Quali furono le “cause” che portarono alla così detta Notte dei cristalli nella Germania nazista del 1938? Ce la rivela questo romanzo facendoci toccare con mano come tutto fosse stato congegnato a bella posta dall’intelligence nazista. Il racconto è basato su dati storici autentici, poco noti ai più, e ci conduce dietro alla tensione di un giallo, dentro le trame in cui i servizi segreti tedeschi invischiano il giovane ebreo polacco Herschel, ribattezzato in codice Ganymede, che vive a Parigi ed è l’amante di un diplomatico dell’ambasciata germanica nella capitale francese. Ricco di suggestive atmosfere nella Parigi degli anni trenta e nella Berlino del Terzo Reich, il romanzo si segnala sul piano letterario per la costruzione binaria dei capitoli che, nel gioco serrato in cui si va chiudendo la trappola, alterna personaggi inquieti e inquietanti che si stagliano in tutta la loro forza drammatica in queste pagine abilmente giocate tra ricostruzione storica e indagine psicologica.
Primo capitoloPrologo
Herschel alla fine si mosse. E si mosse perché non poteva rimanere eternamente in camera a rimuginare. Erano giorni ormai che non usciva di lì, se non si contavano le brevissime scappate sotto casa per entrare di corsa dal fornaio. Il negozio degli altri generi alimentari era più lontano, e aveva evitato di andarci. Per questa ragione mangiava ogni volta la sua baguette con poco formaggio, così da far durare la piccola provvista per più giorni. Aveva bevuto l’acqua dal cattivo sapore del rubinetto sul pianerottolo. In questo modo aveva evitato di dover uscire. Troppa paura, troppo rischio, anche se Simon si sarebbe imbestialito per la sua assenza prolungata. Bisogna ammettere che ci era riuscito perché aveva pochissima fame in quel tormentato periodo. Quando si ha un’apprensione come la sua non si sentono i morsi della fame. Poi ne aveva abbastanza di pane e formaggio. Cosa che lo aiutava togliendogli il desiderio di mandar giù bocconi più numerosi. Si disse che, se non avesse avuto quel terribile pensiero, probabilmente avrebbe sentito il desiderio di mangiare ben altro. Ma non era il caso di perdere tempo con deduzioni come quelle. Ormai doveva uscire, il che significava prendere finalmente una decisione. Una delle due. Doveva per forza prendere una delle due decisioni. L’una e l’altra erano comunque brutte, lo sapeva, ma capiva che non poteva far altro che prenderne una. Si trattava solo di intuire quale delle due sarebbe stata la meno gravosa, la meno antipatica, e soprattutto la meno pericolosa. Queste cose se le era ripetute appunto per giorni, là, nel chiuso della sua squallida cameretta nello squallido quartiere di Nanterre. E, di non decidere, non poteva più prendersi il lusso. Era semplicemente impossibile non decidere se restare o no a marcire in quel buco. Non che la povertà minasse la sua personalità più del dovuto, ci era abituato fin da adolescente. Solo che in una cameretta quasi simile, anche se più pulita perché tenuta in ordine da sua madre, aveva passato anche molte ore a fantasticare, a sognare, quando ancora non conosceva la Francia. Erano stati sogni entusiasmanti e poi anche sensuali, certo. Invece là, in quella misera cameretta nei sobborghi di Parigi dove non c’era non solo la toilette ma nemmeno un lavandino… e per trovarne uno doveva andarsene in corridoio, e la toilette in cortile era un cesso di quelli chiamati alla turca… da quando ci era arrivato non aveva materialmente avuto il tempo per fantasticare di sesso. Tanto il pensiero di essere individuato e preso dalla polizia occupava la sua mente che gli faceva vedere tutto nero. Anche in quel preciso momento, prima di decidersi ad uscire, a prendere aria, aveva cercato inconsciamente le scuse per tergiversare, per dilazionare l’apertura della porta sulle scale. Aveva cercato di spazzolare alla bell’e meglio le scarpe, un po’ logore, usando la tenda, anche quella logora e sfilacciata, della finestrella che dava sul cortile cieco. Aveva sistemato, infittendoli, i vetri rotti, cioè i frammenti di vetro di una bottiglia rotta, nel buco. C’era un buco nell’angolo, e da lì aveva visto con orrore passare un topo, giorni prima. Allora si era ricordato che suo padre gli aveva raccontato che in Polonia negli appartamenti vecchi c’erano molti di quei buchi e si usava tapparli con vetri rotti, in modo che i topi, nel tentativo di attraversarli provenendo dalle fogne, si ferissero con le schegge e che quindi rinunciassero al passaggio. Illusione. Ma infine, con grande coraggio, aveva dovuto passare dalla porta sulle scale e poi da quella dell’ingresso sulla stradina, ed era uscito. Camminando aveva osservato i negozi, che in Francia erano così diversi e interessanti rispetto a quelli polacchi e non così monotoni e tetri come quelli tedeschi di quegli anni trenta, e anche di sfuggita i passanti. Beninteso, senza dare nell’occhio. In fondo era vestito passabilmente, a parte le scarpe malandate, non certo con l’eleganza parigina di certi giovani che camminavano per Monmartre, ma indubbiamente in maniera accettabile. Uno vestito così, appunto passabilmente, a nessun flic veniva in mente di fermarlo per chiedergli i documenti e poi verificare se erano in regola. Inoltre, ed era l’essenziale, nessuno poteva indovinare con sicurezza, alla prima occhiata, che quei panni passabili e corretti vestivano il corpo di un ebreo polacco anziché di un parigino autentico quale lui avrebbe voluto sembrare con tutta l’anima. I flic, già. I poliziotti dovevano aver ricevuto un ordine speciale in quei giorni d’inizio autunno del 1938 e chissà per quale motivo politico, dato che lui nella sua stanzetta era privo di radio e non poteva rendersi conto di nulla. Simon e Sarah glielo avrebbero svelato, ma non andava in negozio da giorni. In ogni caso i flic fermavano molto spesso qualcuno per strada chiedendo i documenti. Tre giorni prima, e questo era stato il motivo principale della sua forzata clausura, era sfuggito solo per un miracolo al controllo. Era toccato ad un passante che gli camminava accanto fuori dal metro. E lui aveva notato con penosa meraviglia, volgendosi indietro, che i due flic avevano fermato un uomo sulla quarantina, a dire il vero con una cappa rotonda bianca sul capo come i mussulmani del Nord Africa, e gli rivolgevano domande, una dopo l’altra in maniera niente affatto gentile, anzi decisamente brusca. Lui di certo non aveva l’aspetto di un arabo, però si sapeva che in quel periodo i flic controllavano anche emigranti clandestini polacchi e cechi. Insomma si era girato, spinto dal terrore e anche da morbosa curiosità, per accertarsi della pericolosità dei controlli. Non era consigliato a uno come lui girare per Parigi in quei giorni di tensione politica, e con un’aria circospetta come certo la sua in quel momento. La polizia doveva aver ricevuto ordini precisi dal governo francese al fine di smascherare elementi indesiderati o, come lui, clandestini. E la sua curiosità era stata così forte e inconsulta che per sbadatezza e angoscia non aveva pensato al rischio. Perché volgersi, girare la testa ripetutamente in maniera spaurita come certo doveva aver fatto, non era stata davvero una mossa azzeccata. Uno dei poliziotti avrebbe potuto notare l’espressione disorientata, peggio, stralunata! E quindi lasciar andare il passante col baschetto bianco appena fermato e urlare invece a lui un perentorio: alto là! Con tutte le conseguenze. Mio Dio, che pericolo correva a passeggiare in quei giorni a Parigi uno come lui. Ma poteva rimanere ancora un altro giorno e un’altra notte in quella disadorna cameretta a torturarsi con i pensieri? E fare dei passi su e giù, da muro a muro, fino a notte inoltrata senza risolvere il problema? Se avesse contato i propri passi uno ad uno, avrebbe avuto un numero uguale a quello necessario per arrivare al primo dei suoi problemi: rue des Rosiers. E allora dopo tre giorni di inerzia, una parte dei quali disteso sopra il letto, vestito ma disteso sul letto, non ce l’aveva fatta più ed era uscito. Passeggiare e vedere i negozi? Quale ipocrisia. Doveva decidersi ad arrivare finalmente al metro. E, arrivato al metro, doveva decidersi a vagliare una delle due possibilità che gli restavano. E intanto che camminava stava riflettendo sull’orribile dato di fatto che lui a tutti gli effetti non aveva ancor preso nessuna, nessunissima decisione. Rue de la Gaité, oppure appunto rue des Rosiers? Una delle due, una delle due, accidenti. E quale delle due? Ognuna di quelle vie aveva per lui un preciso, pesante significato, tale da far girare irrimediabilmente la ruota della fortuna o della sfortuna della sua vita. Lo sapeva. Si fermò un attimo, nonostante la sosta fosse molto vicina all’angolo dove i poliziotti avevano fermato l’algerino per chiedergli i documenti. Era ad un bivio, era arrivato alla stazione del metro. Là doveva, scesa la scala, decidere quale vettura prendere. Rue des Rosiers? Rue de la Gaité? Ognuna di quelle vie aveva per lui un significato diverso, diametralmente opposto. Tanto che risultava, a rifletterci, una cosa sconvolgente. E lui non voleva pensarci, l’aveva fatto per troppo tempo, disteso sul letto vestito, senza arrivare ad una decisione, al taglio netto, come avrebbe dovuto invece per scegliere la linea del metro più logica. Logica? Chi poteva affermare di poter scegliere con sicurezza la linea più logica? Il nome di ognuna di quelle due vie parigine faceva balenare significati sgradevoli, decisamente sgradevoli. Notò che un paio di passanti lo stavano osservando. Doveva avere assunto in viso un’espressione strana, ed era meglio mutarla al più presto. Comunque non c’era rimedio in vista, doveva scegliere una di quelle vie. Il che voleva dire abbandonare l’altra. Anche questa una cosa sgradevole da pensare e con conseguenze inevitabili. E tutto gli incuteva timore, un’apprensione penosa, immobilizzando le sue possibilità di agire. Era giunto al metro, ai piedi della scala che portava ai sotterranei e non osava fare un passo di più. “Mostramela!” La voce, con un accento particolare, addirittura particolarissimo, e anche la parola espressa in un francese non certo francese, dopo una brevissima pausa rincarò, dimostrando definitivamente la provenienza slava: “Mostrami la tua mano, la sinistra, fringuello mio!” Herschel si girò, stupefatto. La vecchia, seduta sul primo gradino della scala, lo guardava bonariamente. Uno sguardo penetrante, il suo, ma dopotutto bonario. Lui notò subito che vestiva assai poveramente, con in testa un fazzolettone bisunto e colorato. “Perché? Cosa ti salta in mente che dovrei farlo?” le rispose Herschel macchinalmente. Poi gli venne per istinto da riflettere sul perché mai avesse dato una risposta a qualcuno per strada senza conoscerlo e dimostrando in tal modo che anche il suo accento non era davvero francese. Ma, prima di potersi rispondere, la vecchia gli aveva afferrato la mano destra tra le sue. Percepì la stretta delle dita scarne e la sensazione non piacevole delle unghie sporche sulla sua mano. E questo gli produsse una sensazione strana, quasi si sentisse ghermito da un artiglio. Che contrastava però con l’espressione bonaria della vecchia seduta sul gradino. Fissò la vecchia incredulo, ma senza avere la forza di ritirare la mano. “Mi serve la sinistra, fringuello” disse lei con tutta tranquillità. “Su quella leggo meglio il tuo futuro. Pochi spiccioli, solo pochi spiccioli, appena il costo di un biglietto di metro.” “Detesto le fattucchiere, appunto, da pochi spiccioli” esclamò lui guardandosi intorno per controllare se qualcuno lì vicino fosse interessato a sentire. “E poi cosa potresti dirmi? Baggianate, come tutte le chiromanti. Tu non puoi sapere nulla di me” e riuscì a liberare la mano. “Ah, no?” disse lei sfoderando nel sorriso un paio di denti falsi di acciaio, di quelli brutti che si usavano nei territori dell’est e che risultavano di un luccichio cupo nella fila gialla degli altri nella sua bocca. “Per cominciare, dalla tua parlata potrei dirti che sei polacco, come me.” “Facile” rispose pronto Herschel, e questa volta volgendosi con circospezione per vedere se un flic fosse nelle vicinanze. “Però hai fatto un errore di fondo, perché io sono francese anche se da poco, del tutto francese e con tanto di documenti.” “Ma no!” disse lei sorridendo ancora bonariamente. “E poi oltre a questo particolare sbagliato, sbagliatissimo, non hai altri appigli, non sai e non puoi sapere nient’altro di me. Addio.” Fece l’atto di andarsene scendendo un gradino, ma poi si rigirò. Lo fece perché le parole, questa volta in un polacco con l’accento di Cracovia, gli diedero una fitta al cuore. La vecchia ripeté, crudelmente: “So che sei ebreo, questo si vede lontano dieci metri perché sei tipicamente ebreo. E che ebreuccio sei, fringuello!” Herschel sentì battergli il cuore e non osò contraddire la vecchia. “E poi un’altra cosa so, perché anche quella si vede senza bisogno della tua mano sinistra” continuò la vecchia imperturbabile. Aveva tirato fuori nel frattempo da una piccola sacca di tela sfilacciata un gomitolo e due ferri e ora sferragliava velocemente su una minuscola pezza di lana variopinta. “E... e cosa avresti visto?” chiese Herschel pentendosi subito dopo della sua incauta domanda. Ma in quel momento ormai non faceva differenza. Lo voleva sapere e ripeté: “Che cosa, eh? Che cosa mai?” “Che sei una checca.” “Come?” obiettò lui impallidendo. “Sei omosessuale, fringuello mio. Eh, Dio non ci ha fatto tutti di uno stampo, non ti pare?” ammise la vecchia quietamente. E aggiunse, tornata bonaria: “Adesso vuoi darmela, la mano sinistra? Ti costa due o tre franchi, solo quelli, fringuello, e saprai il resto.” E strizzò un occhio in maniera orribile. Herschel ebbe un tuffo al cuore perché quella strizzata d’occhio si era dimostrata più disgustosa di tutto quello che aveva detto prima. Doveva dargliela, la mano? Che sciocchezza, perché poi? Non era invece il caso di arrabbiarsi per quell’impudenza di approccio dando uno spintone al gomitolo della vecchia in modo da farlo rotolare giù per la gradinata, e poi fare dietro front e scendere nel metro? Episodio finito. E invece una curiosità morbosa lo assalì, e in modo imprevisto. Si rese conto che una tale possibilità inaspettata di sapere quale decisione sarebbe stato meglio prendere, era una cosa unica. Una cosa a cui non sapeva davvero resistere. “Allora? Proprio non vuoi? Ma io so che tu lo vuoi, fringuello mio!” Lentamente, con una lentezza che di solito in lui non era regolare, affondò la mano sinistra nella tasca del cappotto agguantando con le dita gli spiccioli che si era preparato per fare il biglietto. La mano emerse, chiusa a pugno, e riversò sul palmo della mano destra le monetine. “Ho solo questi” disse, vergognandosi e mostrando il poco denaro sul palmo aperto. “Oggi mi bastano” rispose la vecchia senza guardare né lui né le monetine, ma impossessandosi della mano sinistra e rivoltandogliela quasi con violenza. Poi stette assorta, fissandola. “Allora, cosa vedi?” chiese lui impaziente. Non gli piaceva, non gli piaceva affatto come la vecchia fissava la sua mano. La vecchia taceva. Aveva guardato, anzi fissato con indisponente calma la mano, e taceva. Sembrava in qualche modo incredula. Lui aveva sentito l’unghia del suo dito indice errare su tutto il palmo come se lo avesse voluto graffiare per toglierne il leggero sudore e discernere meglio i contorni e le anfrattuosità della pelle. E senza dire nulla. “Allora?” La vecchia invece di guardarlo e rispondere taceva e sembrava meditare. “Gli spiccioli sono pochi? Sono solo quelli perché li avevo contati per prendere il biglietto, però potrei aggiungerci una banconota” rincarò lui stizzito e mettendo nuovamente la mano in tasca. Naturalmente aveva volutamente taciuto sul poco valore della banconota offerta per non deprezzare a priori l’offerta. La vecchia alzò lo sguardo. E lui ebbe la sgradevole sensazione che uno sguardo così, come da pesce morto, irreale come quello non l’aveva mai visto. Nessuno lo aveva mai guardato a quel modo. “Non voglio i tuoi spiccioli” proferì piano, stranamente piano, la vecchia, tornando al suo sferruzzare. “Mah... e il mio futuro? Quello vero, perché quello che hai detto prima di me non era poi tutto vero, nossignora.” “Se non fosse vero avresti tirato dritto.” “Be’, qualcosina di vero in un certo senso c’era. Dimmi il resto, dimmi quello che voglio sapere.” “Oggi non sono in vena” rispose lei senza guardarlo e aumentando il ritmo dello sferruzzare. “Va bene, ma tuttavia” obiettò Herschel deluso. “Tuttavia potresti almeno accennarmi...” “Oggi non sono in vena, ti ho detto. E ieri sera ho ingoiato troppa zuppa di fagioli e adesso mi sento ancora piena. E, se non te ne vai subito, potrei ammorbarti con un certo odorino! Tu lo sai, da polacco, che effetto fa la zuppa di fagioli, no? Ecco, tra poco ne mollo una, bada bene, tra poco ne mollo una!” “Questa poi!” emise Herschel con un sospiro. “Addio, fringuello” disse la vecchia quando lui era già sceso con lentezza di un paio di gradini e dopo che una passante con un grande pacco si era tolta di mezzo tra lui e lei. “Non sognarti di tornare più da me.” Herschel non trovò una risposta anche perché si era reso conto che era inutile supplicarla, ma continuò a discendere i gradini con penosa lentezza. Che la vecchia maledetta avesse visto, o solo intuito, che lui doveva in quel momento prendere una decisione fatale? Le zingare, e la vecchia con quel fazzolettone sudicio sulla testa e anche per tutto l’insieme dei tratti del volto era senz’altro una zingara, a volte, proprio dalle steppe dalle quali provengono, danno dei responsi sorprendentemente esatti... Ma non aveva voluto prendere i suoi spiccioli e nemmeno la banconota, senza neppure sapere di quale importo si trattava. Perché? Che avesse visto che la decisione da lui presa in quel momento, non ancor presa in effetti, ma ormai improrogabile, fosse la decisione sbagliata? Questo pensiero lo tormentò talmente che si accorse di essere sudato. Sciocchezze, pensò. Per una simile quisquiglia stava sciupando il tempo necessario invece a mettere i problemi sul tappeto e vagliarli con circospezione prima di accostarsi allo sportello per fare il biglietto. Ma anche quella era una sciocchezza, sapeva benissimo di aver meditato a sufficienza disteso sopra il letto giorno e notte senza prendere sonno. E il risultato? Nessunissima decisione. Si accorse che qualcuno lo osservava. Forse, nel pensare in quel modo non aveva badato a correggere l’espressione del viso. Eppure era una cosa che gli riusciva molto bene di solito. In particolare con Sarah. Ma non in quel momento… E poi c’era troppa gente in quella stazione a quell’ora, gente che lo spingeva, frettolosa, indisponente, tipi che non ammettevano che uno meditasse su quale destinazione prendere. Alla fine si scosse. Girò le spalle alla biglietteria e tornò verso la scala. Non si sentiva proprio di prendere una decisione risolutiva quel giorno, e non in quel momento particolare dopo che l’indovina si era rifiutata di rivelargli ciò che indubbiamente aveva letto sulla sua mano sinistra. L’unica decisione che gli parve giusto prendere fu quella di passare dalla parte opposta dei gradini dove la vecchia era seduta, in modo da non doverla guardare e sperando di non esserne scorto. Rifece quatto il passaggio verso l’uscita guardando fissamente la reclame di un profumo, e poi quello molto grande delle sigarette Gauloises che tappezzava gran parte della parete d’uscita. Fu sicuro che nessuno sguardo l’aveva seguito. Per prudenza, ma anche per curiosità, si volse appena un secondo per controllare se la vecchia lo avesse suo malgrado notato. Ma niente paura. La vecchia non c’era più.