Un’opera insolita, una 'graphic novel', un ‘romanzo polifonico’, dove le voci sono quelle dei membri musicisti della famiglia Hoffmann rievocati da David, critico musicale costretto a una “pausa” in seguito alla stroncatura dell’ultima opera di un gruppo rock di successo, poco apprezzata dal frontman. Una pausa e un distacco da tutto ciò che sta fuori, ma che riesce a mantenere viva la coscienza interiore di David permettendogli di ripercorrere le vicende più significative della sua famiglia attraverso il racconto diretto dei vari protagonisti.
Primo capitoloDavid
Vedo e sento ogni cosa. Avevo letto da molte parti che le persone in coma, ben lungi dall’essere immerse in un sonno letargico esente da sensazioni, in realtà avvertono gli stimoli dell’ambiente che li circonda. Non mi aspettavo però tanta nettezza nel percepire i suoni, nel riconoscere le voci delle persone, nell’avvertire i molti odori della stanza d’ospedale. Per esempio so che Jessica - mia moglie - poco fa si è allontanata, ed il suo abituale profumo – che, pur senza dirglielo, ho sempre trovato vagamente eccessivo in quantità e fragranza – è stato sostituito dal potente aroma delle sostanze che l’infermiera sta utilizzando per medicare le molte ferite che porto addosso. Tutto ciò a seguito dei colpi che il frontman dei Sick Prunes mi ha inferto quando mi ha aggredito, la settimana scorsa, di fronte alla redazione della rivista per cui lavoro.
So di essere piuttosto tagliente quando recensisco un disco che non mi piace. L’ultima prova dei Sick Prunes non raggiunge, a mio parere, gli standard necessari a giustificare le enormi vendite che il gruppo - grazie ad un battage pubblicitario implacabile e ad un’immagine costruita alla perfezione - non manca mai di realizzare. I fan in crisi di astinenza e con il cervello in apnea acquistano i dischi a scatola chiusa, anche se il gruppo ha ormai superato la sua fase aurea e da anni lavora con il pilota automatico, producendo opere di nessuno spessore artistico. Nemmeno i primi dischi del gruppo – considerati unanimemente dei mezzi capolavori – mi avevano convinto; troppi cliché, suoni datati, posture insostenibili. Aspettavo al varco quest’ultima uscita. Non è stato difficile trovare gli argomenti giusti per cercare di togliere il prosciutto dagli occhi dei fan dei Sick Prunes.
La colpa più grande di un artista è il disprezzo per il pubblico. I Sick Prunes, che con il loro ultimo lavoro manifestano questo disprezzo fin dal titolo[1], vogliono convincerci della serietà della loro arte, non lesinando in presunzione. I quattro membri del gruppo, con la loro posticcia aria da teppisti, sembrano più dei bibliotecari in libera uscita. Tronfi, retorici, ricchi sfondati con cipiglio da rivoluzionari, esprimono boria ed arroganza ad ogni accordo. Dopo aver passato la prima parte della loro carriera a fare finta di, si sono perfino scordati il modo per farlo bene. Un rock vacuo, teatrale, melodrammatico. Smancerie ampollose ed estenuanti, ammannite da musicisti che non rischieranno mai di diventare caricature di se stessi, per un semplice motivo: sono stati delle caricature fin dall’inizio.
E così il frontman dei Sick Prunes, a fine giornata, mi ha fermato sulla scalinata del palazzo che ospita la redazione del mio mensile e mi ha steso con l’aiuto di una mazza da baseball. Devo aver preso un sacco di colpi, anche se in realtà ne ricordo solo il primo, sulla schiena; poi deve avermi fracassato la testa, perché non ricordo nulla: né la caduta, né l’arrivo dei soccorsi, niente di niente.
Comunque ora sono qui e, se devo essere sincero, non sto poi così male. Non provo dolore fisico. Certo, vorrei alzarmi, andarmene; mi rendo conto però di non avere alcun dominio sul mio corpo. Riesco a pensare, a ricordare: non posso parlare, ovviamente. Tutto avviene all’interno della mia mente. Non starò a dirvi banalità come “Mi sembra di fluttuare fuori dal mio corpo, di vedere le cose dall’alto”; niente di tutto questo. Sono sdraiato, tranquillo, non ho fretta. Nessuna urgenza. Posso prendermela comoda e riflettere con estrema calma sulle vicende che ho vissuto fin qui.
Sono dunque un critico musicale, e collaboro da diversi anni con una rivista molto nota in ambito rock e dintorni. So che questo genere musicale è considerato, non del tutto a torto, una forma di sottocultura, e che dal punto di vista professionale ambiti quali il jazz e la musica classica mi avrebbero potuto fornire una patina di maggiore rispettabilità come giornalista. Come è accaduto a molti, però, sono stato folgorato da Elvis negli anni della formazione, e non ho avuto scampo. Una vita passata ad inseguire i fantasmi della giovinezza. Ovviamente il primo desiderio era quello di diventare un musicista rock, di mettere insieme un gruppo; ho preso lezioni di chitarra, ho suonato in formazioni tremendamente rumorose e dai nomi irriferibili. Ho ascoltato i classici del genere, scritto testi e musiche a loro imitazione, assunto posture collaudate. Mi sono molto divertito, anche, fino al giorno dell’incidente.
Il chopper di mio fratello Aaron era un sogno. Lo aveva elaborato, personalizzato all’estremo. Diceva sempre: “Tutti hanno visto Easy Rider. Tutti ne parlano, ma nessuno ha capito. Non basta desiderare o sognare. Bisogna viaggiare, agire, respirare gli spazi e le distanze”. Chiaramente ci voleva il mezzo giusto. Da quel punto di vista, mio fratello era un genio. Acquistò una vecchia moto da strada, tagliò il cannotto di sterzo e lo risaldò con la massima inclinazione possibile. Eliminò dal mezzo ogni elemento che non fosse assolutamente funzionale. Tolse i parafanghi, il freno anteriore, le luci di posizione. Cambiò la sella, ma non ebbe il coraggio di eliminare le sospensioni: “Ho una schiena sola”, diceva. Rimpicciolì la ruota anteriore, il serbatoio ed il faro. Il manubrio, inevitabilmente ricurvo, superava di poco in altezza la testa del guidatore. La moto era straordinariamente maneggevole, le prestazioni notevoli rispetto alla cilindrata.
In quanto minorenne, i nostri genitori mi avevano proibito di guidare la moto, e potevo salirci soltanto come passeggero. Venne però il giorno in cui in casa non c'era nessuno. Sapevo dove Aaron teneva le chiavi di riserva della moto, e così partii e raggiunsi l'autostrada con i capelli al vento. Al casello vidi un'auto della polizia, e mi spaventai; mi allontanai a grande velocità, e tentando di superare due camion consecutivamente persi il controllo del mezzo. Caddi rovinosamente sull'asfalto, e da quel momento il mio braccio sinistro non fu più quello di prima. Suonare la chitarra non fu più possibile. Ormai ero un chitarrista con un grande futuro alle proprie spalle.
Rimanere nel mondo della musica era però un imperativo. Mi impegnai a fondo negli studi, e riuscii a superare la procedura di ammissione alla Columbia Journalism School, non esattamente una passeggiata. Riuscii nel mio intento. Mi specializzai in giornalismo musicale ed iniziai a collaborare con diverse riviste. Non potevo più suonare, ma ero ufficialmente autorizzato a recensire, analizzare e valutare dischi, artisti, eventi. In breve tempo divenni una firma nota del settore, e gli artisti stessi seguivano i miei articoli, certi del loro impatto sul pubblico. Evidentemente anche il frontman dei Sick Prunes era un lettore attento.
A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi quale sia il motivo di tanta ostinazione, da parte mia, nel voler continuare ad occuparmi di musica anche dopo la brusca interruzione della mia carriera come chitarrista. Devo dire, in tutta onestà, che non ho mai preso in considerazione alternative di tipo diverso. Nella mia famiglia la musica ha sempre occupato un posto particolare. Non che fossimo tutti artisti, questo no; però in casa ho sempre sentito raccontare storie di fratelli, cugini, zii, antenati coinvolti variamente nel mondo della musica. Strumentisti, accordatori di pianoforti, liutai, perfino un compositore nella vecchia Europa germanofona da cui la mia famiglia trae le proprie origini. Ma anche umili cantanti da bar, commercianti di impianti ad alta fedeltà, semplici commessi in magazzini di CD. Mio padre possiede una collezione di vinili che supera i centomila esemplari, e mia madre è proprietaria di una catena di negozi di dischi. È come se un filo rosso, una trama comune, legasse le sorti dei miei familiari, accompagnandoli attraverso il tempo e lo spazio. La musica come sfondo integratore delle sparse vicende, delle alterne fortune di una famiglia americana.
Mancava un critico musicale: eccomi qua. Un critico momentaneamente impossibilitato a produrre analisi, creare opinioni, influenzare menti e mercato. Mi chiedo come farò a passare il tempo, bloccato qui. Se almeno fossi addormentato... Ma niente, una spietata lucidità accompagna le mie giornate qui all'ospedale. Mi pesa il non poter interagire con le persone di cui avverto la presenza. Non posso leggere, né chiedere che mi facciano ascoltare un po' di musica; certo che a qualcuno poteva anche venire in mente questa cosa, conoscendomi. Forse pensano che io non veda, non senta nulla. Non posso fargliene una colpa. Il fatto è che le giornate mi sembrano interminabili, e non so per quanto tempo questa storia andrà avanti. Devo trovare un sistema per non annoiarmi.
Forse mi è venuto in mente qualcosa. Potrei provare a concentrarmi sulla mia famiglia e sulle sue vicende. Ne verrebbero fuori delle storie interessanti. Un giorno potrei riunirle tutte insieme e ricavarne un libro: una famiglia, tanti volti, la musica come comune denominatore. Purtroppo non posso scrivere, o anche solo prendere appunti; non importa, per ora mi limiterò ad esercitare la memoria ricordando gli eventi e mettendoli in fila uno dopo l'altro. Mi riservo di utilizzare, per quanto possibile, la tecnica dei rimandi interni alla narrazione per garantire la sua ciclicità ed unitarietà - oltre che per non perdere il filo del discorso. Forse la mia attuale condizione potrebbe produrre dei cali di concentrazione; mi dispiacerebbe, perché sono un tipo preciso. Credo che la soluzione stia nel non stancarmi troppo. Racconterò quindi i vari episodi senza seguire uno stretto ordine cronologico; procedere più liberamente dovrebbe risultare meno faticoso.
Dunque, cominciamo. A one, a two, a one, two, three, four…
[1] “The Bright Side Of The Moon”