Sette pièce di Donatella Massara, andate in scena in questi anni con la compagnia teatrale Donne di parola. Un teatro dove prende corpo ora la storia delle donne ora la parola, la politica e l’ironia femminista. Le biografie e l’opera di artiste e scrittrici hanno ispirato la sua drammaturgia, maturata con la passione per la differenza sessuale. L’autrice diventa così una cantora che raccoglie vite ed esperienze del nostro tempo.
Primo capitoloIntroduzione
di Donatella Massara
Scrivere per il teatro delle donne è creare per sé e per le altre, è fare politicamente il gioco di una compagnia teatrale, è dargli consistenza offrendogli il materiale per agire. Questi lavori teatrali sono nati dentro a una comunità politicamente attiva. Sono cresciuti in dieci anni di attività con Donne di parola, un laboratorio aperto dove le donne sono entrate, per restare, per andare e magari per ritornare. Quando mi è venuta l’idea ‘sconsiderata’ di aprire una radio per sentire leggere, recitare, cantare, sillabare, scomporre insomma comunicare in qualsiasi modo la scrittura femminile, ho creato Donne di Parola, appellandomi a quelle che hanno preso in considerazione la proposta. Sognavo un’ininterrotta no stop di scrittura femminile, ovviamente accompagnata dalla musica, dai rumori, da tutto ciò che può dignitosamente dare forma a una lettura. Più modestamente è nato un sito, chiamato web-radio, su cui depositare i files sonori che hanno trasformato in audio e in video le nostre letture, i nostri spettacoli, le nostre registrazioni. È riuscito - in scala ridotta - quello che sognavo: ascoltare la scrittura femminile. È in questo contesto che hanno preso forma i testi di teatro. Sono stati scritti per il bisogno di approfondire, comunicare, portare a farsi domanda qualcosa che potrebbe essere nascosto. In “Djuna Barnes: vita e teatro” e “Alla ricerca di Camille Claudel “ho avvertito che la singolarità della loro esistenza ha prodotto arte e pensiero. L’una ci ha destinato una scrittura narrativa fra le più originali del Novecento e l’altra un’opera artistica ricchissima di spunti autobiografici molto intensa e interessante. Due donne che continuano ancora oggi a commuoverci, affascinarci, a impegnarci, per capire quanto di felicità e di piacere sottratti alla sofferenza siano rimasti nella loro vita.
Djuna Barnes è l’autrice nota per “Bosco di notte”, pubblicato nel 1936 e tradotto in italiano nel 1968. Negli anni successivi sono stati tradotti e pubblicati i racconti di “Fumo” e “La passione”. È solo nel 2013, con mia grande sorpresa, che di Djuna Barnes ho scoperto, alla Libreria delle donne di Milano, “Animali quasi umani. Short plays”. Era stato tradotto il suo teatro, composto fra il 1916 e il 1923, 16 atti brevi, pubblicati su riviste, rappresentati in America ma che in Italia erano del tutto sconosciuti. Sono straordinari lavori di drammaturgia. Ho cominciato a studiare la biografia di Djuna Barnes. Sapevo già della sua vita a Parigi e della relazione con Thelma Wood dal documentario della regista Andrea Weiss “Paris was a woman”. Approfondendo l’argomento mi ha sorpreso che nella sua biografia si parlasse di abusi sessuali e forse di incesto. Non è l’unica scrittrice che abbia vissuto questo dramma nell’infanzia. Sono convinta che il femminicidio sia associabile a una lunga storia di abusi sessuali verso le donne,
dentro la famiglia. Penso a quello che mi disse Patrizia Bonini Mingori “È un’ipotesi più che plausibile dato che l’incesto, fra l’altro molto diffuso anche dalle mie parti (le zone dell’Appenino emiliano) almeno fino agli anni 50, faceva parte delle prerogative dittatoriali del padre padrone, ed è stato spesso temuto dalle madri. Possesso e volontà di dominio sono presenti in entrambi i casi, credo, e si accompagnano a lunghe sedimentazioni culturali che hanno autorizzato la sessualità maschile a non conoscere né freni né trasformazione.” L’incesto, è avvenuto nelle famiglie di ogni ceto sociale. La vita di Djuna che riguarda la sua infanzia e il possibile stupro da parte paterna, è oscura. Ma in “Ryder” la storia della sua famiglia è raccontata in una maniera folgorante. La materia più dolorosa da dirimere riesce a sottoporla al lavoro dell’immaginario costruendo la tensione irrisolta, tragica e sfumata fra pietas, ironia e odio verso colui che rappresenta nella finzione il suo vero padre.
Ho assemblato alcune parti della biografia tradotta in italiano di Andrew Field. Come dice Valeria Gennero, Field è: “perniciosamente attento a cancellare ogni presenza femminile dalla vita di Djuna Barnes (di cui nega, con esiti poco convincenti, lo stesso lesbismo)”. Sono passata alla biografia di Phillip Herring. E da qui ho ricavato le notizie necessarie per fare parlare la prima parte della vita di Djuna, quella relativa alla famiglia, alla nonna Zadel, centralissima per la sua educazione, la sua infanzia, anche per la sua attività di giornalista. Ci sono molte notizie sugli esordi nell’ambiente del Greenwich e quindi sulla sua partecipazione all’esperienza teatrale del Provincetown Player. La seconda parte della vita di Djuna è riassunta in poche pagine. È quella degli anni parigini, dalla fine della prima guerra mondiale fino all’inizio della seconda. Dopo sarà a New York quando vivrà spesso in povertà e malata, scrivendo molto poco. Ho condensato le sue scelte intorno alle relazioni femminili. Puntando, per esempio, sulla prima conosciuta storia d’amore di Djuna con una donna, rivelata nella poesia dedicata alla memoria di Mary Pyne.
Lo spettacolo “Alla ricerca di Camille Claudel” vuole presentare la grande scultrice attraverso la biografia, le opere, le lettere e la documentazione fotografica, che è quasi tutta precedente ai 30 anni vissuti in manicomio. Lo sforzo di Donne di parola è stato portare Camille a diventare un soggetto collettivo, a farsi riconoscere, ad accomunarsi alle tante donne che la conoscono oppure che la ignoravano. Scrivendo il racconto delle sue opere ho confuso le parole dell’artista con le mie. Camille visse in un’epoca dove non si usava altro, per fronteggiare la follia, che l’internamento. Leggendo il suo epistolario scopriamo che dopo circa tre anni dal suo ricovero, il primario della clinica scrive alla madre dicendo che la figlia sta molto meglio e potrebbe ritornare in famiglia, essendo questo il suo più grande desiderio. La madre risponde chiedendo che se la tengano, per favore.
La sofferenza di Camille che patisce la reclusione del manicomio, si sente perseguitata e intuisce potrebbe esserci un trattamento diverso da quello
di marcire in un ospedale psichiatrico, non la raggiunge. Provvede alla figlia scrivendole, ogni tanto, soddisfatta di mandarle i pacchi con il cibo, i vestiti e la biancheria. Ecco che sua madre, dopo che l’ha internata, finalmente accetta di occuparsene. Camille, nella condizione di perdita di libertà, è di nuovo, paradossalmente, accudita da sua madre, che, negli anni precedenti l’internamento, non voleva neppure sentirla nominare. La figlia gradisce, ringrazia, i cibi della madre sono gli unici che mangia - che splendore, che gentilezza, che ricchezza quei pacchi.
Qualcosa di Louise, la madre, rinasce in Camille ma non viceversa. Sua madre, responsabile dell’internamento, con il figlio Paul e la seconda figlia Louise, rimane irremovibile, le suppliche della figlia non cambiano il decorso del suo destino. Nonostante ciò, Camille riconosce le cure della madre, anche se combatte ininterrottamente per uscire da dove è. Quel suo stare là, senza riuscire a venirne fuori, trascolora, alla fine, nello stesso rigore della madre, compatta carne conformata al suo dovere di coincidere con quello che la vita assegna. Camille da vecchia, in fotografia, diventa sua madre, lo stesso sguardo, sospeso da un pensiero interiore che non coincide esattamente con quello che c’è fuori. Se la richiesta d’amore di Camille avesse convinto sua madre, avrebbe dettato una parte di storia non prevista. Quel taglio di luce su se stessa, di cui Louise era così terrorizzata, le avrebbe fatto capire, prima di ogni altra apertura, quanto quella figlia terribile le mancasse.
Mi ha colpito la relazione fra Camille e sua madre Louise molto di più di quella, scontata, con il vecchio Rodin, innamorato incerto e, in definitiva, rifiutato. Uno dei punti fissi del delirio di Camille è sicuramente Rodin, ma la sua angoscia di essere assediata dai furti di lui, fa capire la rabbia di una donna a cui non vengono riconosciuti né l’opera né il desiderio. Nel suo delirio si staglia la ragione di un dolore d’artista non accettata dalla società, giustamente ostinata nella convinzione di volere essere considerata per il proprio valore.
La relazione di Camille con sua madre presenta una traiettoria molto più enigmatica di quella con Rodin. Che cosa impedisce a queste due donne di comprendersi? C’è un bisogno estremo della figlia. Camille alla madre continuerà a rivolgersi, in anni e anni di internamento, con le lettere conosciute e altre andate disperse, ma non crederà mai, veramente, che proprio sua madre, l’avesse internata. Pensava che “i suoi nemici” avessero complottato contro di lei e usato la sua famiglia per farla internare. Le era intollerabile credere che sua madre avesse causato la sua disperazione! E viene voglia di crederle, per tentare di spingersi dentro a un’epoca, allineandosi con le sue condizioni, guardare verso una mentalità, una cultura, una scienza medica che non è di oggi. Ho pensato a Camille Claudel come una coraggiosa donna libera, artista di grande valore però rifiutata, tragica protagonista della richiesta di riconoscimento che sua madre non riusciva a darle, una negazione che altri e altre dopo di lei perpetuarono.
Presenze nuove e vecchie si sono alternate nell’impresa di Donne di parola che ha visto nel gruppo dell’origine, oltre a me, Nuccia Cavalieri e Attilia Cozzaglio, poi Simona Cosentino, Raffaella Gallerati, Carla Cella. Tutte le donne che hanno fatto parte di Donne di parola sono nominate sul sito www.donnediparola.eu per la partecipazione agli eventi di questi anni. Fondamentale è Laura Modini che ha mantenuto costante l’impegno verso Donne di parola, interpretando con grande bravura le tante parti che ci siamo trovate. La sua collaborazione mi fa sentire al sicuro e la sua approvazione, mai scontata, riporta il dibattito a rigenerarsi. Importante è il rapporto con mia sorella Carla Massara che ha il dono di compensare quello che mi manca quindi di indicarci lo stile e di creare per noi i costumi. L’elemento ornamentale non è statico, impone di vederci con la responsabilità di un abito, di sentirci oltre noi stesse aumentando il tasso di desiderata credibilità. Tutte insieme abbiamo attraversato la scena teatrale, lasciando le porte sempre aperte. Le porte aperte nella mente sono uno degli insegnamenti appresi dal femminismo e vorrei esistesse nei miei testi. L’apertura riguarda prima di tutto le donne che ci hanno precedute, madri vere e madri simboliche. Nei miei testi c’è sempre un riferimento diegetico, a me stessa, scoperto o coperto come nel monologo “La filosofa” o come in “La lezione di storia”. C’è però l’elemento extradiegetico, quando le autrici si infilano nel testo e noi attrici le facciamo parlare. Ecco allora in “Non avevo mai visto
‘Casa di bambola’”, si comincia con l’apparizione di Saffo, che solo il pubblico avverte, per proseguire con Sibilla Aleramo, Cordula Poletti, Isadora Duncan, Bianca Bienenfeld, Simone De Beauvoir. Sono presenze femminili che attraversano con noi lo spettacolo, direi come in un sogno, come fiori che lanciamo verso il pubblico, lasciando che passino oltre la quarta parete. E ringrazio attrici-autrici di grande competenza e cultura come Annamaria Indinimeo che mi hanno consentito di svolgere questa libertà di passaggio dal dentro alla scena al fuori dalla scena, quindi verso tutto ciò che eccede il tessuto della trama, senza disfarla. In “La Brigata delle attrici” ho raccontato dei fatti che sono veramente capitati a me e altre, di essere soppiantate dalla regista, stanca di noi, per delle attrici più giovani. Il racconto l’ho sviluppato con molta tranquillità, sicura che avrei avuto con me un’attrice di grande bravura, prontezza e intelligenza oltre che giovane, Domitilla Colombo. È lei che simbolicamente, per le sue caratteristiche di attrice, consente la messa in scena di un passaggio di testimone che guardi indietro invece che avanti. Le donne attrici che interpretano le antiche, offrono lo scarto extratestuale verso chi, perduta nel tempo della storia, grazie alla buona volontà di chi ha voluto partecipare, rientra, anch’essa non solo sul palco del teatro, ma in quello ben più ampio del nostro spazio immaginario. Lo spazio di attraversamento della scena teatrale dunque non si consuma e fa interagire attrici, autrici, pubblico. Inaspettatamente ho scoperto che i miei testi fanno il passaggio. Diana Quinto senza esperienza teatrale diretta, forse perché nipote d’arte, è letteralmente saltata in scena, con eccezionale bravura. Mi ha fatto capire come il rapporto di fiducia, che evolve con l’amicizia, consente di fare politica fra donne, di attirarsi, quando c’è un progetto politico da praticare. Ecco ho rivelato anche perché scrivo testi per il teatro. Perché proprio la pratica teatrale ricostruisce i rapporti fra donne sull’orizzonte della politica, amplificando la comunicazione, centra gli interrogativi che vanno sempre più al cuore dell’esperienza delle donne e degli uomini.