Un giallo dedicato a Fano, tre omicidi avvenuti nei luoghi caratteristici della città.
Il porto, il mare, le spiagge, il centro storico, l'Arco d'Augusto, Porta Maggiore e la Chiesa
di San Domenico, che racchiude opere di gran valore artistico, diventano i luoghi in cui
il maresciallo Capalbio dovrà dimostrare la sua bravura nel risolvere un ingarbugliato
intreccio di omicidi.
I
Bianco.
Tutto era stato inghiottito dalla neve che in quei giorni continuava a cadere, soffice e delicata, incurante dei disagi che aveva portato in una città come Fano, poco preparata alla sua visita.
Il pronto soccorso era preso d’assalto dai cittadini accidentalmente caduti a causa del ghiaccio, le scuole erano state chiuse e la vita scorreva più lenta del solito.
I rintocchi delle campane risvegliavano le vecchiette per la prima messa della domenica, tutto taceva, Fano sotto la fredda coltre poltriva ancor più volentieri, si stava bene sotto i piumoni caldi nelle case ancora buie.
Al porto, oltre al silenzio di quella domenica di febbraio, si respirava anche un velo di tristezza per l’estate ancora lontana, difficile immaginare i colori ed il via vai dei turisti che durante la bella stagione affollano quel luogo ora così afono di grida dei bambini e immerso in un bianco quasi irreale.
Solo i pescherecci ben allineati in attesa dei marinai infreddoliti per il loro lavoro quotidiano davano un po’ di colore con le loro scritte e le bandiere, tutto il resto appariva inanimato.
Un gruppo di gabbiani osservava l’orizzonte come nell’attesa di chissà quale sperato arrivo, i loro petti bianchi si confondevano con la neve, mentre le loro penne grigie apparivano come i secchi rami dell’albero grigio di Mondrian.
Come un sacco di juta abbandonato sugli scogli, parzialmente ricoperto di neve, un marinaio andato a controllare il suo peschereccio così lo vide.
Il suo fiato caldo gli uscì dalle labbra in una nuvoletta di vapore, con le mani in tasca osservò da lontano quello che appariva come un manichino riportato dalle onde chissà da quali lontane rive, così raccontò poi, bevendosi una birra, ai suoi amici al bar.
Si avvicinò incuriosito dal luccicare degli occhiali e più si avvicinava più si rendeva conto che non poteva essere un oggetto.
La piccola pozza di sangue ormai gelato che si era raccolta nell’ansa di un pietrone, faceva ben intuire che si trattava di un uomo ferito a morte e mentre lo raccontava al maresciallo le parole gli si strozzavano in gola.
Alzò gli occhi al cielo, se li stropicciò un poco e sentì un brivido percorrergli la schiena, il terrore lo colse per quel che era accaduto, si girò su se stesso in un primo istintivo impulso di andarsene, poi pensò che quel che aveva davanti agli occhi non era cosa da poco e qualcuno poteva averlo visto.
Questo non lo confessò neppure al prete.
Fermo con le mani gelate dentro le tasche, si soffermò a pensare alla sua vita, alla fatica di ogni giorno, al fatto che non era mai fuggito davanti a nessun problema ed aveva affrontato le avversità della vita sempre a testa alta e che alla fatalità non c’è rimedio.
Quindi si rigirò nuovamente e si avvicinò fino a sfiorargli la fronte, della vita che un tempo scorreva in quel corpo ormai non vi era più traccia.
Chiamò il 118 continuando ad osservare quell’uomo esanime e sentì il cuore battergli in gola come se quell’istante lo avesse già vissuto e si sentì più solo che mai.
Quando finalmente gli risposero, balbettò qualche parola incomprensibile, forse per il freddo o per lo sconforto di quella vista, tanto che il carabiniere pensò ad uno stupido scherzo e disse:
«Guardi che si sta mettendo nei guai.»
Il marinaio tossì due volte e riprese padronanza della sua voce, fece un lungo respiro e a chiare lettere disse:
«C’è un cadavere sulla banchina del porto.»
Riattaccò senza attendere la risposta, fece qualche passo indietro e sedendosi a terra guardò il mare che, baciato dal sole, brillava di vita, mentre a pochi passi da lui un uomo l’aveva ormai perduta.
I carabinieri arrivarono con le sirene spiegate.
In pochi minuti si era già formato un folto gruppo di curiosi, per lo più ragazzi tornati dalla discoteca e andati a far colazione al bar del porto.
Si iniziarono a trarre le più fantasiose conclusioni su quel corpo e sul perché della sua morte ma tutti erano concordi nel dire che non lo avevano mai visto.
Il medico legale, sopraggiunto dopo poco, lo trovò coricato su di un fianco, i capelli lunghi, bianchi, quasi argentei erano in parte ricoperti da uno spesso grumo di sangue, probabilmente la neve a contatto con il corpo ancora caldo, si era sciolta, formando una piccola pozza di liquido rosso ormai gelato sotto al mento.
Gli occhi erano rimasti aperti ed il loro azzurro vitreo sembrava aver assorbito quello del cielo, le labbra sottili, socchiuse nell’ultimo lamento che sicuramente aveva emesso prima di morire.
Il bianco del viso di quell’uomo era un tutt’uno con la neve che ricopriva la gran parte del corpo rimasto sicuramente per tutta la notte in quel luogo.
Aveva nevicato per ore dopo due giorni di gelo intenso.
Uno sguardo veloce, un giro attorno al cadavere e il medico legale scrivendo velocemente sul suo taccuino nero decretò la morte accidentale:
«Che sciagurato vecchio!» Mormorò. «Non era meglio fosse rimasto al caldo della sua casa!» Continuò scuotendo la testa.
I carabinieri cercarono nelle sue tasche per identificarlo, vi trovarono il portafoglio all’interno del quale, assieme a pochi spiccioli e alla carta d’identità, vi era lo scontrino fiscale del bar di una pensione che conoscevano bene, Il mare di Fano.
Non erano necessarie indagini approfondite.
Era una ovvia fatalità, un vecchio che aveva perso l’equilibrio su di un lastrone di ghiaccio… così dicendo al suo assistente il maresciallo Capalbio a sua volta rischiò di perdere l’equilibrio e cadere sentendo di aver avuto la conferma di ciò che stava pensando.
«Mi dia le sue generalità per il verbale, così concludiamo questa spiacevole vicenda.» Disse il maresciallo rivolgendosi al marinaio che aveva tenuto sempre lontano lo sguardo da quel povero corpo.
Il marinaio non rispose, era immerso nei suoi pensieri, lontano da quel porto, lontano da Fano, lontano.
Il maresciallo lo guardò ripetendogli la richiesta.
Un uomo che stava accanto al marinaio già da un po’ lo strattonò leggermente per la manica del giubbotto ed esclamò:
«Dai mes sold cu fai.»
«Mes che?» Disse il maresciallo guardando le nuvole nere che si stavano addensando sopra di loro.
«Mi chiamo Guido Vitali, detto mes sold.» Disse finalmente il marinaio.
«Mes che?» Ripeté il maresciallo guardandolo negli occhi.
«Mes sold, mezzo soldo maresciallo, è una vecchia storia.»
Il marinaio che fino a quel momento era stato in silenzio e schivo da tutto ciò che lo circondava aveva all’improvviso provato il desiderio di parlare di sé e, guardando il cadavere, iniziò a spiegare il perché di quel nomignolo.
«Mio padre, fin da bambino, aveva questo soprannome, lo avevano trovato abbandonato davanti al portone della Chiesa del porto con al collo una moneta divisa a metà, quella mezza moneta era il suo unico avere e quando per sciagura è morto in mare, lo hanno dato a me che da lui in eredità neppure mezza moneta ho ricevuto, ma solo questo soprannome.»
Poi guardò lontano la sottile striscia di cielo che sfiorava il mare, come se avesse perso tutte le parole in quell’infinito orizzonte davanti ai suoi occhi e non aggiunse altro, come caduto in un momentaneo vuoto di memoria.
«Su su facciamo in fretta, mi dica nome, cognome, data di nascita e residenza.»
«Guido Vitali nato a Fano il 15 maggio 1953, abito qui in Via delle Nasse, vuole anche il numero di telefono?»
«No, no, va bene così, finisco di scrivere il verbale e poi me lo firma.»
Il cielo si rattristò divenendo plumbeo e di lì a poco ricominciò il lento cadere della neve. Era inutile restare a tremare dal freddo, non rimaneva che portare il corpo all’obitorio e concludere quella spiacevole vicenda.
Il marinaio sospirò e firmò il verbale.