Storia di una famiglia contadina piemontese dai primi anni sessanta ai giorni nostri: il passaggio dal mondo contadino al mondo operaio, le tradizioni popolari, i sogni di un futuro migliore attraverso la trasformazione della società, con la lotta operaia e l’impegno sindacale di Lorenzo, padre della protagonista, che culmina con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori del 1970. Nel racconto la povertà presente e la ricerca di un maggiore benessere della metà del secolo scorso, riflette la povertà che oggi è nuovamente penetrata così profondamente nel tessuto sociale italiano.
Conosciamo anche il magico mondo della natura che ci circonda, portati per mano da persone che fondono la vita quotidiana e la vita dell’anima, che hanno il dono di attingere all’energia della terra, degli alberi e degli elementi, energia che trasmettono agli altri per aiutarli a superare i momenti difficili.
La casa di cartone
La notte era scesa in fretta come sempre all’inizio di dicembre. Guardavo fuori dalla finestra del vecchio palazzo del centro storico, dove lavoravo da tanti anni. Dall’alto del 4° piano si vedeva la città avvolta dalla nebbia e nella nebbia si riuscivano ad intravedere le luci natalizie. Si potevano udire i suoni e le risate della gente in strada, gli auguri scambiati da qualche passante infreddolito e lo scampanellio dei tanti Babbi Natale davanti ai negozi del centro. Tutti sembravano allegri, tutti sembravano felici.
Le 19,30: l’ora di tornare a casa. M’incamminai dopo aver riordinato la scrivania e annaffiato le piante dei fiori sui davanzali delle finestre.
Adoravo l’autunno fin da bambina. La nebbia che avvolge le cose e le plasma e le trasforma, la nebbia che respiri e che penetra nella tua pelle, negli abiti, nei capelli.
Era una di quelle sere che passavo volentieri fuori, camminando per le vie del centro storico fino ad arrivare al vecchio Po, dove la nebbia sempre si infittiva e, certe volte, non ti permetteva nemmeno di vedere oltre il tuo braccio.
Si potevano però sentire i rumori della città: una porta che si chiude e non sai cosa nasconde, dietro ad essa tutta una vita fatta di gioie e di dolori, di tristezza e di pianto, di sorrisi e di risate. Si poteva sentire il rumoreggiare dell’acqua del fiume che scorre verso la pianura padana con le sue storie, così uguali e così diverse, che raccontano bellezza e tragedia, che occhieggiano paesaggi da quadri appesi alle pareti di case che il fiume non hanno visto mai. E quasi si potevano vedere i volti degli abitanti del fiume segnati dalla sofferenza che accompagna i cambi d’umore del corso d’acqua, le sue piene, i suoi brontolii, la sua rabbia.
E si poteva sentire il profumo delle pietanze preparate per la cena che filtrava dalle finestre socchiuse e i discorsi in lontananza, indistinti ma reali. Le poche auto e i tram che passano lenti e con suoni prolungati e ravvicinati segnalano la loro presenza. I passi sul selciato o sotto i portici di via Po: quelli veloci delle persone che hanno fretta di tornare a casa, per ritrovare gli affetti di sempre, e che conoscono la strada tanto da percorrerla a occhi chiusi, o forse quei passi affrettati delle persone che quel gioco a nascondino disegnato dalla nebbia, spaventa, e a ogni rumore fa sobbalzare il cuore.
«Ma» questo ci diceva mio padre, quando eravamo piccoline «la paura è fatta di niente, di suoni e di odori, di luci e di ombre, di immagini e di ricordi, ma sempre di niente ricordatelo mentre camminate incontro alla vita e non lasciatevi condizionare mai».
Abbiamo sempre camminato incontro alla vita anche quando sapevamo che per noi non c’era nulla e, molte volte, è stata la vita a camminare incontro a noi, anche quando non l’avremmo voluta incontrare.
Quella sera la nebbia non era tanto fitta e si potevano distinguere bene le sagome delle figure.
Così, camminando lungo gli alberi di corso Valdocco, vidi sotto i portici quell’uomo dimesso ma fiero.
Si muoveva piano in mezzo ai cartoni con cui stava costruendosi un riparo. La sua casa, rifugio per quella fredda notte d’inizio dicembre, prendeva man mano forma: un rettangolo di carta sistemato con cura e addossato al vecchio muro degli antichi quartieri militari del centro, per tetto un telo di cotone grezzo.
All’angolo un carrello d’un supermercato conteneva tutti i suoi averi: due borsoni semiaperti dai quali spuntavano una coperta scura, un maglione, due libri, un quaderno e un portapenne. Appeso al carrello l’uomo aveva lasciato un abito nero, perfettamente riposto in una custodia.
Osservavo quella scena quasi nascosta da un vecchio platano, che aveva conficcato nelle sue carni un cartellino con inciso il numero 73. Osservavo, come fa un ladro che tenta di impossessarsi di cosa altrui.
La dignità di quell’uomo mi impressionava. Era giovane, o almeno così sembrava, con la barba appena fatta, forse al torello all’angolo dove un altro barbone si stava lavando, e i suoi abiti erano insolitamente puliti.
Aveva costruito la casa sotto i portici, al riparo dall’aria fredda della notte, dosando attentamente i pesi e gli incastri della carta per assicurarsi la massima stabilità. Si era anche preoccupato di posizionarla a favore dei lampioni che la città di Torino così generosamente aveva installato. Pareva un architetto d’altri tempi.
Alla fine del lavoro si era alzato e, preso uno dei libri dal carrello, si era seduto e messo a leggere.
Anche da lontano potevo riconoscere una copia della Divina Commedia con la copertina logora e ingiallita, la stessa edizione che avevo studiato alle superiori, molti anni prima.
All’altro lato della piazzetta, dritto davanti a lui, c’era l’altro barbone.
«Avresti un pezzo di pane Paolo? Da stamattina non mangio».
Paolo con il libro in mano, aprì una borsa chiusa da una cerniera ed estraendo un involucro bianco disse:
«Pane no Marco, ho un pezzo di pizza bianca. Tieni, mangia, la fame è brutta» …