C’è chi dice che le leggende che parlano di Steev il Pirata e Riqi il Bucaniere siano solamente fantasie, frutto di una follia prodotta da un vecchio pazzo chiuso in una casetta di marzapane in mezzo a una foresta del Congo. Ma posso assicurarvi che ciò che qui è narrato è tutto assolutamente vero. Ve lo posso assicurare perché io ero là.
Da tempo i nomi di quei due valorosi combattenti vagavano per i Sette Mari, ma di certo non pensavo che il mio destino sarebbe andato a sbattere contro di loro, spiaccicandocisi come il burro sul pane. Fu quindi un caso se finii, in un modo o nell’altro, in entrambe le loro ciurme, vivendo mirabolanti avventure e sconfiggendo terribili nemici.
Se questo verbo è arrivato fino a voi, significa che i miei scritti si sono conservati nel tempo, e che qualche prode è riuscito a trascriverli. Ma, nel tempo in cui li leggerete, io sarò già morto, cullato dalle sogliole, da qualche parte nel fondo dell’oceano.
Gli autori
Paolo Casarini e Davide Ferrari sono due studenti del Liceo Scientifico delle Scienze Applicate a Modena.
Mentre per Davide “Le Poderose Avventure di Steev il Pirata e Riqi il Bucaniere” rappresenta il primo approccio al mondo letterario, Paolo ha già esordito come scrittore con il romanzo breve L’ombra dell’isola. Amici da tempo, si sono impegnati a mettere per iscritto avventure piratesche derivate dalle leggende nate quasi per caso all’interno della loro classe.
Primo capitolo
Capitolo I
Di come finii nella ciurma di Riqi il Bucaniere
Ricordo poco del giorno in cui divenni parte della ciurma di quello che si faceva chiamare Riqi il Bucaniere. Scesi dalle scale della locanda dove soggiornavo e mi avvicinai al bancone. Il tiepido sole mattutino illuminava debolmente la sala da pranzo del locale. Chiamai l’oste.
Costui era un uomo robusto, con una folta chioma scura sul capo.
«Buongiorno, signore» mi disse.
«Buondì» risposi io. «Mi chiedevo se aveste qualcosa da mangiare. Non so, un pezzo di pane e del formaggio, o una qualche vostra pietanza che mi rinvigorisca.»
«Un momento che chiedo» disse l’uomo, voltandosi verso una piccola porta che doveva nascondere la cucina. «Dedou!» gridò. «Abbiamo ancora del pane e del formaggio?!»
«Sì, Paulk!» urlò qualcuno in risposta.
L’oste tornò a voltarsi verso di me. «Vi porto subito ciò che mi avete chiesto.»
Quel formaggio sapeva di avventura, o forse era soltanto la muffa che lo ricopriva. Sta di fatto che poco dopo scorsi, seduto in uno dei tavoli più oscuri della taverna, un volto familiare che portava una grande cicatrice rossa lungo l’occhio destro. Era Mastro Mak, uno dei più esperti navigatori dei Sette Mari. Aveva viaggiato da Singapore allo stretto di Magellano, da Cuba a Torre Annunziata, e il suo nome riecheggiava con solenne riverenza nelle taverne della Tortuga.
Lo raggiunsi.
Le spalle di Mastro Mak occuparono prontamente la mia visuale. Egli era un uomo grande come un armadio e possente come una quercia, con la quale veniva paragonato anche per la sua larga chioma riccioluta; chiunque aveva paura della sua temibile forza.
«Qual buon vento dei Sette Mari ti porta qui, caro Mastro?» gli chiesi.
Lui spalancò gli occhi e allungò la mano per salutarmi. Sul tavolo giaceva il suo consueto boccale di birra. «È incredibile rincontrarti» disse. «Non pensavo ci saremmo più rivisti, mio caro…»
Improvvisamente, la porta della taverna si spalancò. Mi voltai e dall’esterno entrò un uomo molto basso, dall’aria bellicosa, che io e il mio compagno riconoscemmo immediatamente. Era Tom Ans, un nostro vecchio compagno di avventura, un vero guerrafondaio. Un vero pirata.
Lungo i fianchi portava appese decine di coltelli di varie dimensioni, che dondolavano ad ogni sua mossa. Da bravo tedesco qual’era si gettò subito sull’oste.
«Per la barba di una sputacchiera ammaccata, portami del rum!»
Mentre Tom Ans si sgolava galloni di alcolici, io e Mak gli andammo incontro per salutarlo e ci sedemmo al suo fianco.
Appena ci riconobbe, urlò: «Per mille crafen allo scoglio!» e ci abbracciò. Quando Tom non era ubriaco (e ciò accadeva molto raramente) era un uomo molto cordiale e disponibile, per niente litigioso. Ma quando alzava troppo il gomito cambiava completamente, e i suoi coltelli si trasformavano da oggetti ornamentali a macchine da guerra.
«Per quale barba ti trovi qui?» gli chiese Mastro Mak.
Tom Ans si passò il dorso della mano sulle labbra. «Mi trovo in città per fare rifornimenti» ci disse. «Lavoro per la ciurma capitanata dall’uomo che si fa chiamare Riqi Il Bucaniere. Siamo sulle tracce di una nave oscura e veloce, di cui nessuno sa niente al di fuori del fatto che sia oscura e veloce.»
Sentendo queste parole, un brivido risalì lungo la mia schiena, riportandomi nel cuore il desiderio di tornare per mare, impugnare saldamente le funi che pendevano dall’albero maestro e dondolarmi lentamente cullato dal mare. Tuttavia, mi accorsi che il brivido era dovuto a un bicchiere di rum che mi era stato lanciato addosso da un omone dalla dubbia origine che puntava a colpire un suo rivale.
All’interno del locale scoppiò una rissa. Io e i miei due compari ci dovemmo fare strada a suon di cazzotti per uscire dalla taverna prima che le autorità locali venissero a calmare le acque.
Quando fummo usciti, Tom ci invitò a salire a bordo della loro nave.
«Così avrete un posto dove dormire, per la barba della mia barba!» ci disse.
Arrivati al porto, ci trovammo dinnanzi a un enorme galeone rosso munito di gigantesche vele: con quella poderosa imbarcazione avremmo potuto superare qualsiasi tempesta, qualsiasi urto e qualsiasi battaglia; peccato solo che la nave di Riqi fosse quella di fianco. Essa era comunque un’ottima nave, di buona stazza, armata fino ai denti. Di colore bianco sporco, sopra il suo albero maestro ondeggiava una bandiera nera sulla quale era disegnato un teschio bianco che indossava una benda a coprirgli l’occhio destro. Nella parte anteriore dello scafo stava scritto “Squalo Bianco”.
Tom tentò di salire sulla nave, ma mentre percorreva lo stretto ponticello scivolò accidentalmente sul legno bagnato e finì in acqua. Quando fu in grado di risalire, era completamente zuppo.
«Venite» ci disse, strizzandosi i vestiti. «Chiederò a Riqi il permesso di farvi dormire sottocoperta. Ma occhio a Eddy.»
Non chiesi chi fosse Eddy, e seguii Tom Ans sul ponte della nave.
Avevo appena poggiato i miei piedi sul legno dell’imbarcazione quando un grido proveniente dalla cabina del capitano attirò la mia attenzione. Dalla cabina stessa uscì sbraitando un uomo, alto e magro, che imprecò in mille modi ogni dio del mare che gli passasse per la zucca. Non era molto alto, e, coperta in parte da lunghi capelli castani, una benda nera gli oscurava l’occhio destro.
Era Riqi il Bucaniere.
Come se parlasse con se stesso, il capitano gridò: «Abbiamo bisogno di un nuovo navigatore, per la vela del pappafico!».
Tom Ans si avvicinò, lasciando pozze d’acqua dietro di lui. «Buongiorno, capitano!» disse. «Vi chiedo di dare vitto e alloggio a questi due miei compagni.»
Il capitano lo guardò con aria di sfida, poi disse: «Solo perché me lo chiedi tu, Tom. Tuttavia, devo informarti che è morto uno dei nostri navigatori.»
«Di nuovo?»
«Esattamente. Questa notizia sconvolge anche me.» La sua espressione non sembrava tradire alcuno stupore. «Ma non dobbiamo piangere i caduti. Ci servono nuovi marinai.»
«Perfetto!» esclamò Tom. «Ho proprio quello che fa per noi. Ti presento questi due miei amici, Mastro Mak e…
«Argh!» ringhiò il capitano. «Proprio quelli che stavo cercando. Venite, compagni, è il momento di presentarsi ».
Mi ritrovai quindi per caso nella ciurma di Riqi il Bucaniere.