L’improvvisa scoperta che l’anziano padre è affetto da una patologia senza speranza innesca nel protagonista la catena dei ricordi e lo porta a rivivere il suo percorso giovanile, quando le sue scelte sono entrate in contrasto con le aspettative del genitore. Un romanzo che si sviluppa su vari piani temporali, indagando aspetti (malintesi, sottintesi, rimorsi…), dinamiche ed evoluzione del rapporto padre e figlio e le ragioni di un itinerario esistenziale di ricerca della realizzazione personale. La vicenda si svolge nella Ravenna degli effervescenti e tumultuosi anni Sessanta, con puntate a Venezia e a Grenoble, attraversando gli avvenimenti di quel periodo.
Primo capitolo
LA TELEFONATA
Bussano. È la bidella, che si avvicina alla cattedra: – Professore, – sussurra – una telefonata urgente per lei, in segreteria. – Urgente? La bidella annuisce. – Per favore resti un minuto con loro. – le dico. Ai ragazzi raccomando di stare tranquilli e scendo velocemente in segreteria. La segretaria mi indica la cornetta sul tavolo: – È una chiamata da Ravenna. Prendo in mano la cornetta con un presentimento. È la signora Poggiali: mi annuncia che papà si è accasciato sulle scale ed è stato trasportato all’ospedale. Chiedo qualche informazione in più, ma lei può dirmi solo che si è sentito male mentre saliva e si è accasciato; è molto debole e pallido. Ringrazio la signora e assicuro che parto subito e arriverò a Ravenna nel primo pomeriggio. Il preside non fa difficoltà, porto il registro in sala insegnanti, salgo sulla mia 127 e parto. Passo da casa per lasciare la cartella, telefonare a Rosanna per informarla, prendere il necessario e poi via. L’ansia mi secca la gola. Papà vive solo. Non ha mai voluto venire a vivere con noi a Treviso. Solo una volta è venuto a trovarci, ma è ripartito quella stessa giornata. La sua casa e la sua vita sono a Ravenna. Cosa sarà successo? Domenica stava bene, era sembrato di buon umore. Ma forse era solo contento che, come ogni fine settimana, stavamo con lui. Che sia stato il cuore? La sua aritmia? Ce l’ha da anni, ma con le sue pastiglie riesce a controllarla... Un problema circolatorio? A quell’età è facile. Guido col cuore in gola e finalmente arrivo a Ravenna e parcheggio nei pressi dell’ospedale. All’accettazione mi dicono che è ricoverato in Medicina. Lo trovo disteso nel letto, pallido: sta assumendo una flebo. Mi fa un cenno di saluto con la mano libera e un sorriso stanco. Sembra tranquillo. Dice che ha problemi di stomaco e la pressione bassa, che gli stanno facendo gli esami e volevano fargli una radiografia, ma lui non ha voluto perché ne ha appena fatta una, anche se si è dimenticato di andare a ritirarla dallo specialista, il dott. Zoli. Parlo con uno dei medici del reparto che conferma e io m’incarico di andare subito a ritirare il referto da quel medico. Il dott. Zoli è un internista di una certa fama con lo studio in centro città, in via Mariani. Ci vado subito. – Ah, finalmente! – esclama il medico quando mi presento – Non sapevo come fare ad avvertire suo padre! Purtroppo la radiografia indica una situazione molto compromessa. Prende una busta gialla, ne estrae la lastra della radiografia e, alzandola verso la lampada del soffitto, mi mostra uno stomaco in gran parte invaso da una formazione tumorale “a cavolfiore”. Resto impietrito. – Mi dispiace, sa, mi dispiace molto, ma la situazione appare piuttosto compromessa. Comunque bisogna intervenire subito. Purtroppo è più di una settimana che ho avuto l’esito della radiografia, ma nessuno è venuto a ritirarla, e non sapevo come informare il paziente. Sono senza fiato. Ringrazio e corro all’ospedale, dove consegno la radiografia al medico del reparto che la esamina subito e conferma la sentenza del dott. Zoli. Aggiunge che mostrerà il referto al primario e mi invita a tornare domani. Ripasso da papà che sta cercando di mandar giù qualche cucchiaiata di minestrina: – Non ho voglia – mi dice – ma cerco di mandar giù qualcosa. Quando esco dall’ospedale è ormai buio. Salgo in macchina e vado a casa di papà, che poi è stata la mia casa fino a diciotto mesi fa. Sono stanco, ho la testa in fiamme e anch’io non ho voglia di mangiare. Telefono a Rosanna e le dico come stanno le cose. Nel frigorifero trovo del prosciutto, dell’insalata e del formaggio. Decido che qualcosa comunque conviene mandar giù. Ceno nel silenzio dell’appartamento e immagino le sue cene solitarie. A tavola lui ha l’abitudine di ascoltare la televisione in attesa del telegiornale. Sento una stretta al cuore. È certo anche per responsabilità mia se nell’ultimo anno e mezzo ha vissuto da solo. Ma cosa potevo fare? Le opportunità d’insegnamento, le cattedre si trovano su, nel Nord-Est. Qui non ce ne sono: se fossi rimasto a Ravenna al più avrei trovato qualche breve supplenza. Ma non avrei fatto che pochi punti, e senza punti non ci sono prospettive di ottenere incarichi d’insegnamento. Mi torna davanti agli occhi la lastra della radiografia e l’immagine di quel maledetto tumore. Chissà che il chirurgo non riesca fare qualcosa... Entrambi i medici hanno detto che ormai è tardi: troppo imponente è la massa tumorale e in quella sede... Speriamo che il primario... Povero papà! Sembra ormai arrivato il suo momento... Eppure sembrava in salute. A Natale era felice. Abbiamo passato le vacanze insieme. Rosanna non è una gran cuoca, ma aveva preparato dei bei pranzetti con le sue ricette pugliesi e papà aveva molto apprezzato. Anche a Capodanno aveva brindato con noi in allegria. Nulla faceva presagire... Sembra un brutto sogno. Sono stanco, ma non ho voglia di andare a dormire. Accendo il televisore, ma non riesco a seguire il programma. Comincio a girare per l’appartamento. Metto la borsa con le mie cose sulla vecchia scrivania in quella che era la mia camera, dove ora ho collocato un letto a due piazze per me e Rosanna. Vado in bagno e mi lavo i denti e poi anche la faccia. Il volto che lo specchio mi rimanda è stralunato. Dò un’occhiata anche nella camera dei miei genitori e penso che anche mamma è mancata in seguito ad un tumore, dieci anni fa. La camera è sempre uguale e sembra abbastanza in ordine. Torno in cucina sparecchio e metto il piatto e le posate nel lavello. Qui ci sono ancora la tazza e il piatto della colazione di papà. Metto il grembiule e lavo quelle poche stoviglie. La testa brucia sempre e comincia a farmi male. Mi metto a camminare lentamente attorno alla tavola della sala da pranzo, cercando di esaminare la situazione e di pensare cosa fare domani. Devo anche trovare e preparare le cose che papà mi ha chiesto di portargli. Mi metto alla ricerca, dispongo indumenti e oggetti sul suo letto, poi cerco una busta in cui mettere tutto. Ora sono da poco passate le dieci e mezzo e decido di coricarmi. La giornata è stata lunga e drammatica e domani non sarà meno dolorosa e faticosa. Ma nonostante la stanchezza non riesco ad addormentarmi. La testa è in fermento. L’immagine triste di papà nel letto d’ospedale mi danza continuamente davanti agli occhi, la sua voce stanca mi risuona nelle orecchie. Provo una grande angoscia ripensando continuamente, come una eco impazzita, alle dure parole dei medici. E provo una gran pena per quest’uomo che stamattina si è accasciato sulle scale di casa svuotato, abbandonato dalle forze. Immagino la scena e la rimugino continuamente, dolorosamente. Cosa starà pensando ora papà? Lui è sempre stato molto lucido nelle riflessioni su di sé e, se anche non sa e forse non immagina la causa del suo cedimento, probabilmente mette in conto anche qualcosa di grave. Povero papà! Riaccendo l’abat-jour perché spero che appuntando lo sguardo sulle pareti della camera potrò fermare la girandola delle immagini, delle emozioni e dei pensieri che mi agitano. Ma l’idea che, se i medici vedono giusto, papà non potrà vivere a lungo, è ormai il centro attorno cui ruotano tutte le mie elucubrazioni. Forse per una forma di autocensura inconsapevole, ho sempre evitato di pensare al momento in cui papà sarebbe mancato, e ora che quel momento sembra vicino, questa consapevolezza mi sconvolge. E più di tutto mi sconvolge il fatto che ciò avvenga in questo modo e in questo momento. Il mio lavoro m’impedisce di stargli vicino più di tanto e, invece, in questi casi bisogna stare accanto a chi soffre, tenergli la mano, stringergliela. E parlargli. Ci sono tante cose da dire. Quante cose vorrei dirgli! La sveglietta dei tempi dell’università mi scuote alle 7. L’abat-jour è rimasta accesa tutta la notte. Mi alzo, apro la finestra, la giornata è grigia. Mi faccio la barba, mi lavo e faccio colazione in fretta. Sono tutto rintronato, anche se ho dormito tutta una tirata. Mi preparo, raccolgo le mie cose ed esco. Alle nove arrivo in ospedale per l’ora delle visite. Papà è ancora sotto flebo. Sembra sempre abbastanza tranquillo. Dice che ha dormito fino alle cinque, poi è passata l’infermiera con i termometri e non ha più dormito. Ha fatto colazione con una tazza di tè e due biscottini. Queste parole mi danno la forza di dire che lo trovo meglio di ieri e di incoraggiarlo. Gli mostro le cose che gli ho portato e lui mi dà indicazione di metterle nell’armadietto. Mi racconta qualcosa a proposito degli altri tre occupanti la camera. Io gli parlo un po’ del mio lavoro e lui si dice dispiaciuto di avermi creato questo problema: – Nessun problema. – rispondo – Sono cose che possono succedere. Quello che mi dispiace è che il mio lavoro mi ha portato lontano e non posso aiutarti come avresti bisogno. – Torna subito da Rosanna. – ribatte – Io qui sono al sicuro, curato e servito come un pascià. Faccio una smorfia per sottolineare l’esagerazione e mi siedo accanto al letto. Parliamo un po’ di come funziona il reparto, poi entrano due infermieri con una lettiga per portare ad un esame uno dei ricoverati e mi fanno uscire. Ne approfitto per andare in segreteria e chiedere un incontro col primario. Il primario mi riceve a mezzogiorno: la radiografia dello stomaco, dice, mostra una massa tumorale molto importante, che rende molto difficile intervenire chirurgicamente. Il chirurgo con cui si è consultato, comunque, considerate le condizioni generali del paziente, ritiene che ci sia qualche margine per tentare un intervento. Del resto non ci sono alternative. Allo scopo in settimana verrà effettuato uno speciale esame, una scintigrafia, per avere un quadro più preciso della situazione. L’intervento sarà effettuato all’inizio della settimana entrante, probabilmente lunedì. Esco dall’ospedale e mi fermo al bar di fronte a mangiare un toast. La situazione è grave, dunque, ma c’è ancora una speranza, penso bevendo un bicchiere di latte caldo. Speriamo che sia proprio così. Poi faccio un paio di telefonate a cugini di papà, che abitano in provincia per informarli. Telefono anche a zia Lucia. Anche lei cade dalle nuvole. Purtroppo lei non è in grado di muoversi, ma mia cugina Teresa verrà a trovare papà. Nel primo pomeriggio torno in ospedale. Il primario è già andato da mio padre e gli ha parlato di un’ulcera che bisogna operare. Lui è preoccupato, ma sembra avere incassato abbastanza bene la notizia: in fondo immaginava qualcosa del genere. Azzarda anche una battuta, poi mi assicura che ora non ha bisogno di niente e mi invita a tornare a Treviso. Effettivamente io devo tornare: il preside mi ha accordato un giorno di ferie e domani ho lezione. Rimango ancora un po’ con lui, infine gli assicuro che sabato sarò di nuovo qui con Rosanna e lo abbraccio. Lasciando la città e imboccando la Romea provo una gran pena e un certo senso di colpa.