Tutti i racconti finalisti della seconda edizione di GialloFestival 2020.
50 racconti di altrettanti autori italiani.
IL DEBITO
Marzia Accardo
Appena uscito, il servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Parabola del servo spietato - Vangelo secondo Matteo 18,23-35
Quello stronzo mi deve ancora un sacco di soldi. Non si fa vedere in giro da due settimane, ma ci penserò io a stanarlo.
Ogni volta adduce le scuse più improbabili, tirando in ballo sempre i figli. I suoi bastardi. Ne ha addirittura tre, che mangiano, si vestono, vanno a scuola, insomma, sono una macchina aspira soldi. Non mi capacito di come certa gente non capisca che i figli vanno fatti solo se li si riesce a mantenere. In caso contrario esistono pur sempre i contraccettivi, ma parliamo di persone ignoranti che non ne conoscono nemmeno l’esistenza.
Anche Chiara era rimasta incinta. Forse sperava che l’avrei sposata, che si sarebbe fatta una famiglia con me. Illusa.
La mia risata risuona forte nel silenzio della notte, con un’eco sinistra. Sì, perché il solo pensiero mi fa ridere. Credeva che mi sarei rincoglionito mettendomi a gattoni per terra o facendo altre cose simili per giocare con dei mocciosi? Che avrei fatto il papà? Rido di nuovo, una risata sguaiata e fastidiosa che spaventa il gatto rimasto fermo sul ciglio della strada a studiare i miei movimenti, nel buio, prima di decidersi ad attraversare la strada. Scappa, correndo a più non posso, dileguandosi dietro l’angolo, inghiottito dalla notte.
Non dimenticherò mai lo sguardo di Chiara, quel giorno. Sdraiata sulla barella, prima di essere portata in sala operatoria, i suoi occhi mi imploravano silenziosamente di aiutarla, di impedire quello strazio. Mi stringeva la mano, artigliandomela forte, come aggrappata a un’ultima, debole speranza. Io gliela lasciai. La guardai allontanarsi pian piano lungo il corridoio, mentre ancora voltata verso di me, aspettava. Attendeva un mio cenno.
Quegli occhi me li sogno ancora la notte. Mi vengono a trovare ogni tanto, ricordandomi che ho un debito nei confronti della mia coscienza. Ma di questi debiti ne ho accumulati parecchi, ormai.
Da quel giorno Chiara ha cominciato a guardarmi con occhi diversi: non erano più quelli della ragazza innamorata di un tempo, ma erano carichi di disgusto e rancore. In un qualche modo posso dire che quello sia stato il mio primo omicidio. A Chiara ho distrutto la vita e credo che se avesse la possibilità di farlo si vendicherebbe di me in qualsiasi momento, senza nessuna pietà.
È in quell’occasione che ho capito di essere davvero cattivo, che il male divorava la mia anima. Mi piaceva veder soffrire il prossimo, e quale disgrazia peggiore si potrebbe augurare a una persona? Qualcosa che ti si insinua dentro come un tarlo, un martello pneumatico nella mente, che non ti fa dormire la notte in preda all’angoscia più profonda. La mancanza di salute, di lavoro? La solitudine, le pene d’amore?
No. Questi sono tutti problemi risolvibili, con i soldi. Coi soldi compri gli amici, l’amore, ti puoi curare. E non devi necessariamente lavorare per procurarteli.
Pensateci bene, non riuscite a rispondere? Allora ve lo dico io: i debiti. I debiti sono la cosa peggiore che si possa augurare a una persona.
Ho capito presto quale fosse la mia strada, mi piaceva far soffrire la gente, guardarla affogare lentamente, piano piano, sempre più a debito d’ossigeno, strozzata dai suoi stessi problemi. Non era difficile individuare le mie vittime: il bar sotto casa ne era pieno. Bastava farci un salto la mattina, a colazione, per trovare qualche disperato. Chi ha bisogno di soldi ce l’ha scritto in fronte, come un marchio a fuoco. Persone che hanno fatto il passo più lungo della gamba, investendo in attività sbagliate, pensando di costruire le basi per il proprio futuro. Modesti operai e impiegati che si sono accollati mutui per comprare la casa dei loro sogni, che non riescono più a pagare perché sono rimasti senza lavoro. Uomini ricattati dalle amanti. Padri che devono mantenere una nuova bocca da sfamare, dall’arrivo non programmato. Credetemi, ho visto più situazioni limite io di un assistente sociale. Ormai sono un esperto.
È facile individuare le mie vittime, le studio da lontano, seduto al bancone del bar, per un paio di giorni, poi passo alla fase dell’attacco: me le faccio amiche. Ci vediamo tutte le mattine, a colazione, e io le saluto con un sorriso. So essere molto affabile. Divento per loro una faccia conosciuta, un viso amico e, credetemi, nessuno più di una persona disperata ha bisogno di parlare, di venire ascoltata da qualcuno. Io raccolgo le loro confessioni, mi rammarico per i loro problemi e cerco di dare loro una soluzione, indirizzandoli gradualmente, giorno dopo giorno, verso la loro unica via d’uscita. Sì, perché sotto sotto lo sanno che c’è solo una strada percorribile, facile e veloce; bisogna solo convincerli ad ammetterlo. Attenzione, questo è fondamentale: devono arrivarci da soli. Io non mi propongo mai. Quando ormai si fidano di me, il gioco è fatto.
Ancora non avete capito che mestiere faccio? Su, avanti! O avete gli occhi foderati di prosciutto, oppure siete troppo ingenui. Sono uno strozzino, uno strozzino di professione. E non ditemi che questo non è un lavoro, lo è eccome. Nel mio campo, io sono un professionista. Mi sono fatto da solo e ho un bagaglio d’esperienza pluriennale sulle spalle. Modestamente.
Sono ossessionato dai debiti, o meglio, dal farli pagare. Nessuno si è mai sottratto dal restituirmi fino all’ultimo centesimo. E non è un modo di dire, mi faccio dare anche quelli. E che diamine, i soldi sono sempre soldi! Non esiste persona che non mi abbia pagato, nel senso letterale della parola. Voglio dire che quelli che non hanno onorato il debito nei miei confronti ora non esistono più. Non su questa terra.
E adesso toglietevi dalla faccia quell’espressione inorridita, gli affari sono affari. E comunque, per la cronaca, sono davvero poche le volte in cui sono stato costretto a sporcarmi le mani. Sì, perché lavoro in proprio io, e faccio tutto da solo: dalla direzione dell’azienda alla bassa manovalanza.
Non ho bisogno di nessuno, basto a me stesso. Non ho moglie, né figli, né amici. Vivo nell’appartamento di un condominio della periferia di Padova, in zona Arcella. Se ho bisogno di compagnia mi rivolgo alle vicine del primo piano: prezzi modici, pulizia e discrezione. Spesso non si fanno nemmeno pagare e ogni tanto presto loro un po’ di soldi: uno scambio di favori. Nel quartiere sono diventato un’istituzione ormai, sono temuto e riverito. Spesso mi chiedono consigli e faccio anche da mediatore con “soggetti scomodi”.
Non vedo i miei da anni. Non sono mai andato a trovare i miei genitori, e non ho mai fatto loro una telefonata. Mio fratello Giancarlo era il cocco di mamma e papà, il loro figlio preferito, sempre pronto a dar loro manforte e, negli ultimi tempi, ad accorrere in loro aiuto. Un povero illuso, non particolarmente scaltro. Ha messo incinta la fidanzata a venticinque anni e l’ha sposata, riducendosi a spaccarsi la schiena come operaio per mantenere la famiglia. Di sicuro, un uomo senza spina dorsale e senza grandi ambizioni. Sono quasi certo che i miei genitori abbiano continuato a finanziarlo in tutti questi anni.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato al funerale di mio padre. Un infarto secco. La vita sa essere davvero crudele. Ho fatto il mio dovere di bravo figlio, partecipando alla cerimonia, con finta espressione affranta, per poi non rivederli mai più.
Dell’eredità non mi fregava un cazzo. Ho fatto più soldi io in pochi anni che i miei genitori in una vita di lavoro. All’appuntamento dal notaio non mi sono presentato, che si tenesse pure tutto mio fratello. Per me sarebbero stati solo spiccioli.
Ho accumulato un bel gruzzolo, potrei comprarmi quello che mi pare, vivere nel lusso bevendo champagne e facendo il bagno in una Jacuzzi. Invece sono ancora qui, in questo appartamento fetido di un immobile fatiscente, in uno dei quartieri più malfamati di Padova, ma questo è il mio mondo. Qui mi sento vivo, questa è la mia dimensione. Qui respiro cattiveria, odio, guai, illegalità. Povertà e disperazione. Tutto questo è linfa per il mio animo oscuro. Qui trovo le basi per i miei affari, le mie vittime da raggirare, i miei agganci, i nascondigli segreti per i miei crimini.
Mi basta far pagare i debiti, i debiti…
Arrivo sotto casa del Paccagnella, in via Aspetti, dopo aver camminato per un paio di centinaia di metri. È una villetta a due piani un po’ vecchiotta, ma con un bel giardino, che il mio debitore non può più permettersi. Voglio godermi con calma questo momento, non ho nessuna fretta. Questa è la parte più divertente del mio lavoro. Mi accendo una sigaretta, inspirando l’aria fresca della notte. So che la mia vittima è da sola in casa con i figli, la moglie stasera ha il turno di notte.
Mi decido a suonare il campanello, spingo il pulsante a fondo e lo tengo premuto a lungo, volutamente. Voglio essere molesto, svegliare i bambini.
Guardo il mio orologio da polso Tissot Heritage 1973, unico lusso che mi sono concesso in tanti anni di lavoro: sono le ventitré e trentasei, un buon orario per riscuotere un debito in un giorno feriale. Rompi i coglioni, spaventi le persone, le cogli di sorpresa. Nessuno aspetta ospiti a quest’ora.
Noto che il cancellino d’entrata è guasto e rimane aperto, quindi entro senza aspettare che il padrone di casa risponda al citofono. In poche falcate raggiungo il portone di legno logorato dalle intemperie. Anche quello sarebbe da cambiare in questa casa. Busso energicamente, quattro colpi secchi che risuonano nel silenzio che avvolge il giardino scarsamente illuminato.
— Chi è? — sento chiedere dall’interno da una voce maschile, con tono infastidito. Non rispondo. Voglio fargli una sorpresa, una bella sorpresa.
Comincio a spazientirmi. Mi guardo intorno, osservo il terreno secco coperto da rade chiazze d’erba e le poche piante che presentano segni evidenti di trascuratezza. Una semplice rete metallica funge da recinzione alla casa, dalla facciata rovinata e l’intonaco che cade a pezzi. Quest’immobile deve aver visto tempi migliori. Chissà quanto ci potrei ricavare, vendendolo. Sì, perché questo povero cristo non avrà altro da darmi.
Dopo qualche secondo, qualcuno viene ad aprire la porta, lasciandola socchiusa e sbirciando dalla fessura. Una lama di luce illumina il buio del giardino. Infilo la mano nella tasca destra, stringendo il tirapugni che porto sempre con me per qualsiasi evenienza, anche se sono sicuro che col Paccagnella non mi servirà.
— Che cosa vuoi a quest’ora? I bimbi dormono! — l’uomo cerca di usare un tono autoritario, ma la voce incrinata mette a nudo il suo stato d’animo. Paura, ecco cosa prova in questo momento. Con un gesto fulmineo infilo un piede nella fessura tra il muro e la porta e spingo l’uomo in avanti con forza, riuscendo a entrare. Paccagnella ha gli occhi sbarrati e il suo volto è una maschera di terrore. Tutti nel quartiere mi conoscono e chiunque sa che non si sfugge al pagamento di un debito nei confronti di Claudio Schiavon, con le buone o con le cattive. Lo sa bene anche lui, glielo leggo nello sguardo: è in preda al panico. Indietreggia di qualche passo, la fronte imperlata di sudore. Ne approfitto per avanzare verso di lui, rincarando la dose per intimorirlo ulteriormente. — Hai un debito da pagare — gli ricordo con tono minaccioso e aria di sfida.
È palesemente in difficoltà, paralizzato dalla paura. Si guarda intorno come per cercare un appiglio, i suoi occhi saettano da una parte all’altra della stanza. L’ho spinto in un angolo, con le mani appoggiate al piano della cucina, adesso non ha più scampo.
Deglutisce. — Io a-adesso… non ce li ho i soldi — balbetta continuando a sudare.
Sospiro rumorosamente, poi incrocio le braccia, stringendo il mento tra il pollice e l’indice e guardando in alto, pensieroso. — Antonio, Antonio, Antonio… dimmi, cosa devo fare ancora con te?
Lui non ha nemmeno la forza di rispondermi.
Avanzo di un altro passo.
— Non lo sai che i debiti vanno pagati? Mamma e papà non te l’hanno insegnato?
Paccagnella chiude gli occhi, stringendo le palpebre. — Claudio, ti prego… — comincia a supplicarmi con voce tremante.
— No — lo fermo bruscamente, — non pregarmi. Lo sai quello che succede a chi non mi ripaga il debito?
Non ho bisogno di continuare. Lo sa. Lo sa benissimo. Lo capisco dalle sue mani tremanti, dalle gocce di sudore che gli imperlano impietosamente la fronte, gocciolando a terra.
— Dunque, che vogliamo fare? — gli chiedo spazientito.
È questione di un secondo: Paccagnella afferra un centrotavola in cristallo pieno di caramelle, che fino a un attimo fa non avevo neppure notato, e con tutta la forza che possiede me lo scaglia sul capo. Sento il rumore dei dolci caduti a terra e il fruscio dell’incarto a contatto con il pavimento, poi un dolore acuto mi attanaglia la testa e mi fa quasi perdere i sensi. Mi accascio a terra, supino, sangue caldo mi sgorga da un punto della testa che non riesco a individuare. Lo fisso dritto negli occhi, ancora stupito. Mi guarda immobile, incapace di muovere un muscolo, incredulo per ciò che ha appena fatto. La sua coscienza e la sua fedina penale rimarranno macchiate per tutta la vita.
Mi ha preso alla sprovvista. Non me l’aspettavo, lo ammetto. Ero convinto fosse un’acqua cheta, una persona onesta, perbene, che non farebbe male a una mosca. Mi sono fidato della sua faccia da bravo ragazzo, da classico buon padre di famiglia, che non farebbe mai passi falsi di questo tipo perché pensa solo al bene dei suoi cari. Questa definizione, quella di buon padre di famiglia, mi richiama alla mente gli anni di studi di giurisprudenza – peraltro mai conclusi – con il Codice Civile sempre alla mano.
Ho sbagliato, ho commesso un errore fatale. Un padre farebbe di tutto per difendere i propri figli, si tratta di un istinto primordiale, come quello dei lupi per i loro cuccioli. Ma questa è una cosa che io non posso capire.
Rimetti a noi i nostri debiti…
Da quanto tempo non entro in una Chiesa? Forse dal giorno del funerale di mio padre.
La vista mi si annebbia, ma posso vedere chiaramente gli occhi di Chiara puntati su di me. Mi guardano fisso, severi e vuoti. Uno sguardo freddo, glaciale, insensibile. Le sue labbra sono serrate, immobili, in un ghigno di soddisfazione, ma odo chiaramente la sua voce, che risuona dentro la mia testa.
“Il karma, Claudio, il karma.”
Sento le tempie pulsare, ma non provo più dolore ora che anche l’ultimo debito è stato pagato: il mio.