Cosa fare quando ci si ritrova faccia a faccia con la morte? Combattere. Il 20 novembre dell'anno 2016 è un giorno come un altro, una domenica anonima e cupa. Due giovani amici seduti al tavolo di un bar parlano ma qualcosa di imprevedibile e surreale è in agguato.
Una serie di omicidi. Tutti intossicati. Un virus o un batterio letali?
In città c'è un clima di terrore che fa pensare: "Sarò forse io, il prossimo?". Aaron e Isaac indagano. Trovano il filo rosso che unisce gli omicidi: l"'Avidità" nera e bieca, strisciante come un serpente. Aaron e Isaac, due giovani eroi, vogliono lottare. Affrontano peripezie, incontrano nuovi e inaspettati amici, si meravigliano.
Vengono a conoscenza di nuove Verità, a cavallo tra l'umano e il divino.
Primo capitoloNon si ha mai la piena consapevolezza di quanto sia prezioso questo dono che noi chiamiamo vita, finché non si arriva al punto di perdere tutto definitivamente. Attimi poco prima di morire ci accade una cosa insolita: il nostro cervello mettendo in moto una sequenza di immagini, ci fa rivivere tutti i momenti della nostra vita, uno ad uno, fino a quel preciso istante, ed il tutto in un centesimo di secondo. È in questo modo che ricordai tutto ciò che mi accadde fino al momento in cui sentii l’apice massimo dell’adrenalina, l’ apice massimo del terrore di dover raggiungere un “qualcosa al di là” di ciò che si conosce: la morte. È scritto nel nostro codice genetico, come in quello di tutti gli esseri viventi; ma non per me, non potevo morire in quel modo, non io. Il 20 novembre dell’anno 2016 fu davvero un giorno particolare. Era una cupa domenica, e me ne stavo tranquillamente seduto in un bar con una tazza di caffè tra le mani. Pensavo e guardavo il mio riflesso nel caffè. Nella mia vita mi sono trasferito molte volte in luoghi diversi, e col tempo ho imparato a non affezionarmi a quegli scenari passeggeri che mi circondavano. Sono sempre stato una persona molto emotiva, e ogni volta mi ritrovavo in lacrime seduto sui sedili dell’ automobile nera di mio padre, perennemente indaffarato col suo lavoro da agente di borsa, ignorando completamente la mia crescita emotiva. Nel corso del tempo sviluppai un’insofferenza via via crescente per tutto ciò che mi circondava. Diventai ostile ed impaziente verso qualsiasi cosa andasse contro i miei schemi o la mia volontà. Tuttavia, crescendo riuscii a reprimere queste emozioni negative e mi iscrissi all’università di lettere senza troppe difficoltà. Da un po’ di mesi vivevo in una piccola casa posta nel mezzo di un’interminabile fila di altre abitazioni a schiera, e dividevo l’affitto con un singolare personaggio, seduto davanti a me in quel momento. Nascondeva gran parte dei suoi capelli scuri sotto un berretto di lana. Due occhiaie bluastre rendevano i suoi occhi grigi ancora più spenti. Aveva un colorito cadaverico e rifiutava qualsiasi attività che richiedesse eccessivi sforzi fisici. Aveva una paura quasi morbosa per i microbi, virus e malattie, tanto che usciva di casa solo se aveva con sé la sua mascherina bianca che, combinata al berretto, copriva quasi completamente il suo volto, stanco e segnato da notti insonni. Mi fissava con un’espressione di sdegno, mentre giocherellava con l’elastico della sua mascherina: “Mi dai sui nervi quando lo fai…”. Stavo versando lo zucchero nel caffè. Non era l’azione in sé ma il quantitativo di zucchero che stavo sciogliendo nella tazza a dargli fastidio. Impazzisco per i dolci e sono solito mettere zucchero in qualsiasi bevanda che non lo contenga, raggiungendo spesso le cinque o sei bustine per una sola tazza. “Sei disgustoso… Ormai sei dipendente da un veleno letale. Stai davvero cercando di ucciderti o sei soltanto stupido?”. Anche se non lo dimostrava apertamente, si preoccupava davvero per la mia salute, sebbene ignorassi spesso i suoi consigli. Gli sorrisi per beffeggiarlo. “La vita è una sola, e se dovessi passarla a stare attento agli effetti collaterali di tutto ciò che faccio sarebbe un inferno… Vuoi un consiglio spassionato? Rilassati. Sorridi, e la vita ti sorriderà”. Mi rispose con un’aspra smorfia. Si avvicinò un ragazzo al tavolo con un piccolo vassoio, portando la sua ordinazione: “Single Barrel”, whisky. Dopo aver leccato tutto lo zucchero rimasto sul fondo della tazza, fulminai il mio compagno con lo sguardo. “Ma guardalo… Vieni a parlarmi di veleno e poi bevi quella roba. Sul serio?”. Tenne gli occhi sul bicchiere, mentre strofinava accuratamente il bordo con un fazzoletto. “Non sarà il massimo, ma mi aiuta molto. È un ottimo disinfettante, aiuta a digerire, a socializzare, e poi io bevo per piacere, non per necessità…”. Si bloccò. Stava guardando nel bicchiere… No, non il suo interno, ma il riflesso sulla sua superficie. Alle sue spalle c’era un uomo, seduto da solo ad un tavolo nell’angolo del locale. Ci stava fissando. Aveva un’espressione strana e continuava a girarsi intorno, come se dovesse guardarsi da qualcosa. Quando si accorse che lo stavamo osservando, distolse immediatamente lo sguardo. Che gente strana che c’è in giro. Ignorai la cosa e trascorsi l’intera serata a chiacchierare. -“Allora, novità? Ragazze?”. Mi guardò apaticamente, agitando il suo bicchiere. -“No. Tu?”. “No, nemmeno io.” Rimase sorpreso. “Ma come? Nessuna ragazza? Uno come te che se ne sta tutto solo? Questo sì che è strano”. Lo interruppi immediatamente: “Ho detto che non voglio una ragazza.” Dopo battibecchi, discussioni e pettegolezzi vari, mi si avvicinò con fare circospetto chiedendomi: “Aaron. Tu sai cosa sta succedendo?”. Sollevai il sopracciglio. “Non do molto credito alle voci di corridoio. Non ho il tempo, né la voglia. Che succede?”. “Tu mi conosci, sai che non do peso alle paturnie della gente di quartiere… Ma se non fosse una cosa seria non te ne parlerei. Nell’ultima settimana sono morte quattro persone, e la polizia sta mandando delle volanti a pattugliare tutta la città…”. Poggiai la tazza e cominciai ad ascoltare con più attenzione. Aveva destato il mio interesse. “Accidenti… In effetti ho notato la presenza di più poliziotti nelle strade, ultimamente. Ma come sono morti?”. Lui continuava a contemplare il suo bicchiere. Non bevve nemmeno un goccio. Piegò accuratamente il fazzoletto e lo mise via, dopodiché pose i suoi occhi alla sulla mia tazza, ormai vuota. “Intossicazione.” Impallidii. Il mio respiro si fece affannoso e iniziai a sudare freddo. Il modo in cui aveva pronunciato quella parola e il modo in cui stava fissando la tazza mi misero in agitazione. “Quattro decessi in una settimana sono tanti. E per di più tutti sono avvenuti in circostanze simili: avvelenamento.” Stavo andando in panico. “Ma ovviamente potrebbero essere soltanto delle coincidenze… Sai, i tempi sono cambiati e dobbiamo fare attenzione a quello che mangiamo. Ormai è tutto pieno di coloranti, conservanti, antibiotici… Disgustoso!”. Una parte di me avrebbe già infilato un paio di dita in gola per vomitare e sperare di salvarsi da una lenta e dolorosa morte, ma l’altra parte, quella raziocinante, mi tratteneva dicendo: “Perché mai il tuo caffè dovrebbe essere avvelenato? E soprattutto, se davvero lo fosse, sarebbe inutile tentare di vomitare: avrebbe già dovuto fare effetto. Sei fuori pericolo.” Lucidità. Avevo bisogno di lucidità. Ecco perché non aveva toccato l’alcool… Eppure mi aveva lasciato bere, quel maledetto! Mi ricomposi. “Dunque, fammi capire bene. Secondo te queste persone sono morte per intossicazione, magari a causa di qualcuno, e per questo motivo la polizia sta prendendo provvedimenti pattugliando giorno e notte i quartieri di tutta la città?”. Fece un sorriso compiaciuto. Passava gran parte del suo tempo collegato al computer e aveva fatto delle ricerche. Era sul web che si informava di ciò che accadeva al di fuori delle mura di casa e scorrendo tra le varie news gli era saltato all’occhio quel minuscolo e a prima vista insensato particolare: quattro persone decedute, e tutte nelle stesse circostanze. Erano soltanto supposizioni, ma più passavamo il tempo a parlarne e più ci sembravano plausibili. Poteva essere veleno, droga, o magari anche un virus, una malattia che avrebbe potuto potenzialmente colpire chiunque. Uscimmo da quel bar colmi di ansia e nervosismo. Il mio compagno mi guardava silenzioso camminando, con il volto coperto dalla sua mascherina bianca. Era al sicuro, mentre io mi coprivo la bocca con le mani. Soffiavo, così da far sembrare che mi stessi riscaldando, invece di coprirmi per paura di inalare qualcosa di tossico. Ormai ero vittima della paranoia: se da un lato pensavo che fosse bastato un semplice respiro di una sottile e impercettibile polvere per fare una fine orribile, dall’altro credevo di starmi facendo problemi inutili. E se fossero soltanto comuni decessi? Casualità! Ma se il mio amico avesse avuto ragione? Eppure mi sembrava così tranquillo… Per una volta la sua fobia mi sembrava fondata. A sera inoltrata, raggiungemmo la nostra abitazione e ci promettemmo di non parlarne più. Eravamo soltanto stanchi e non ci avrebbe fatto bene continuare a pensare. Accesi la tv, in cerca di qualcosa per liberare la mente, ma finii per guardare le news che trasmettevano in serata. Sobbalzai dalla poltrona: era in onda una ripresa che mostrava un’autoambulanza ferma davanti all’entrata di un famoso e prestigioso ristorante: “Blue Blood”. Due uomini erano appena usciti dal locale, portando con sé una barella, sulla quale era disteso un corpo coperto da un lenzuolo bianco. In sovrimpressione scorreva una scritta: “Deceduto ricco imprenditore. Possibile causa della morte: intossicazione alimentare. Sospettato coinvolgimento dello chef. Il celebre “Blue Blood” resterà chiuso per motivi sanitari.” Urlai a pieni polmoni: “Isaac! Vieni immediatamente qui!”. Lui si catapultò in salotto, e prima che potesse chiedermi cosa stesse succedendo, sbiancò davanti alla notizia sconcertante. Nel frattempo, una folla si era riunita attorno all’autoambulanza, che in un attimo ripartì, per portare via la salma dell’uomo. Venne intervistata una donna visibilmente traumatizzata, con le lacrime agli occhi. Iniziò a balbettare freneticamente: “S-stavamo tutti mangiando e-e-e poi… E p-poi ad un certo punto la l-luce è andata via. Saranno stati dieci o venti secondi s-secondi. Quando la luce si è riaccesa, i-il signor S-Stanford era steso a terra. Non si muoveva più. Oh, mio Dio… Sto per svenire. ” La donna ciondolò avanti e indietro, tenendosi la fronte con le mani, dopodiché cadde al suolo, priva di sensi. Le sollevarono le gambe e le fecero annusare dei sali profumati per farla rinvenire. La folla si disperse non appena le acque si calmarono. Era senza dubbio un ristorante di classe, a giudicare dal nome scritto sull’insegna bluastra e dall’abbigliamento dei clienti. Ero paralizzato, mentre le immagini scorrevano davanti ai miei occhi: lo chef fu ammanettato e trascinato in una volante di polizia. Guardai Isaac. Anche nei suoi occhi c’era un principio di terrore. Avevamo assistito ad un’altra “vittima”. Se quattro persone potevano risultare una coincidenza, un quinto individuo rendeva le cose mostruosamente più probabili. Avevo le mani appiccicate al viso, coprendomi la bocca per la paura, la paura folle di finire come quell’uomo o come gli altri quattro, ormai esposti sul necrologio. Ci fissammo per un attimo, spegnemmo il televisore. Sentimmo che quello sarebbe stato il preludio di qualcosa di orribile. Durante la notte, mille domande attanagliarono la mia mente, impedendomi di riposare: “C’è davvero qualcosa che sta avvelenando le persone? È nel cibo? Nell’aria? Trasportato dal vento o è nello smog del traffico? E se invece fosse qualcuno? Lo chef? No… La morte aveva preso persone in altri luoghi della città. E se non fosse stato lui, chi sarà stato? E perché lo sta facendo? Sarei stato il prossimo? Sarei morto?”. Una nottata infernale, passata camminando furiosamente avanti e indietro nel mio salotto, sedendomi per qualche secondo sulla poltrona di pelle e mangiando caramelle e cioccolatini dalla mia scorta. Soltanto dopo tanto, tantissimo tempo, percepii un accenno di sonno, ma avevo il terrore di addormentarmi e di non risvegliarmi mai più. Stavo diventando paranoico e anch’io, come il mio coinquilino, iniziai a temere l’ambiente esterno. Dopotutto, se la causa dei decessi fosse stata “naturale”, quello che poteva essere un potenziale veleno era ormai nell’aria di tutta la città. Se invece era frutto dell’agire di una persona, considerando il suo raggio d’azione era qualcuno di davvero pericoloso, di fronte al quale avrei potuto solo soccombere. In qualsiasi caso, sarei potuto morire in una maniera terribilmente dolorosa e pietosa. Riflettei tutta la notte e mi sorse un’altra domanda: “perché era stato colpito proprio quell’uomo?”. Feci una piccola ricerca e trovai qualche informazione. Era Jacob Stanford, vecchio e ricchissimo imprenditore commerciale che aveva acquistato parecchi locali nei dintorni. Ricco, potente e con un divorzio alle spalle. Magari sarà stata la moglie? Magari avrà avvelenato il suo cibo? Non mi sembrava di averla vista in televisione. No, non era presente quella sera al Blue Blood. No, non avrebbe avuto senso. Si era risposata con un tipo ambiguo, un famoso stilista, il classico tipo fuori dagli schemi e appariscente. La felicità non le mancava, e a quanto sembrava nemmeno i soldi. Per tutta la notte, cercai qualche informazione riguardo le prime quattro persone decedute nel corso della settimana. Rimasi collegato al computer per ore ed ore, finché non trovai qualcosa che potesse essere riconducibile ad una pista. Il mio sguardo si illuminò di un insolito bagliore: era “avidità”. Volevo andare in fondo a quella storia nonostante i possibili rischi che avrebbe comportato. Soltanto quando le prime luci dell’alba entrarono dalla finestra, smisi di fare le mie ricerche e crollai inevitabilmente in un lungo e tormentato sonno.