Una storia vera, crudele e sconvolgente, come a volte solo la realtà può essere. Una storia di stupro dentro le mura domestiche. Una storia di tante! Ma questa è anche la storia di chi ha avuto il coraggio di raccontare.
«Ai bambini si dice che l’Uomo Nero non esiste. Esiste eccome! Solo che, anziché trovartelo nell’armadio o sotto il letto, a volte, purtroppo, te lo ritrovi dentro il letto.» E se l’Uomo Nero ha i connotati del padre? Chi difende la bambina dall’Uomo Nero? Dove sono gli altri? Dov’è la famiglia? Perché Katia una famiglia ce l’ha; ha una madre, due nonni con i quali cresce, persino una bisnonna. Eppure nessuno vede, nessuno si accorge.
Quattordici anni di abusi, di stupri subiti tra quelle pareti che dovrebbero tenere al riparo un bambino dalla
malvagità e dalle insidie del mondo esterno. “Perché le altre bambine sono felici?”, si domanda Katia nella normalità perversa del suo quotidiano. Nessuno sta dalla sua parte quando, finalmente, a diciotto anni, trova il coraggio di dire BASTA! È la rabbia che la fa reagire per chiudere con quel “padre”, sfidando una società pronta a darle della puttana bugiarda, ma soprattutto per non morire.
Oggi, con la consapevolezza di madre e forte di una causa vinta contro il padre, l’autrice ha trovato anche la forza di raccontare la sua storia, perché le altre sappiano che non sono le uniche bambine infelici, che solo parlandone si può lenire l’immensa ferita e, forse, guarire. Un racconto crudo, che si attiene alla essenzialità dei fatti, mosso dalla necessità di essere una donna come le altre.
In appendice la documentazione del processo contro il padre, che ne ha sancito la condanna.
Primo capitoloPROLOGO
La prima volta che ho pensato di scrivere la mia storia è stato mentre leggevo un libro di un
autore che amo molto. Secondo lui tutti dovremmo raccontare le nostre esperienze, belle e
brutte, così che entrino a far parte del sapere comune e possano essere utili agli altri. Ho
riflettuto sul fatto che sono tanti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che vivono
esperienze simili alla mia. Allora ho pensato che se fossi riuscita a scrivere la mia storia, visto
che sono sopravvissuta e mi sono rifatta una vita, forse avrei potuto trasmettere loro il mio
messaggio di forza e incoraggiarli a reagire. Reagire al dolore anziché soccombere. Essere
anche arrabbiati per quello che ci succede anziché essere solo sofferenti, spaventati, sentirsi
sporchi. Colpevoli. Perennemente.
L’idea era buona, mi piaceva. Ma tra il dire e il fare… Non è stato semplice iniziare a
scrivere, ho fatto diversi tentativi. Non volevo assolutamente scivolare nel patetico, tuttavia
dovevo rendere l’idea dell’immensa sofferenza e del dolore che mi hanno scavata dentro.
C’erano giorni in cui scrivevo qualche pagina e poi stavo male, insieme alle parole venivano
fuori la rabbia e il dolore. Allora mi fermavo per un po’ e cercavo di non pensarci.
Un giorno andai per una visita ginecologica in un centro che si occupa delle donne anche
sotto altri aspetti: oltre alle ginecologhe, ci sono una psicologa, un’avvocatessa e altri medici.
Parlando con la direttrice, lei intuì che avevo un’esperienza traumatica alle spalle che mi dava
qualche problema, per esempio, a farmi visitare. Si interessò subito a me e, poco per volta,
m’incoraggiò ad aprirmi. Dopo qualche incontro e crescendo la confidenza tra noi, mi
convinse a parlare con la psicologa, rassicurandomi che in caso di bisogno loro ci sarebbero
state.
È una persona davvero in gamba e sono contenta che sia diventata mia amica; quando la
misi a parte dell’idea del libro ne fu entusiasta e mi offrì il suo aiuto e il suo appoggio. Le dissi
che avevo qualche difficoltà a ricostruire con precisione cronologica gli eventi, essendo
trascorsi più di vent’anni, e lei mi suggerì di recuperare gli atti del processo in tribunale.
Nemmeno ci avevo pensato! L’avvocatessa del centro si informò subito sul mio caso scoprendo
che gli incartamenti erano ancora conservati in archivio.
Così una mattina mi sono recata con lei in tribunale, ho recuperato il fascicolo che mi
riguardava e ho potuto consultarlo, fotocopiando quello che mi serviva. È stata un’esperienza
molto forte. Già entrare nel Palazzo di Giustizia ha rievocato in me molti ricordi; quei momenti
di profonda tristezza e rabbia e dolore sono tornati vivi come se fosse passato solo un giorno.
Mi rivedevo seduta insieme al mio ragazzo e ai miei amici in attesa di entrare in aula.
Dall’altro lato del corridoio mia madre, sola, irrimediabilmente dalla parte sbagliata.
Fuori pioveva e dalle vetrate tutto appariva grigio e freddo. Era lo specchio di come mi
sentivo dentro quel giorno. Questa scena in particolare mi fa male ancora oggi, mille lame di
ghiaccio sulla pelle e nel cuore.
Con l’aiuto di questi documenti ho fatto un bel passo avanti nella realizzazione del mio
progetto: tanti eventi si sono incastrati nella giusta successione, ho messo ordine nei ricordi e
ho completato la prima stesura. Una volta terminato ho chiamato la direttrice del centro per
comunicarglielo e lei mi ha detto che le sarebbe piaciuto leggerlo. Dopo ha voluto incontrarmi
per parlarne; era molto colpita e mi ha chiesto se acconsentivo a farlo leggere a una sua
amica giornalista e scrittrice. Io ero felicissima dell’idea e grata a questa persona che si dava
tanto da fare per me. È passato un po’ di tempo e alla fine tutt’e tre ci siamo incontrate e
abbiamo discusso del progetto. Oltre a darmi qualche consiglio tecnico, la giornalista mi ha
anche detto che avrebbe provato a parlare con un’amica che, insieme ad alcune donne, ha una
casa editrice: VandA.
Non stavo più nella pelle. Grazie a lei ho conosciuto prima telefonicamente e poi di persona
le fondatrici di VandA; sono andata da loro con la mia storia nella borsa, incredula per tutto il
viaggio. Abbiamo parlato a lungo di me, della mia vita di prima e di quella di adesso e di come
portare a termine il mio progetto. Nei mesi successivi ci siamo tenute in contatto e abbiamo
ultimato il lavoro.
Ancora oggi non mi sembra vero; non so come ringraziare queste donne che
spontaneamente si sono interessate alla mia storia e hanno deciso di aiutarmi. È stata come
una magia, un legame che si è creato e ci ha tenute unite per realizzare qualcosa in cui
crediamo, come ci hanno creduto le persone a me più vicine.
Ora è tutto pronto. Spero che la mia voce venga ascoltata e che altre voci si uniscano alla
mia per reagire insieme e per non arrendersi, perché si è più forti se non si è da soli.