“Perché la verità è questa, questo è il macigno che opprime il mio cuore. Con l’autorizzazione della legge, le grida isteriche della folla, la vendetta inutile dei parenti delle vittime, io uccido”.
Il romanzo è ambientato in Francia nel periodo della pena capitale. Il protagonista è Bastian, figlio di Clément Vailant, boia del paese e Rosa Picone.
Bastian il cui destino sembra segnato. Figlio di boia, il mestiere gli verrà tramandato dal padre. Mestiere infamante per la gente “perbene”, la stessa che assiste alle esecuzioni incitando alla violenza.
Fin da piccolo Bastian subisce le angherie dei compagni di scuola che cessano solo in prossimità delle esecuzioni capitali. L’unico suo conforto è l’affetto della madre Rosa che sogna per il figlio un destino diverso da quello a cui sembra destinato.
Bastian a sette anni ha già imparato a mentire per proteggere la madre, troppo fragile per affrontare la realtà. La rabbia cova nel cuore del piccolo Bastian che giura a se stesso che non farà mai il mestiere del padre, anche se il destino non sembra lasciargli nessuna possibilità di scelta.
Adolescente viene accompagnato dal padre alla Maison Mimì, una casa d’appuntamento dove conosce Lavinie, una prostituta, una “diversa” come lui. Fra loro nasce una solida amicizia che durerà negli anni.
Bastian lotta con tutte le sue forze per non fare il boia. Un giorno mentre lavora in un negozio di frutta e verdura incontra Genevie, una giovane e bella zingara, e fra loro è subito amore. L’incontro fra due anime gemelle. L’incanto però durerà poco e Bastian dovrà affrontare difficoltà e immensi dolori prima di trovare la sua strada.
Un romanzo denso di emozioni che fa riflettere sulle problematiche etiche e sul significato di diversità.
Un romanzo dove l’emarginazione e la solitudine vengono sconfitte solo dall’amore e dall’amicizia. Le uniche in grado di squarciare il muro di omertà e rifiuto innalzato dall’ignoranza e dal perbenismo bigotto.
Un romanzo che sorprende per la sua trama originale e un finale inaspettato.
Capitolo 1
Ma non vedrà certo negozi di aquiloni,
né qui né da nessun’altra parte.
Il tempo degli aquiloni è finito.
( Klaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni)
Il primo sasso mi passa a pochi centimetri dalla tempia. Più che un sasso è un impasto di terra argillosa, quella terra grigia e opaca che si trova vicino allo stagno dove i ragazzi vanno a giocare nelle afose giornate estive.
Non mi colpisce, ma so di non avere scampo.
Sento i loro passi, sempre più vicini e i miei sempre più stanchi.
Mi volto per vedere la distanza che mi separa dai miei inseguitori e noto che nel gruppo c’è anche Stephane.
In fondo al gruppetto, con il ciuffo biondo che scende a coprirgli gli occhi e l’aria di chi vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
“Guardate come corre, sembra una lepre” la voce di Juan sovrasta le altre. Riconosco il tono sprezzante con cui si diverte a tormentarmi ogni giorno a scuola.
“Bastian scappa, tanto non ci sfuggi!”, le risate di scherno mi inseguono, mentre inizio a correre. Non vorrei, ma l’istinto di sopravvivenza è più forte.
Cerco di scansare i sassi, ma non riesco a schivare tutti i colpi. Porto una mano alla guancia, la pelle brucia, mentre, alle mie spalle, le risate di scherno aumentano di tono.
Sono sicuro che è stato Juan a colpirmi.
Il dolore è lancinante e, per un attimo, chiudo gli occhi. Quando li riapro Juan e gli altri bambini non ci sono già più.
Per oggi si sono divertiti abbastanza.
Passo le dita sulla guancia, avverto al tatto un leggero gonfiore. Una smorfia amara si disegna sul mio viso. Non posso nasconderlo, come non posso nascondere la guancia arrossata.
Mi chiamo Bastian Vailant e sono figlio di Clément Vailant e Rosa Picone.
Vivo in un piccolo paesino della Francia, ammesso che si possa chiamare paese un gruppetto di case spruzzate su una collina percorsa da una strada sterrata, con una chiesa e qualche negozio.
Abito quasi fuori paese, vicino alla fontana vecchia, l’ultima casa senza giardino, senza patio e sempre con le tende abbassate.
Una casa con uno stretto cortile, circondato da un alto muro, che dalla strada non si vede. Una stretta striscia di terra fangosa dove mia madre coltiva fiori e ortaggi e, a volte, guarda il cielo, lontana dagli occhi del mondo .
La gente mormora sia il luogo dove si allena mio padre per il suo lavoro.
Mio padre che non fa il falegname, il maestro o il medico, ma il boia.
La nostra è la casa del boia, la fontana è la fontana del boia e io sono il figlio del boia.
Un marchio infamante che mi accompagna dalla nascita, che fa di me uno da evitare ad ogni costo.
Non ho ancora smesso di correre e il cuore sembra scoppiarmi. Mi fermo vicino ad un campo dove crescono spontanee le ortiche, per riprendere fiato.
Porto una mano al petto, mentre ansimo e sputo la rabbia insieme alla saliva.
Le ortiche mi sfiorano le gambe e mi viene in mente di strofinare alcune foglie in faccia, nella speranza di coprire il danno fatto dall’argilla.
Ne raccolgo alcune e le strofino con forza sul mio viso. Quando inizio a sentire pizzicare la pelle, getto a terra le foglie ormai ridotte a poltiglia e mi avvio verso casa.
Le bolle si saranno già formate.
Non voglio che mia madre si preoccupi, anche lei vive come un’appestata, ma riesce a sopportarlo se io continuo a frequentare la scuola e a recitare la parte che mi è stata assegnata nella commedia che ci siamo inventati io e lei: fare finta che tutto vada bene.
Mi vede tornare con i vestiti stracciati, i graffi sul viso, sa delle continue angherie che subisco a scuola, del fatto che tutti mi evitano. Conosce la solitudine che mi accompagna, la tristezza , il rancore, l’odio che avverto intorno a me perché sono le stesse sensazioni che prova lei, ma fa finta che per me non esistano e continua a trascinare, giorno dopo giorno, la sua scialba esistenza sorretta soltanto da questa ragnatela di finzione e menzogne che abbiamo costruito come uno scudo a difesa della nostra stessa fragilità.
Mia madre, come sempre, è in attesa del mio arrivo, lo capisco dalla tenda appena scostata. La porta si apre e mi viene incontro con le orecchie vigili e lo sguardo attento della gazzella che teme il leone.
Ha sempre paura che qualcuno possa vederla e ingiuriarla. Un’eventualità remota, la nostra casa è isolata e non si trova su una strada di passaggio.
Cerco di sorridere, mentre entro in casa con uno sguardo che più che allegro è l’espressione ebete di un folle.
Il volto mi brucia, gli occhi hanno iniziato a lacrimare e il naso mi cola.
Mia madre si porta una mano alla bocca per soffocare un grido.
“Non è niente” cerco di confortarla, ma il dolore è così acuto che mi sento svenire.
“Cosa è successo?” chiede, mentre mi aiuta a salire le scale e mi accompagna nella mia camera, facendomi stendere sul letto.
La penombra mi regala una sensazione di freschezza. Le tempie mi martellano e la pelle del viso mi sembra trafitta da mille aghi.
Chiudo gli occhi e respiro l’odore pungente dell’arrosto che si mescola al profumo della vaniglia. Il pranzo di oggi.
Mia madre, di origine italiana, è una magnifica cuoca e tutte le persone che si rifiutano di frequentarla qui in paese non sanno a quali prelibatezze rinunciano.
Mia madre mi sfiora la fronte con un bacio.
“Vado a prendere dell’acqua e delle pezze di tela” dice.
La sento scendere in fretta le scale e trafficare in cucina. Ritorna un po’ affannata con una bacinella dove ha sciolto qualcosa. L’acqua è torbida.
“Che cosa è successo Bastian?” ripete, con una voce stridula, mentre con gli occhi mi implora di non raccontarle la verità.
Ha appoggiato delle pezze di tela sulle mie guance in fiamme e mi accarezza dolcemente i capelli.
La tensione si scioglie, sento i muscoli rilassarsi e accenno un sorriso. Ho di nuovo il controllo delle mie emozioni e posso inventarmi la bugia che lei si aspetta e che ci permetterà di vivere qualche giorno di tranquillità.
Penso che attimi come questo mi ripagano di tutte le cattiverie subite.
Ho solo sette anni e mia madre è tutto il mio mondo.
“Sono scivolato come uno stupido in un campo di ortiche e invece di appoggiare le mani sono caduto con la faccia”.
Una bugia. Una bugia innocente, la prima che mi è venuta in mente, una delle tante. Ho inventato di tutto per coprire graffi, schiaffi, lividi ed escoriazioni.
Sento mia madre rilassarsi, per lei la verità è troppo dura e non vuole affrontarla.
Ora sul viso ha quasi l’ombra di un sorriso, che la rende bellissima, mentre scuote i riccioli scuri e mi scompiglia i capelli.
“Mio piccolo orsacchiotto” sussurra, sfiorandomi, con delicatezza, la fronte con le labbra.
“Facciamo così” mi guarda con uno sguardo complice “domani rimani a casa da scuola, così queste brutte bolle spariscono”.
Annuisco e richiudo gli occhi, so che un giorno senza scuola è il premio per aver evitato ancora una volta la verità.
Nonostante abbia soltanto sette anni mi rendo conto che non potrò per sempre nascondermi dietro le bugie, la verità prima o poi prenderà il sopravvento e io diventerò il figlio del boia, anche per mia madre.
Scaccio quel pensiero angosciante e mi giro su un fianco.
“Ti lascio riposare un po’” dice lei e mi sfiora la fronte con un bacio leggero, prima di scendere le scale e tornare in cucina.
Il suo profumo di fiori aleggia nella stanza e mi dà conforto.
Cado in un sonno profondo, sono troppo occupato a salvarmi dal presente per potermi preoccupare del futuro.