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Edizioni del Loggione

Antonio Polosa
Gheler l'esploratore - III La guerra dei quattro eserciti

Gheler l'esploratore - III La guerra dei quattro eserciti
Prezzo Fiera 15,00
Prezzo fiera 15,00

«Io non conosco sconfitta,
non comprendo il tradimento e non provo paura. Sono il fuoco di un drago, la lava di un vulcano, il calore del sole, il bagliore delle stelle, l’assordante tuono di un fulmine.
Io combatto per la vittoria, per la gloria,
per la lealtà e per l’onore... o per la morte»

Contiene l'ultimo spin-off sulle guerre di Nuria: I figli delle fiamme

Continua la saga
di Gheler l'esploratore

III – La guerra dei quattro eserciti
Mentre nel sud il numeroso esercito di Nuria si schiera nelle pianure, nel profondo nord Gheler, Egaroth e Adne sono prigionieri degli Urok, un antico popolo molto simile nell'aspetto a quello degli Orghen che ha come legame gli Uru, lupi di ghiaccio. Poiché la guerra è ormai alle porte, i tre proveranno a fuggire verso sud nella speranza, oltre a quella di spezzare il legame di Adne per salvarle la vita, di coinvolgere anche Esmador nella guerra per la difesa del Sialden.
Adeleo, separato dalla sua amata Elden, guiderà le speranze degli Etne verso una possibile vittoria, diventando capitano delle forze armate del Sialden per contrastare l'orribile pretesa di Nuria sugli alberi della foresta. 
Elden invece marcerà su Agorea e porterà loro la notizia dell'imminente guerra, sperando di coinvolgere anche il popolo dei mari nella guerra contro Nuria.
Quattro eserciti per contrastarne uno.  

Primo capitolo

Le pianure di sangue
(dal diario di Galvat)



Ci volle molto più tempo del previsto perché l’intero esercito si spostasse dalle difese di Gotaeldarv fino nel cuore delle pianure di sangue. Camed aveva detto due settimane, invece ce ne vollero tre. Nel tempo previsto però il grosso dell’avanguardia, dei boscaioli e degli arcieri e la maggior parte dei generali si erano già accampati e questi ultimi ai piedi dell’imponente tenda del principe Galvat, eretta sulla regina delle colline.
«Sono le macchine che rallentano l’avanzata» confessò Camed quattro giorni prima dell’inizio dell’assedio, «alcune hanno già raggiunto i punti stabiliti, quelle che coprono la parte nord invece saranno in posizione fra un’altra settimana»
«Possiamo cominciare comunque ad abbattere i loro alberi, non dobbiamo dare loro il tempo di organizzarsi» propose Quonn il mangia-Ledah dell’ordine dei taglia-Ledah, un vecchio dalla folta barba bianca a capo delle segherie. Capitanava insieme ad altri quindici sottoposti ben diecimila asce. L’idea di Camed era semplice: per ognuno di essi dovevano esserci sei guardie che davano il cambio ad altre sei ogni tre ore. Il boscaiolo abbatteva il Ledah e i soldati li proteggevano dagli attacchi Etne, mentre manovali si avvicinavano con i carri per trascinare via l’albero morto, in pratica la medesima cosa che da anni accadeva nelle segherie a sud del Sialden.
«Quando poi le macchine saranno in posizione, allora non ci sarà più bisogno dei boscaioli» intervenne Menio. Mio padre, qualche giorno prima l’inizio della marcia, aveva inviato a forte Nedal una staffetta. Portava delle lettere e dei disegni, le stesse che Camed durante quella riunione teneva sotto il naso.
«Qui parlano di nuove città, di nuovi forti, di una nuova nazione» lesse il tattico, «e di certo la legna per tutto questo non ci mancherà» gli altri generali risero. “No” avrei voluto dirgli, “ma ci manca l’umanità” per quanto poco m’importasse di quella specie di elfi, al pensiero che la fine del Sialden in futuro portasse il nome di Galvat Gadna mi strappò un brivido di terrore. Galvat, il flagello degli Etne. Eppure non ero lì per mia volontà.
Se mio padre l’avesse proposto ad Adeleo, questo si sarebbe certamente rifiutato. Per mio fratello l’umanità contava più di quello che sarebbe potuto diventare se solo avesse dimostrato di non averne, in fondo era lui il primogenito. Re di Nuria significava ormai re del mondo intero, re di eserciti capaci di spazzare via qualsiasi minaccia, qualsiasi ostacolo, significava grandezza.
“Non esistono più popoli capaci di sconfiggere l’avanzata di Nuria” diceva sempre mio padre. “Qualche altro secolo nelle mani sbagliate e il nostro impero diverrà padrone di tutte le terre conosciute” 
Quello era un passo verso le parole di re Ferdur, forse uno dei più lunghi nella storia dei Nuriani, un passo che finiva in una pozza di sangue e che per sempre avrebbe portato il mio nome ma ormai non importava più.
«È già successo nella storia del nostro popolo di erigere forti su terra bruciata e insanguinata» disse Bailin guardandomi. Vista la sua aria afflitta, doveva essere riuscito a leggermi nel pensiero. «Così come succederà ancora. Siamo un popolo che cresce in fretta e che per sopravvivere ha bisogno di nuove terre»
«Lo so» gli risposi io. «Ne sono consapevole»
«Ma consapevolmente afflitto» insistette mio zio. «Poche sono le risorse che ci restano da quella parte» e indicò il sud. «Il nostro futuro adesso dipende da quello che abbiamo davanti» si sollevò dalla sedia e guardò negli occhi tutti i presenti. «Lo so che può sembrare una cosa crudele, questa, ma se volete che i vostri figli continuino ad avere un tetto, se volete che le navi che comanderanno o che guideranno in futuro, quelle che solcheranno mari inesplorati siano abbastanza resistenti da tenerli in vita durante un attacco, se volete del fuoco nel vostro focolare nelle fredde notti d’inverno, allora questo diventa un passo necessario. Adesso sapete per quale motivo siamo qui riuniti, non perché gli Etne sono una minaccia, non si tratta soltanto di espandere i confini di Nuria ma si tratta soprattutto di dargli un futuro» alcuni generali urlarono il loro consenso, altri soppesarono il peso di quelle parole decidendo nel contempo se dare loro ragione o meno. Io facevo parte dei secondi. «Re Ferdur ha affidato a voi la missione perché si fida solo e soltanto di suo figlio, rendetegli onore, Galvat, e quando tornerete a casa vostro padre siederà di fianco al trono, non più sopra di esso»
«Avete ragione» dissi infine, rassegnato. In fondo, anche opponendomi, avrei potuto fare poco e niente. Bailin avrebbe occupato il mio posto nello stesso istante in cui mi fossi dimesso; il destino degli Etne era ormai segnato. «Organizzate l’avanguardia, avete tre giorni. All’alba del quarto voglio vedere le asce dei tuoi uomini abbattere i Ledah di confine» Quonn annuì con vigore.
Quella stessa sera, nel mio letto, forse per la pressione di tutti i compiti che avevo o forse per la paura di fallire, piansi. Era da tanto tempo che non lo facevo, dall’età di quindici anni, dalla morte di mia sorella. Ricordo quel giorno come se fosse ieri, Adeleo aveva quasi tentato di togliersi la vita per la disperazione, se non fosse stato per il mio intervento si sarebbe buttato giù dalla torre dei curatori. Enia si chiamava, capelli rossi, occhi azzurri, dodici anni, strappata al mondo da quella che tutti chiamavano febbre di Agat. Secondo il popolino era una sorta di maledizione lanciata dagli elfi che avevamo ucciso, si era manifestata per prima sui soldati sopravvissuti alla gloriosa battaglia che li aveva portati all’estinzione per poi spargersi in tutta Nuria. Mi chiesi se ci sarebbe stata anche la febbre del Sialden dopo quell’attacco.
Mi svegliai che avevo dormito appena un’ora. L’accampamento, che si estendeva per gran parte delle pianure di sangue era un continuo su e giù persino di notte. Milioni e milioni di tende occupavano l’orizzonte a sud e quello a nord, mentre a ovest erano appena visibili i Ledah del Sialden. L’aria era satura dell’odore del fumo dei fuochi che di notte tenevano al caldo i soldati. Alcuni uomini mi portarono la colazione mentre altri m’illustravano tattiche e mi ponevano domande. Fu così per tutti i giorni successivi, arrivavo a ora di pranzo con il mal di testa e alla sera con il mal di ogni organo e arto ma nonostante ciò mi fu comunque impossibile dormire per più di qualche ora.
Infine l’alba del quarto giorno giunse. Il mio scudiero, Dede, insieme a altri due uomini mi fece indossare la dorata e scintillante armatura a piastre colma d’incisioni varie e di diamanti di ogni forma e colore. Più che da combattimento quella serviva soltanto a farmi riconoscere nel caos della battaglia alla quale comunque mai avrei preso parte. Indossai l’elmo alato, la faretra e rinfoderai la corta spada a una mano nel fodero sorretto dal mio destriero. Salito sul dorso del cavallo, Dede mi passò l’arco nero d’ebano senza il quale non cavalcavo mai e spronai il destriero avvicinandomi a Bailin Dur. Anche mio zio indossava l’armatura d’oro dei generali. Alla sua sinistra c’era anche Quonn il mangia-Ledah insieme a un centinaio di lancieri e di taglia-Ledah.
«L’attacco deve essere coordinato» dissi loro.
«Lo sarà» rassicurò Camed sbucando dalle mie spalle. «Aspetto soltanto il vostro ordine, una staffetta è giunta da sud insieme a un’altra da nord, è tutto pronto mio signore»
«Allora lanciate il segnale» comandai e il tattico si congedò immediatamente. Due minuti dopo un colpo si levò nel cielo, esplodendo in una nuvola di polvere e risuonando dirompente in tutte le pianure di sangue. Al segnale ci mettemmo in marcia mentre a catena altri fuochi scoppiavano a sud e a nord. Una fila di uomini che non aveva fine si staccò dagli accampamenti, chi armato di ascia e chi di spada e di picca, con i grandi e pesanti scudi forgiati appositamente per quella guerra. Subito dopo seguirono i manovali con i loro carri trainati sia da buoi sia da asini e cavalli. Tre o quattro corni suonarono lontani, urla e tintinnii si levarono da tutta l’immensa avanguardia dando loro maggiore foga. Insetti volarono via dai verdi campi al nostro passaggio, corvi gracchiarono nel cielo forse consapevoli del sangue che stava per essere versato, scimmie e scoiattoli raggiunsero le punte più alte dei pochi alberi che crescevano a chiazze poco uniformi qua e là mentre bianche e magre nuvole si addensavano intorno al sole.
L’avanzata durò quasi due ore, la maggior parte dell’avanguardia procedeva a piedi, lenta, con l’armatura a impacciargli i movimenti. I taglia-Ledah invece erano vestiti di cuoio salvo sul dorso e sulla testa. Indossavano grezze e arrugginite cotte di maglia e sottili e ammaccati elmi, probabilmente razziati alle guardie che ogni giorno morivano nelle segherie.
I Ledah di confine erano robusti e alti una dozzina di metri, con delle cortecce larghe quanto dieci barili di birra messi uno di fianco all’altro.
«Questa è solo una prova!» urlai, «abbattuti i Ledah di confine faremo ritorno all’accampamento»
«Quegli alberi sono robusti e con gli attacchi previsti da parte degli Etne... temo ci vorrà almeno mezza giornata per abbatterli» suppose Quonn sputando per terra; una striscia di bava gli rimase però tra la barba. Imprecando se la ripulì alla meglio e sputò una seconda volta.
«Ci siamo» intervenne Bailin fermando il suo destriero.
«Mio signore» uno degli esploratori ci raggiunse correndo da sud, era piccolo e tozzo, vestito di verde, il volto dipinto a chiazze per mimetizzarsi meglio tra l’erba alta e gli alberi. «Le guardie di confine sono alle spalle dei loro Ledah mentre altri Etne sono appostati nel prato che li divide dal Sialden, vestiti da verdi foglie, con archi e frecce»
«Bene» continuò Bailin avanzando di qualche metro e voltandosi verso tutta l’immensa avanguardia. «Scudi protesi!» urlò, «picche puntante sul Sialden! Serrate i ranghi!» i soldati si schierarono davanti ai tagliaboschi e sollevarono gli immensi scudi. «Proteggete fino alla morte gli uomini delle segherie!» e sollevò la sua lunga spada d’acciaio, urlando insieme a tutta l’avanguardia. Infine afferrò il corno dalle sacche del suo destriero e lo suonò, mentre il cavallo sotto di lui s’impennava. La carica partì a passo svelto, alcuni cavalieri mi accerchiarono, Menio mi disse di restare tra loro mentre Bailin, scortato da altrettante guardie a cavallo, avanzava alle spalle dell’avanguardia gridando ordini a destra e a sinistra.
Subito dopo frecce sibilarono dalle spalle dei Ledah di confine, la prima fila indietreggiò fino a colpire la seconda, quella dei boscaioli e sollevò i grandi scudi. Le frecce rimbalzarono su di loro, piantandosi innocue tra l’erba alta e uccidendo tre o quattro uomini in tutto.
«Avanti!» tuonò Bailin e la marcia riprese. «Difesa! Difesa!» comandò un minuto dopo e ancora una pioggia di frecce cadde su di loro questa volta, però, abbattendo molti più uomini. «Le frecce non aspettano che voi solleviate gli scudi per calare, più lesti! Più lesti! Suonerò il corno! Il corno!» e ci soffiò dentro. «Difesa!» e lo fece una seconda volta. Dardi caddero anche su di lui e sul suo cavallo corazzato, rimbalzando sia sull’armatura sia sul suo scudo a forma di due corone intrecciate.
«Avanziamo» ordinai alle mie guardie.
«Ma signore, finiremo nella pioggia di frecce se avanziamo» mi ricordò Menio. Io spronai il mio destriero, indicandomi con un sorriso malizioso l’elmo.
«Non temete, nessuna di esse cadrà su di noi»
Quando l’avanguardia raggiunse i Ledah, Etne corazzati provvisti di lunghe spade, insieme a lupi e orsi emersero dalle loro spalle, urlando e balzando sui nemici. I picchieri si difesero come poterono con i loro scudi, mentre la terza fila, quella delle spade, si faceva largo tra i boscaioli per andare all’attacco. Gli Etne di confine uccisero molti dei nostri soldati, erano delle furie, la paura li aveva resi ciechi tanto che a chiunque stesse seguendo la guerra da debita distanza, sarebbero parsi una massa di bruti senza disciplina. Non si coprivano a vicenda ma attaccavano il primo che si trovavano davanti, senza un minimo di organizzazione, senza qualcuno che urlasse loro degli ordini.
«In quanto a numero gli Etne ci superano almeno di dieci volte, ma in quanto a disciplina somigliano di più alla mia povera madre. Quando vedeva un topo, afferrava la prima cosa che gli capitava a tiro e la sventolava ovunque, rompendo mobili, rovesciando sedie, spaccando vetri» le guardie risero alle parole di Menio; anch’io lo feci.
«E questa sarà la causa della loro morte» e improvvisamente, anche se ancora troppo presto per dirlo, sentii dentro di me il gusto della gloria. Carezzai la lama che portavo sul fianco, era fredda e dura come il bianco trono di marmo di Aglan sul quale presto, molto presto, sarei sprofondato.
Quando anche l’ultimo Etne fu atterrato, stordito e imbavagliato, allora i taglialegna cominciarono con le loro grandi asce a picchiare contro la corteccia degli alberi. Non potevamo ucciderli, il primo a crollare doveva essere il Ledah non il suo padrone, altrimenti questo sarebbe poi diventato cenere e tutti ormai lo sapevano fin troppo bene. Altre frecce sibilarono nell’aria, i boscaioli si ripararono dietro le cortecce dei Ledah mentre i soldati si nascondevano dietro i loro scudi. Il cavallo di una guardia di Bailin venne trafitto e quando questo s’impennò spaventato, disarcionò il suo padrone che, gambe all’aria e scudo non più davanti la faccia, morì sotto la pioggia di dardi. Caddero anche su di noi, gli altri sollevarono gli scudi e si nascosero dietro di essi, spaventati ma al principe Galvat bastò spostare appena la mano destra per spazzarle via. Quando Menio si girò a guardarmi, forse ricordando di come l’avevo quasi ucciso con la sua stessa spada senza nemmeno sfiorarlo, aveva gli occhi pieni di terrore. Io gli sorrisi nuovamente, deviando la seconda scarica di frecce e scendendo dal dorso del mio destriero.
«Signore...» balbettò il generale di forte Nedal. I colpi delle asce avevano ripreso a cozzare contro le cortecce dei Ledah, c’erano tre boscaioli per albero, tutti sudati e impauriti. Bailin suonò nuovamente il corno e immediatamente tutti si ripararono dalla scarica di frecce, chi sollevando lo scudo chi rannicchiandosi per terra. Questa volta le fermai a mezz’aria, ce n’erano a dozzine e tutti quelli nel raggio di molti metri puntarono gli occhi su di me, increduli. Feci ruotare i dardi e con un pugno nel vuoto le rispedii al mittente. Urla di dolore si levarono da lontano mentre i miei uomini, sempre più increduli, mi acclamavano urlando il mio nome. Potere, era questo l’elmo di Daio, potere di fare qualsiasi cosa. Mi avvicinai maggiormente al Ledah davanti a me e protesi le mani verso la sua corteccia. I boscaioli e le guardie si spostarono spaventate. Feci delle mani un pugno per infine sollevarle verso l’alto. L’albero tremò, foglie caddero dalla sua chioma, scricchiolii attraversarono la sua corteccia mentre lentamente le profonde radici emergevano dal terreno. Con un urlo di soddisfazione e di dolore per lo sforzo sradicai l’albero da terra, facendolo crollare ai miei piedi. Potere, sì, ma anche dolore, la strada per i grandi sforzi era colma di ostacoli e irta di spine. Persino Bailin adesso mi stava guardando, forse con confusione, forse con meraviglia, forse un misto di entrambe le cose.
«È un Ledah giovane ma le sue radici sono comunque profonde» ammise qualcuno.
Gli Etne non tirarono più frecce su di noi. Esploratori giunsero ad avvisarci che avevano abbandonato il campo di battaglia anche se, presumevano, che altri ne sarebbero giunti. Trenta tiri di frecce erano tanti anche per le faretre più grandi.
Quattro ore dopo i primi Ledah caddero al suolo tra le grida soffocate dei loro Etne imprigionati e imbavagliati. La maggior parte di loro si stava dimenando, mentre altri tiravano testate e si gettavano di peso sulle guardie. Meno di due minuti dopo però anche loro crollarono per terra privi di vita.
Uno dopo l’altro, tutti gli alberi di confine furono abbattuti mentre i carri si avvicinavano per trascinarli via.
«Potrebbe funzionare» commentò Quonn, «almeno fino a quando le macchine non saranno in posizione. Più li teniamo nel panico e meno tempo avranno per organizzarsi. È così che facevamo alle segherie»
«Sì, potrebbe funzionare» intervenne Bailin ridendo. Si portò il corno alle labbra e suonò la ritirata. I soldati tirarono un sospiro di sollievo, i boscaioli si asciugarono le fronti imperlate di sudore e gettarono le asce nei carri, stanchi, indeboliti. Con l’elmo di Daio aiutai una dozzina di manovali a caricare i Ledah, anche se solo dalla parte del tronco, sui carri.
«Non è stato difficile» commentò Menio.
«Lo sarà di più quando ci troveremo ai veri confini del Sialden. Scalare le mura di una città è una cosa, combattere i suoi soldati all’interno è un’altra»
«Oggi però eravamo in pochi, domani saremo molti di più» mi rassicurò Bailin. «Torniamo all’accampamento, ho proprio voglia di un boccale di vino»
«Signore! Mio principe!» urlò dalle nostre spalle un uomo. Era lo stesso esploratore di prima, questa volta però era tutto sudato e aveva l’aria di portare notizie importanti.
«Parla» lo intimò Menio.
«Il re, il re del Sialden. Hanno issato bandiera bianca e così ci siamo avvicinati a loro. Chiedono di poter parlare con voi, vogliono trattare la pace»
«In quanti?»
«Sono in sei, signore, il loro re, tre anziani, un giovane consigliere e...» l’esploratore si bloccò, a disagio.
«E?» l’apostrofò Bailin.
«E, ecco... il principe esiliato Adeleo» improvvisamente calò il silenzio su tutte le bocche che avevano udito quelle parole. Bailin scese da cavallo e si avvicinò con foga verso di lui. Lo afferrò per il bavero e lo sollevò da terra, furioso.
«Chi?»
«L’avete visto di persona? Con i vostri occhi?» gli chiesi. L’uomo annuì, spaventato.
«Questo vuol dire che Onnu ha fallito la sua missione» Bailin rimase sorpreso dalle sue stesse parole.
«Che avete intenzione di fare?» mi chiese Menio. Io sospirai, stringendo con foga le redini del mio destriero.
«Che l’avanguardia ritorni pure all’accampamento, con me voglio quindici guardie a cavallo, Menio e Bailin compresi. Quonn, resta anche tu» il mangia-Ledah annuì. «Torna da loro. Li aspetteremo qui, hanno tempo un’ora per farsi vivi e quindici minuti per esporre la loro proposta. Non voglio armi né stupidi trucchi. Menio, dagli il tuo cavallo»
«Ma...»
«...Lo sai che non sono tipo da accettare repliche» allora il generale di forte Nedal smontò dal suo destriero e consegnò le redini nelle mani dell’esploratore che, dopo che ebbe montato sul suo dorso, s’inchinò verso di me e partì al galoppo in direzione del Sialden.
“Adeleo, e così siete ancora vivo” Difficile mentire a se stessi. Una parte di me, anche se insignificante, ne era felice.  

Specifiche

  • Pagine: 380
  • Anno Pubblicazione: 2016
  • Formato: 14x20
  • Isbn: 978-88-6810-2944
  • Prezzo copertina: 15

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