Il Lambrusco è un vino dalle caratteristiche particolari, inimitabile, del tutto originale, straordinario e forse unico tra tutti i vini contemplati dall’intera enologia.
Pensate: un vino rosso…frizzante!
Probabilmente, l’insieme delle sue peculiarità è il risultato dello straordinario compendio delle terre, del clima e del carattere delle genti emiliane: uno straordinario impasto di cordialità, generosità, ma anche di schiettezza e di franchezza. Un prodotto del quale in tutta l’Emilia, ed in particolare qui a Modena, si va particolarmente fieri e con cui si è instaurato un rapporto che non è solo di consumo ma anche affettivo. Già, proprio a Modena in modo particolare.
Perché Modena è la culla di origine e la vera patria del Lambrusco, come testimonia un’ampia raccolta di documenti storici.
Primo capitoloCapitolo I
Storia del Lambrusco
Le origini del vino Lambrusco sono tra le più nobili e antiche. Lambrusce erano chiamate, prima della “vitis vinifera sativa”, le viti spontanee nate per seme, dette appunto selvatiche, le cui foglie fossili si trovano nei terreni dell’eocenico.
Risalgono all’età del bronzo i semi di vite silvestre rinvenuti proprio nelle zone di produzione attuale del Lambrusco, in prossimità delle “terramare”, isole emergenti sugli acquitrini conseguenti allo scorrere del fiume Po e sulle prime propaggini appenniniche (è, tra l’altro, proprio sui terreni argillosi e sabbiosi che le caratteristiche dei vitigni di Lambrusco possono maggiormente esaltarsi).
Questa vite selvatica, da cui provengono i vitigni attuali, era nota ai latini che la chiamavano “labrusca” e ne ricavavano una bevanda aspra.
Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” ci dà una prima caratterizzazione ampelografica: “la vitis vinifera le cui foglie, come quelle della vite labrusca, diventano di colore sanguigno prima di cadere”. E poi ancora “singolare remedium ad refrigerandos in morbis corporum ardores” per finire con una preziosa sua ulteriore descrizione “uva prusina dall’acino nero”.
“L’Aigleucos”, vino frizzante dall’antichità, veniva in parte realizzato con viti lambrusche, facendo riposare il mosto dolce in anfore sigillate e immerse in acqua fredda per fermare la fermentazione; prima di porlo al consumo ci si curava di esporre le anfore al caldo, così che il mosto cominciasse a fermentare costringendo il gas acido carbonico, che non poteva disperdersi, a disciogliersi nel vino rendendolo frizzante.
Una curiosità che lascia intendere una massiccia presenza di queste uve spontanee con conseguente loro utilizzo, è affermata da Strabone nel terzo secolo dopo Cristo, il quale parlando di queste zone osservò che esistevano botti di legno più grandi di case, sintomo di una pratica enologica molto evoluta tra i suoi abitanti.
Si narra, tra lo storico e il leggendario, che il 12 luglio del 1084 la Contessa Matilde di Canossa riuscì a sconfiggere l’assedio della sua torre di Sorbara, operato dai soldati dell’imperatore Arrigo IV, proprio grazie al fatto che gli stessi, inebriatisi con il vino prodotto con vite lambrusca, abbondantemente presente, si misero da soli praticamente fuori combattimento prima ancora di affrontarlo.
A riprova di ciò il Muratori rilevò che Matilde, come ringraziamento per l’importante vittoria militare conseguita, fece erigere la Pieve di Sant’Agata sulla via Verdeta.
Nel 1305 nel suo trattato di agricoltura, Pier De Crescenzi, bolognese, per la prima volta in un documento, suggerisce di prendere in considerazione l’allevamento della vite labrusca.
Andrea Baccio di Sant’Elpido, nella sua pregevole opera: De naturali vinorum istoria, de vinis Italia et de conviviis antiquorum edita in Roma nel 1596, ed oggidì addivenuta di squisita rarità, così ragiona dei vini dell’agro Modenese: - In queste terre si preparano vini di scelto genere, e più generosi ove le vigne si stendono sulle colline del vicino Appennino: quali sono a sinistra della via Emilia presso Modena, celebri inoltre i vini bianchi, rubicondi, e di vinaciola (*); difettosamente mordenti, di soave odore e spumanti per auree bollicine qualora si mescano e versino ne’ bicchieri.
(*) La vinaciola, scrive lo stesso autore al cap. XI, è un’uva della Sabina e de’ Laurenti, che ha somiglianza al Lambrusco, ed è di colore rosseggiante. Simili alla vinaciola della Sabina esistono in tutta la Gallia Cisalpina, e specialmente nell’agro Modenese, Bolognese e Parmense, come pure nelle campagne di Vicenza e di Padova.
Lo stesso autore prima di discendere alle specialità dell’agro Modenese, discorre dei vini delle colline cispadane e della via Emilia, lungo la quale in un’amenissima pianura, oltre a tante cospicue città, fanno bella mostra di sé Modena e Reggio. Ed osserva che quivi in causa della bassezza del sito, e del soverchio umore del suolo ci è dato contemplare una serie infinita di viti, e piantagioni, o per meglio dire, boschi di pioppi e di olmi ne’ quali, sollevate dall’arenoso terreno stanno sospese le viti stesse coi penduli grappoli, nereggianti d’assai nell’autunno, sicchè non avvi cosa, più gioconda a vedersi, né lussureggiante. Siffatta maniera di vigne è sovra tutte commendata dagli agricoli, e dallo stesso Columella. Per la qual cosa le viti siffattamente sospese agli alberi danno ovunque vendemmia abbondante, e dai campi ad essi sottoposti ritraesi ogni sorta di cereali, e di biade. I vini poi quantunque per queste cagioni nei vigneti delle pianure non riescano molto generosi, ma sieno aspricci e crudi, e per lo più di colore rosso; pure questi, oltre la bontà che acquistano dal tenere di questa maniera esposte al sole le viti in alberi alti, poiché abbiano bollito nei tini, e colati, maturino per qualche tempo in buone botti, apprestano, una bevanda saluberrima.
Francesco Scacchi, medico da Fabriano, nel Seicento diede una descrizione dettagliata dei vini “piccanti”, parlando del Lambrusco prodotto da vite selvatica che poteva essere riprodotta dal seme direttamente.
Ancora, negli archivi storici della casa ducale d’Este ritroviamo una preziosa distinta del 29 ottobre 1693, la quale tra le uve consegnate alla cantina ducale annovera una importante partita “lambrusca”.
Nella sua catalogazione delle uve “Carpitine” Piergiovanni Paltrinieri, nel diciottesimo secolo indicava tra le altre la Lasagna e il Lambrusco dal Becco Rosso.
All’inizio dell’Ottocento il narratore belga Jean Louis Valere ricorda di aver trovato eccellenti nel Ducato Estense le “vin rouge de le montagne de Modène, il vin tosco, et le vin de Sorbara, qui se rapproche de Bordeaux”.
Singolare risulta per un altro aspetto la documentazione di Carlo Roncaglia, sovrintendente ducale estense alla statistica, il quale, in un suo viaggio in Egitto, verso il 1840, volle recare con sé un barile di vino modenese di quello dei nostri colli di varietà Lambrusco (di Castelvetro) con risultati insperati: lo bevve fragrante e profumato all’ombra delle Piramidi, dove inneggiò altresì al “lambrusco dei nostri bravi distretti”, in grado di gareggiare con qualunque altra varietà di vino colorata.
A questo vino pregiato la tradizione vuole siano anche legate le vicende delle origini remote della contrada di Formigine, cioè della localizzazione e istituzione del feudo (anno 1191), indi la storia del folklore, delle sagre popolari della vita rurale della zona, durante la vendemmia e la vinificazione casalinga, caratterizzata dall’acre profumo del mosto, dall’odore caldo e di viola, come direbbe Prisco. Vino “dunque come certe fanciulle di provincia che – asserisce il nostro Monelli – bisogna andarle a conoscere nel loro borgo”.
Da Casinalbo apprendiamo che quando vi passò Napoleone Bonaparte assaggiò e gradì il lambrusco della fattoria Lugli e se ne fece mandare delle casse a più riprese, sia nelle glorie del trionfo che nei tempi grami dell’esilio.
Dalla documentazione appartenente alla nobile casata dei Montecuccoli degli Erri e Bellencini – Bagnesi rinveniamo il raro “catalogo delle uve che si trova nella villa Staggia, sezione del Comune di S. Prospero” risalente al 1879.
Tra queste uve, novanta circa, di cui una cinquantina nere e in prevalenza varietà di lambruschi, troviamo: “il Lambrusco moscatello a foglia verde oliva e il Lambruscone subsferico e sferico a foglie meno incise detto della viola o di Sorbara”.
L’affermazione definitiva del Lambrusco inizia dopo la seconda guerra mondiale ed a questo proposito si legge:
- Il Lambrusco è un vino in piena espansione di consumo: nella sola provincia di Modena, il “gettito” annuale supera, normalmente, il milione di ettolitri. Quanti, atteggiandosi a intenditori, sostengono che il solo Lambrusco degno di tal nome viene da Sorbara e deve essere “quello del prete”, dimostrano d’essere fuori della realtà, a meno che il signor parroco non abbia, in canonica, una cantina di capacità tale da rivaleggiare con le caves dei maggiori produttori di champagnes, quelle dove maturano milioni di bottiglie.
L’aumento della richiesta è giustificato: di modesta gradazione alcolica, naturalmente frizzante (e si sa quale fascino eserciti il “frizzantino” sui bevitori, anche non preparati), gradevole e, virtù non ultima, economico, il Lambrusco va incontro ai consumatori di oggi, compresi quelli (mi scusino i veri bevitori per tale accostamento) che alternano vino e Coca Cola, senza provare complessi di colpa. Un tempo, il Lambrusco maturava, da ottobre a febbraio, nelle botti di rovere; poi, molto spesso, in bottiglia si comportava da matto: sturarne una, colma di vino in piena effervescenza, voleva dire esporsi alla eventualità di far ridipingere pareti e soffitto e di mandare gli abiti propri, e quelli degli incauti amici rimasti nel raggio di esplosione, in tintoria.
Oggi nuovi metodi di stabilizzazione consentono di fare del Lambrusco un vino che “viaggia”: un tempo si considerava questo nettare modenese un “intrasportabile”, da consumarsi sul posto. Oggi, scrive Morselli, “può essere bevuto indifferentemente nelle regioni nordiche e in Africa, nelle terre d’Oriente e oltre la Manica”. Necessariamente, ciò fa del Lambrusco un vino adattabile a più cucine. Per la sua disponibilità di “pulire la bocca” e di “sgrassare dopo una bella scorpacciata di zampone e di salsiccia fina, e l’aiuto che il gas naturale dà allo stomaco durante quelle che l’ingegner Tosoni Gradenigo, veneziano, chiama le “care gravezze della digestione”, il Lambrusco continua ad apparire, anche se altrove può abbinarsi all’osso buco o addirittura all’irish stew, uno dei più convincenti esempi di fratellanza, predisposta da Madre Natura, fra i cibi e i vini tipici di una regione.
Una buona definizione “tecnica” del Lambrusco, la diede, il 20 novembre 1965, durante una di quelle tavole rotonde ormai sempre più di moda, il dottor Niederbacher, direttore dell’Unione Italiana Vini: lo chiamò vino “dietetico” (in contrapposizione ai vini “gastronomici”), e cioè una gradevole bevanda che “passa indisturbata attraverso stomaco e visceri e se ne va senza lasciare traccia”.
Giorgio Fini ha conservato e valorizzato la gastronomia modenese grazie alla cantina del Lambrusco, gli stabilimenti e i negozi per la produzione dei salumi e il ristorante in piazza S. Francesco che ha conservato il carattere bonario di un’azienda all’antica, dove si può mangiare come una volta senza spendere troppo, bevendo Lambrusco frizzante e poco costoso, senza sentirsi a disagio perché il maitre consiglia un Borgogna o un Benjolais.
Il menu è semplice e a carattere regionale con piena evidenza a quelle specialità della casa che il cliente può comperarsi in negozio: zampone, tortellini, mortadelle, salsicce, aceto balsamico, lambrusco, nocino.