Questa è la terza avventura per l’investigatrice Stella Spada, apparsa sulla scena con “L’Ombra della Stella”, ritrovata poi in “Terra alla Terra”. Questo romanzo si svolge nella periferia estrema di Bologna, in un enorme palazzo grigio cemento, in una zona trascurata e degradata. In questo grande condominio, troppe persone negli ultimi anni sono rimaste vittime di incresciosi incidenti. Stella viene chiamata da una inquilina per indagare su queste morti, apparentemente non collegate tra loro. E Stella indaga, in quel suo modo così personale, fino alla soluzione del mistero. Nel suo percorso si appoggia al commissario Marconi, con il quale ha un rapporto di amore e odio, ma che le è indispensabile per le informazioni che le occorrono nell’indagine. Ritroviamo anche la precedente proprietaria dell’agenzia investigativa, Silvia, uccisa da Stella nel primo romanzo, che continua ad apparire accanto a lei nei momenti meno prevedibili. Molti sono i personaggi che ruotano attorno a Stella, portati all’estremo nella loro caratterizzazione, facenti parte del sottobosco di una grande città.
Primo capitolo1.
Non mi ricordo da quanto tempo sono qui. Qui dove poi? Mi guardo intorno. È un’operazione che ho già fatto almeno qualche centinaio di volte negli ultimi minuti, ma il risultato non è soddisfacente. Potrei essere in un deserto, ma il terreno sotto i miei piedi è solido. Potrei essere in un parcheggio molto ma molto grande, solo che non c’è neanche una macchina. Sotto i miei piedi il suolo è grigio e duro come cemento, sopra la mia testa il cielo è dello stesso colore, la stessa aria che respiro mi pare grigia e densa come nebbia. Però mi sento bene, non ho freddo, né caldo, né fame. Non sono stanca e non ho nemmeno male di testa, questa è la cosa che mi stupisce più di tutte. Sono calma, non mi preoccupa affatto essere qui in mezzo al niente a fare… cosa devo fare? Se sono venuta fin qui un motivo ci sarà. Cammino senza fare rumore verso altro grigio. Il mio passo è leggero, non lascio neanche le impronte. Mi guardo i piedi scalzi, poi risalgo. Sono nuda. A parte una grossa fasciatura che mi copre parte dell’addome e del busto. Al centro una larga macchia rossa. Nemmeno questo riesce a preoccuparmi, mi viene solo in mente una riflessione effimera: devo rinnovare lo smalto sulle unghie dei piedi, nell’alluce destro è un po’ saltato via. È un pensiero veramente scemo, ma prendere contatto con il mio corpo mi dà soddisfazione. Guardo avanti e sorrido, senza un motivo. C’è una linea all’orizzonte, finalmente qualcosa in mezzo al niente. Corro per raggiungerla, e quando arrivo riesco a stento a frenare la mia corsa. Non è una linea qualunque, è un bordo. Per l’esattezza il bordo del grigio sul quale cammino. Mi affaccio a vedere sotto cosa c’è. Non vedo il fondo, solo una grigia e infinita parete che scende perpendicolare al suolo verso il nulla e si perde nel grigiore in lontananza. Per fortuna che mi sono fermata, altrimenti ora starei scendendo in una grigia caduta senza fine. Mi sdraio, mi affaccio e rimango a guardare in basso. Non un rumore, nemmeno il sibilo del vento. Niente. Dovrei preoccuparmi ma non ci riesco. Sono calma nonostante tutto. Pure troppo calma. Decisamente da questa parte non si prosegue. Mi alzo per tornare indietro. Ho lasciato una macchia rossa sul pavimento, unica nota di colore in tutto questo grigio. È bella però, sembra quasi una rosa in un giardino. Sorrido alla stupidità dei miei pensieri, mi giro e comincio a camminare. Mi sembra di cogliere un movimento. Ma sì, c’è una donna che arriva correndo. Sono così felice di vedere qualcuno che comincio a sbracciarmi:
«Ehi, ehi, sono qui, mi vede?» Non sembra proprio, continua a correre. E dire che mi passa vicina, tanto vicina che potrei quasi toccarla. «Non corra da quella parte! Si fermi! C’è il precipizio lì in fondo!» Ma questa pare non sentirmi affatto. Continua a correre vestita solo di un grembiule da cucina. Sta piangendo, chissà perché.
«Si fermi! Attenta, si fermi, la prego!» Non si ferma. Arriva al bordo e continua nella sua folle corsa di morte. Si lancia verso l’abisso infinito. Mi affretto verso di lei, nella vaga illusione di poterla salvare. Mi aspetto di vederla fluttuare nell’aria grigia e densa. Riesco solo a vedere i suoi occhi neri e sgomenti che mi fissano mentre precipita sempre più veloce, fino a diventare un puntino e sparire nel grigio nulla. Continuo a rimanere affacciata qualche istante, poi mi rialzo. Ora non sono più tanto calma. Il cuore mi batte forte nel petto, sembra quasi voglia uscire dallo sterno, il fiato mi brucia nella gola come se invece dell’aria stessi respirando la lava di un vulcano. Le lacrime della donna cadendo sul terreno grigio e freddo hanno fatto nascere cespugli di rose rosse. Bellissime. Non hanno foglie, solo fiori. E spine. Una fila di macchie rosse che arriva sul bordo del precipizio. Ora sto piangendo anch’io. Sto malissimo e ho paura, una fottutissima paura di morire. Mi porto le mani alla gola, è sempre più difficile respirare. Tossisco, sputo, rantolo.
«Dottore! Chiamate un dottore, presto. La mamma sta male!»
Chi ha parlato? Quale mamma? Non riesco a pensare, sono troppo impegnata a cercare di fare entrare aria nei miei polmoni. Sempre che il cuore non esploda prima. Nel frattempo vomiterei anche volentieri.
Mi sento afferrare, girare, il tubo mi viene tolto dalla gola. Finalmente! Aria! È meraviglioso respirare a pieni polmoni.
«Ha cominciato a respirare in autonomia, un ottimo segno.»
«Sta dicendo che è fuori pericolo?»
«Non sto dicendo niente, non vorrei dare false speranze. Però ci sono delle possibilità, e questo è più di quanto ci aspettassimo, data l’entità delle ferite.»
Ma di chi stanno parlando questi? Mi importa poco in fondo. Ora che sono tornata a respirare anche il cuore pare tornato a battere con un ritmo accettabile. Che spavento mi sono presa. Magari posso anche riposarmi un pochino. Mi stendo e guardo il cielo grigio e uniforme. Potrei pure dormire, perché no, tanto non ricordo di avere nessun impegno. Chiudo gli occhi.