomposti la morte, perché a dire il vero qui sono molto peggio di quanto ricordi. Dovrei essere sconvolto per ciò che mi accade, eppure sono tranquillo. Neanche sorpreso. Niente paura. Poche domande mi vengono da formulare. Di una cosa sono certo, ecco: non sto sognando. Me ne accorgerei, altrimenti. Oh sì, me ne accorgerei senza dubbio! Forse che non si sappia distinguere la realtà da un sogno? Io ho, del resto, troppa dimestichezza col sonno e i sogni e poi col risveglio al mattino: ogni mattino per quarantotto anni, appunto! Distinguo bene, insomma, la concretezza evidente dell’esistenza da tutto il resto che viene per la fantasia e l’illusione. Non sto sognando: sono morto e basta. Sono concretamente morto, e non si discute. Altre volte ho visto un morto nella sua bara, dunque so riconoscere un morto, e questo qui accanto sono io. Allungo la mano per toccarlo e gli passa attraverso. O meglio, sento di passare attraverso il corpo del morto – del mio corpo, insomma – però la mano, la mia mano nuova, non la vedo. Fuori c’è il sole. Mi sono voltato verso la finestra così, d’istinto. Dai vetri scorgo gli alberi del nostro giardino nella luce calda del pomeriggio. Perché pomeriggio? È solo un pensiero che s’è fatto largo nella mente, eppure ne sono sicuro, in questo momento è pomeriggio. La stanza è vuota, se si escludono il cadavere e me. Nessuno veglia il povero corpo? E dove sono i parenti, gli amici? Mi aspetto che un morto qualcuno lo pianga, accidenti! Sento dei passi. La porta della stanza s’apre e... Non faccio in tempo a vedere chi entra, risucchiato all’indietro, verso l’alto; mi pare d’essere uno sbuffo di fumo nella canna di un’aspirapolvere. Per un istante mi è sembrato di vedere qualcun altro galleggiare al mio fianco, un uomo in bianco. Un medico? Certo che no, dato che pareva, tale e quale a me, un fantasma.
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