Questi dodici racconti spaziano dal grottesco al visionario, dalla satira alla prosa poetica, dai temi della denuncia sociale allo scavo nell’interiorità, offrendo uno spaccato preciso e inquietante dei nostri giorni. Partendo dal Veneto, svestono le maschere e gli abiti da festa di un’Italia ferita da una crisi culturale verticale, ma che non ha ancora smarrito nella sua parte migliore la tensione ideale e l’energia per resistere.
Primo capitoloNei portici lunghi (intermezzo)
Sol fulget aqua ruit silens loquor
Motto inciso nella meridiana presso il ponte S. Agostino
A Padova pochi guardano il cielo. I bambini, subito però richiamati dalle mamme a stare attenti a dove camminano; qualche turista; un’anziana ogni tanto, a passeggio, mentre fa riposare sé e il suo bastone. Eppure, oltre le poche nuvole, a inizio aprile non c’è nulla di più avvenente e misterioso del cielo. Da lassù strie di sole si riverberano sui pavimenti adorabilmente diseguali, nei portici lunghi, a schermare l’io d’ogni giorno mentre, tra sminuzzamenti di frasi e gesti altrui, erge la maschera. Il pomeriggio, dopo il mercato, quando la camerierina gira per i tavoli della Piazza per le comande, i passanti sono più lenti ma più sereni, soli, in gruppo o con il loro cane. Un orizzonte invisibile freme in qualche vagito di infinito – ma l’infinito non c’è! Ci sono i tetti delle case, i profili delle mura antiche, i pertugi oltre gli scuri e le finestre aperte, nel tepore senza vento di un’ora quasi quieta; le arcate del Palazzo della Ragione e un po’ più in là le guglie del Santo. Eppure permane un insopprimibile fremito vivo, nell’andar delle bici nelle piazze, negli sguardi complici tra i nonni e i nevódi, nei gruppi di studentesse che ridono, nello studente in jeans un po’ affannato. Dentro la città, in primavera e in autunno, l’inatteso pulsa sempre, ti si pone di fronte quando e dove non sapevi e non sai. Una sonata di Tartini che solo per te echeggia fuggevole sul selciato. Baleni da riconoscere e custodire, in un impeto nobile di pazienza.
Perché la gente qui non ride, semmai mastica amaro. Il gesto scontroso, il sorriso plebeo. Sospiri, tensioni e quartieri differenti vivono a distanza di un angolo; gioie e rancori incomparabili rischiano di incrociarsi senza sapersi parlare. Tra orologi, tabaccherie e banche, il pacchiano negozio di moda al posto della vecchia libreria, tacchi che ticchettano, chi vende e chi compra, lo studente che festeggia un esame nel prossimo bar con gli amici, lo strepitio acefalo laido dei cellulari. Ma ubriacatevi, su! esortava il Poeta. E allora scavalcando il recinto, alzando la cloche senza più remore, ecco l’armonia improvvisa e lieve, l’epifania del respiro di verità, sui vicoli timidi come all’entrata del vecchio hotel, o nello sguardo svenuto alle cascatelle di ponte Sant’Agostino, umili e ricche di un borbottio il cui lamento si eleva disvelato e leggero in luminoso silenzio. Ed è la bellezza che non si dichiara né splende, emana bensì nel palpito sospeso, fiamma nel lucore che ti guarda e accompagna.