Costantino Kavafis si è ispirato al mondo ellenistico pagano che ad Alessandria, sua città natale e in quegli anni ombelico del mondo, celebrava gli ultimi fasti. Eccoli, i motivi ricorrenti: l’amore (vissuto tra sensualità violenta e accorata nostalgia), l’inafferrabilità della bellezza (specchio del desiderio che non si placa), la storia (vista come terreno di scontro tra l’uomo e la sorte)
Traduzione di Tin Sangiglio e Paolo Ruffilli. Introduzione di Paolo Ruffilli.
Primo capitolo
“Io sono di origine costantinopolitana, ma nato in Alessandria d’Egitto, in una casa della via Cherif. Me ne andai di là che ero ancora bambino, e molta parte della mia infanzia la passai in Inghilterra. Più avanti negli anni visitai ancora quel paese, ma per poco. Soggiornai anche in Francia. Adolescente, passai più di due anni a Costantinopoli. In Grecia è da anni che non vado più. Il mio ultimo impiego è stato presso un ufficio dipendente dal ministero egiziano dei Lavori Pubblici. Parlo l’inglese, il francese e un poco l’italiano. Ma la mia lingua è il greco.”
Costantino Kavafis
Il mito dell’ellenismo
Lontano dalla grande poesia europea coeva, che conobbe ma non imitò, Costantino Kavafis si è ispirato al mondo ellenistico pagano che ad Alessandria, sua città natale e in quegli anni ombelico del mondo, celebrava gli ultimi fasti (“l’Alessandria orgiastica e meravigliosa, cui ho avuto il privilegio di partecipare: vivere, godere, amare”). E l’adesione all’ellenismo non era dettata solo da una contiguità culturale d’eredità e di sangue, ma dalla convinzione che lì fosse il vero snodo della modernità.
Nell’ellenismo, infatti, la poesia aveva perso la funzione etica e civile dell’età classica e si era fatta riflessiva, intimistica. La lirica aveva cominciato a battere piste epigrammatiche o elegiache, scegliendo soluzioni meno sostenute e più colloquiali. Si era avviata quell’indagine dell’individuo, destinata a continuarsi e ad approfondirsi fino ai giorni nostri.
Come ha scritto, con profonda ammirazione, Eugenio Montale: “Kavafis è un vero alessandrino, nello spirito e nella carne, del tutto alieno da quei ripensamenti umanistici che sono alla radice di ogni neoclassicismo poetico. La genialità di Kavafis, che non è affatto poeta neoclassico, consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo europaeus di oggi, e nel riuscire ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro”.
A sottolineare l’assoluta contemporaneità dell’esperienza di Kavafis, da noi ancora alla fine degli anni cinquanta, era stato Alberto Moravia: “Kavafis non è soltanto il maggiore poeta greco moderno, ma anche uno dei maggiori poeti europei. E la sua attualità è di buona lega: è infatti l’attualità di un’opera scarna maturata nel silenzio e nell’ombra, con completo disdegno dell’altra e tanto più chiassosa attualità”.
La stessa lingua greca, poco conosciuta e parlata da un popolo esiguo, gli offriva quella segretezza ed esclusività che Kavafis desiderava per la propria poesia, a maggior ragione visti “i temi così audaci e scabrosi, per il suo tempo, e così diversi e inusuali”. E tutto, anche il più indicibile, poteva tornare ad essere nominato e a trovare la sua pronuncia nella lingua che non aveva mai davvero conosciuto ipocrisie e censure.
Del resto, per sé Kavafis aveva scelto il destino del greco, sentendosi parte viva di quella civilizzazione della koinè greca che “dopo i secoli gloriosi dell’antichità e poi dell’era bizantina ed ellenistica si rianima nella lingua volgare, in quella sterminata grecità legata non più alla conquista ma alla diffusione, perpetuatasi e sedimentatasi con paziente insistenza lungo i secoli, la cui influenza si sente ancora ai nostri giorni nel moderno Levante degli armatori, degli imprenditori e dei commercianti”. E citava, come pienamente condivisibile, il pensiero di Isocrate: “Noi chiamiamo greci non solo coloro che sono del nostro sangue ma anche quelli che si conformano alle nostre usanze”.
Fin dalla giovinezza Kavafis aveva avvertito il fascino di tutto ciò che era greco e, come ha scritto, tutto lo interessava: “nella storia e nella letteratura, nell’evoluzione dell’arte e della lingua, nelle stesse vicende politiche”. Tanto che, a un certo punto, decise di prendere la nazionalità greca, rinunciando a quella inglese, con non pochi danni di carriera nella sua stessa professione di impiegato nell’amministrazione anglosassone dell’Egitto, così come aveva scelto il greco rispetto all’inglese, rinunciando ai vantaggi che offriva la lingua di maggiore penetrazione internazionale.
L’ellenismo, si sa, trovò la sua unità in un universalismo ecumenico espresso attraverso un linguaggio comune (la koinè diàlektos), che Kavafis ha ripreso e in qualche modo ricreato, mescolando il parlato popolare (dimotikì) alle forme della tradizione della lingua colta (katharévusa). Insomma, come per ogni vero poeta, nell’esperienza di Kavafis a decidere dei risultati è l’invenzione di una lingua personale: ibrida e amalgamata, dalla filigrana ricchissima e dalla pronuncia lieve, frutto della migliore filologia eppure teneramente fresca, compatta e insieme sciolta in una musica affabile.
Può darsi che Kavafis abbia istintivamente usato l’ellenismo come filtro, per sublimare le potenti emozioni dalle quali muoveva (e sulle quali riposava) la sua poesia. Eccoli, consegnati a una sorta di razionalità fatale delle cose, i motivi ricorrenti: l’amore (vissuto tra sensualità violenta e accorata nostalgia), l’inafferrabilità della bellezza (specchio del desiderio che non si placa), la storia (vista come terreno di scontro tra l’uomo e la sorte).
Scrittore di raffinata eleganza, Kavafis è riuscito a imprigionare in piccole bolle di cristallo, pronte a rimettere tutto in movimento alla minima scossa, il fiotto dei sentimenti che lo attraversa e dal quale non rinuncia affatto ad essere riempito. La vena rovente e drammatica veicola il suo potenziale esplosivo, continuamente risolvendolo e traducendolo in una sonorità tipicamente sincopata trattenuta dentro i bordi di una scrittura netta e ferma come poche, giocata nella rarefazione fino al dettato rappreso in algide epigrafi funebri, secondo l'immagine disegnata nella poesia Brame dei “corpi belli di morte che la vecchiaia non colse” e dunque preservati dalla corruzione e consegnati alla “legenda”, cioè al “doverne leggere” per conservarli vivi.
Scandita in metri insieme antichi e modernissimi, la poesia di Kavafis traccia una mappa della vita interiore che passa attraverso i sensi, in cui i visceri non contano meno della testa e in cui però a contare sopra tutto il resto è la pronuncia, melodiosa e insieme acuminata, infelice e squillante, in una variazione costante di accordi e di registri.
Da una suggestione fitta di penombre, di ori bizantini consumati dal tempo, di grumi di sangue estenuati negli amplessi, di corpi e di giacigli legati alla fugacità inevitabile, balza fino a noi la poesia di Kavafis. E la vita dei sensi trova i suoi dati più immediati già trasfigurati nella prospettiva della memoria.
La memoria dei corpi
Kavafis fu sempre un uomo di quelli “scomodi” lungo tutta la sua vita, accanito fautore della sincerità, anche contro le convenzioni e l’etica corrente, demolitore disincantato di ogni pretesa virtù sotto il velo dell’ipocrisia, di ogni falso e illusorio eroismo, di ogni allineamento di comodo dettato dal timore o dall’interesse. C’è il riscontro di un’intera vicenda biografica che lo vide estraneo a qualsiasi forma di carrierismo sia nel lavoro che nel mondo letterario, oltre che parte di una polemica violentissima che coinvolse la sua persona.
La situazione fisica ed esistenziale che lo caratterizza fin dall’adolescenza è una precoce omosessualità che Costantino visse, con coraggioso rifiuto dei falsi moralismi, fino in fondo. L’amore (ellinikì idonì, il piacere greco) non è solo vagheggiato, ma perseguito, ricercato e consumato con tutta la passione che brucia la carne, perché non possono restare “desideri inadempiuti, senza voluttuose notti, / senza mattini luminosi”.
Kavafis ha una capacità straordinaria nel rappresentare con pochi tratti un incontro d’amore e il desiderio violento che lo accende, nel disegnare la mappa appena percepibile di quegli sguardi e di quei cenni minimi di intesa per cui finalmente, dopo essersi misurati e sfiorati, due corpi arrivano all’esplosione del contatto (“I loro sguardi si incrociarono per caso / ed esitanti, timidamente, espressero il desiderio vietato della carne. / Poi, qualche passo inquieto sul marciapiede, / finché un sorriso, un cenno rapido d’intesa…”). Non importa il sesso dei corpi che arrivano a toccarsi, che per il poeta sono sempre corpi maschili, la pagina di Kavafis coinvolge nell’esperienza dell’accensione del desiderio i lettori uomini o donne che siano (“E continuavano a discutere di merce, / ma solo per sfiorarsi con le mani / sopra i fazzoletti, e per toccarsi / coi visi e con le labbra, come fosse il caso, / nel fulmineo contatto dei due corpi”). E, a risultare vincente, è proprio quello che Kavafis si esorta a fare da poeta in Quando si destano: custodire le “visioni del fuoco dell’amore” ficcandole “seminascoste” nei suoi versi così che si riaccendano attraverso gli occhi del lettore.
L’atto sessuale non vive soltanto gli echi luccicanti di un recinto pieno di fantasie e di sogni, ma proietta il proprio flusso di sangue, dietro al più potente desiderio, anche in ambienti sordidi e sozzi, in taverne squallide, la cui volgarità è riscattata dall’impareggiabile contatto dei corpi, “le mani strette, intanto, e le labbra unite” (“È lì, sul miserabile giaciglio, che / ho avuto il corpo, e la sua bocca, / la rossa sua bocca voluttuosa / di tanta ebbrezza che ancora, mentre / scrivo – così tanto dopo! – mi sento / nella casa solitaria inebriare”).
Nel periodo della decadenza greca del tardo Ellenismo e dell'Impero Romano d'Oriente e di Bisanzio, Kavafis proietta le proprie vicende biografiche, sceneggiandole in brevi storie con altrettanti protagonisti dal profilo più antico. Così muovono gli efebi vagheggiati nel sogno, tutti immaginari e immaginati nei versi, senza riscontro storico alcuno ma nel vagheggiamento di una Storia superiore (Eurione, Lanis, Endimione…), lasciando i giacigli a corpi di ragazzi vivi, turgidi per il desiderio, a cronache anche di misere vicende, di incontri occasionali, che l’amore impasta d’oro e che la poesia trasferisce nella leggenda. Ed ecco che ciascuno di quei ragazzi, mentre “passeggia senza meta nella strada, / come ancora stordito” e “rapito / dal piacere proibito goduto intensamente”, senza rendersene conto “per un attimo spavaldo / anche lui passa per le sublimi contrade di Poesia”.
Sarebbe forse la salvezza, se il rimpianto non incrinasse gli sguardi, perché lo spettro corroso della vecchiaia incalza ammonitore le “albe arrossate” della giovinezza. Ma Costantino resiste (“Quanti inutili rimorsi vani…”) e, anzi, contesta paradossalmente a se stesso il fatto di non aver seguito ancora di più l’istinto (“Pensa agli inganni della sua saggezza, / alla fiducia che ha riposto, pazzo, / alla bugiarda che diceva: ‘Domani, su. Hai tempo!’ / Quanti slanci che ha frenato ieri e quanta / la felicità sacrificata. / Ogni occasione persa / adesso spregia la prudenza sua insensata”). E la poesia si cristallizza in un “passato biografico” fermo nella memoria: “Profumo e gioia della vita mi è il ricordo delle ore / in cui ho incontrato e posseduto il mio piacere / andando dietro al desiderio”.
Kavafis chiedeva alla memoria di ricondurgli i fantasmi della sua giovinezza, di un corpo, di un incontro, fissandoli in una “reliquia verbale” come i “mausolei preziosi” in cui si chiudevano i bei corpi dei morti giovani della poesia Brame, oppure in una condensazione di passione rinnovata e vittoriosa sull'oblio, o in un’occasione capace di resuscitarne una passata, perché la ripetizione ha il potere di sospendere il tempo come dicono i versi di Al tavolo vicino. Nell’espediente letterario della sospensione del tempo, agisce spesso nella poesia di Kavafis una sorta di “trasposizione romanzesca”, passando indifferentemente dalla prima alla terza persona, per cui la vicenda autobiografica si trasforma nella sceneggiatura di una storia, frutto dell’impulso a tradurre il dato personale effimero in valenza universale.
Il miracolo della memoria preservata è frutto dell’alchimia verbale. Come diceva Edmund Keeley, la lingua di Kavafis ha la facoltà di trascendere gli avvenimenti, di mescolare il passato con il presente, di abolire le coordinate temporali e spaziali, così che fatti ed avvenimenti del passato diventano attuali, “assumono le dimensioni di accadimenti quotidiani di un pregnante oggi”.
Siamo noi, dice Kavafis, “creature smaniose dell’attimo ed ignare” a interrompere l'opera sublime e incomprensibile degli dèi (Interruzione). Allo stesso modo, ci sforziamo di schivare una sorte che immaginiamo ineluttabile, mentre il vero ineluttabile ci coglie di sorpresa: “con la mente sconvolta e gli occhi timorosi / ci consumiamo a progettare vie di uscita / all’inevitabile pericolo che incalza / e così atroce pare minacciarci. / Eppure ci sbagliamo, non sta lì il pericolo /sulla nostra strada: ci ingannano i segnali / (non abbiamo saputo interpretarli). / Ben altra è la devastazione, neppure immaginata, / che improvvisa ci piomba addosso – tardi avvisati – / con la sua violenza e ci trascina via del tutto impreparati” (Fine).
Al centro della vicenda esistenziale e della poesia di Kavafis c’è un contenitore tutt’altro che marginale: Alessandria, la città internazionale “crogiuolo di libertà e di spregiudicatezza” che, come residenza dei consoli stranieri, aveva acquisito un carattere europeo e attratto in abbondanza greci, ebrei e siriani. Sotto il dominio britannico, sviluppandosi come sede navale militare a controllo del Canale di Suez, il carattere cosmopolita si era ulteriormente accentuato. Come città portuale poi, era quanto mai promiscua, raggiunta dal mare e dall’entroterra da una quantità di vagabondi, avventurieri, indigenti in cerca di lavoro.
La Alessandria amata da Kavafis in età adulta è quella più antica e caotica del vecchio centro storico, dall’oblunga Piazza Grande fin dentro il fitto groviglio di vicoli della medina e nell’esuberante proliferare di botteghe e di taverne del bazar, e il momento della giornata preferito dal poeta era “il sole del pomeriggio”, dopo l’orario d’ufficio, girovagando senza meta nel declinare del calore e della luce verso le ombre della sera. Ma, da giovane, amava anche il resto della sua “tentacolare città proteiforme” ed era solito percorrerla tutta, dalla striscia di terra che separa il mar Mediterraneo dalla palude Mareotide all'antico molo dell'Eptastadio e all'isola del Faro, dalla punta occidentale della penisola dove c’erano l'edificio del Circolo Navale e il palazzo di Ra's al-Tin, alla punta orientale di Qayt Bey, dal nome di un famoso sultano mamelucco. Salvo poi, da un certo momento della sua vita che coincise con la fine del suo lavoro di impiegato, chiudersi in casa e isolarsi in mezzo alle “presenze” a lui care: gli ingrandimenti delle foto affidati alle cornici, alcuni quadri prediletti, pochi libri, i suoi versi. La casa aveva ormai per Kavafis un valore di sacrario, un che di segregazione e di misterico, che conviveva con una sorta di pigrizia fatalista.
Ad assediarlo, dopo i cinquant’anni, è sempre di più l’incalzare del tempo, con la cruda realtà della vecchiaia e con la “riga delle candele spente”, i giorni del passato che restano indietro con la loro “fila tenebrosa”. Unica soluzione: la vocazione estetica, che sola pareva a Kavafis riscattare la pochezza della vita. Quella bellezza a cui il poeta affida la sua percezione inconfondibilmente tragica del destino umano e che si realizza poeticamente, come è stato detto, con un'asciuttezza e un orrore spiccatamente moderni. Una bellezza che, in una di quelle trasposizioni immaginate e quasi teatrali che lo vedono protagonista in terza persona, al poeta vecchio suggerisce comunque la soddisfazione di aver lasciato in eredità ai più giovani i suoi versi come celebrazione dei corpi: “I suoi versi, sono loro, adesso, a recitarli: / per gli occhi ardenti passano le sue visioni. / Le loro menti voluttuose e le armoniose / loro carni sode – almeno, quello – / vibrano della sua idea del bello”.
La vita
Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d'Egitto, il 29 aprile1863, nono e ultimo figlio di Petros e Cariclea Fotiadi, di una famiglia greca originaria di Costantinopoli. Suo padre apparteneva all’agiata borghesia commerciale e aveva una ditta di import-export di manifatture, grano e cotone. Visse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, in un’elegante dimora di via Cherif frequentata non solo dai compatrioti greci ma anche da industriali e professionisti di tante nazionalità. In casa, si parlava il greco, che per Costantino divenne la lingua prediletta, pur conoscendo il francese e l’inglese, usate in famiglia e nell’ambiente cosmopolita di Alessandria.
Nel 1872 dopo la morte del padre, che era avvenuta due anni prima, Kavafis e la sua famiglia furono costretti a trasferirsi a Liverpool e a Londra per il tracollo dell’impresa commerciale paterna. E nel 1877 la famiglia ottenne il passaporto inglese. Ma la madre con alcuni dei fratelli tornò ad Alessandria nel 1879. Costantino venne iscritto al Liceo Commerciale, educato nella religione greco-ortodossa.
Dopo un colpo di stato militare avvenuto nel 1881, ad Alessandria gli stranieri e i cristiani furono causa e oggetto di una sommossa in cui morirono molti europei, e i Kavafis si rifugiarono presso la famiglia materna a Costantinopoli, dove restarono per più di due anni. Tra il 1882 e il 1885, presso i nonni materni, Costantino conobbe la comunità fanariota, i greci di Costantinopoli che abitavano nell’esclusivo quartiere di Fanar e che erano inseriti con funzioni importanti nell’amministrazione ottomana. Influenzato da quella vicinanza, si dedicò allo studio della storia greca e all’approfondimento della lingua greca. In quello stesso periodo, studiava l’italiano per leggere Dante in lingua originale.
Nel 1885 Costantino ritornò con la madre ad Alessandria e abbandonò la cittadinanza inglese per prendere quella greca. Aiutato economicamente dai fratelli, si concentrò a concludere gli studi. L’Egitto era ormai una dipendenza dell’Inghilterra e la comunità greca di Alessandria attraversava una fase di decadenza. Furono quelli i mesi in cui avvennero le sue prime esperienze omosessuali.
Nel 1886 prese la tessera di giornalista, lavorando all’interno della Borsa per il quotidiano “Telegrafo” e facendosi contemporaneamente conoscere per un’intensa attività pubblicistica soprattutto letteraria. Successivamente divenne agente di cambio, occupazione che mantenne fino al 1902. Intanto, dal 1892, era impiegato presso il Ministero egiziano dei lavori pubblici, nel settore delle Irrigazioni, dove rimase come interprete per circa trent'anni e dove, avendo scelto di “essere greco”, i suoi superiori inglesi lo esclusero dagli avanzamenti di carriera.
Nel 1899, morì la madre, con la quale Costantino viveva, e il poeta si trasferì in un appartamento condiviso con due fratelli. Negli anni successivi, una serie di malattie falcidiò numerosi componenti della sua famiglia, accentuando la sua prospettiva drammatica della vita. Rimasto solo, decise un nuovo trasferimento. Dal 1907 abitò nella via Lepsius di Alessandria, con rare frequentazioni, “nell’ovattata solitudine di una casa rischiarata dalle candele e popolata di fantasmi”, nella penombra di cui amava circondarsi, con le finestre sempre chiuse e il lucore spettrale della lampada a petrolio.
Nel 1922 si ritirò dal lavoro e decise di trascorrere le giornate leggendo e scrivendo, incontrando la sera gli amici, al caffè. Per i suoi amati caffè, quelli eleganti con la sala dei giornali e dei libri e non quelli sordidi frequentati in gioventù, passava quotidianamente ed erano gli unici luoghi pubblici in cui si intrattenesse talvolta con il suo brio e la sua intelligenza. Ce lo racconta Giuseppe Ungaretti, altro alessandrino di quegli anni, in un suo ricordo: “A volte, nella sua conversazione, lasciava cadere un motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata in un lampo allora risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere”.
Nel 1929, la rivista culturale più importante dell’Egitto, “Settimana Egiziana”, dedicò un intero numero a Kavafis. Nello stesso anno Filippo Tommaso Marinetti, anche lui nato ad Alessandria, visitò la città e andò a conoscere Kavafis, e l’avvenimento riempì i giornali locali. Ma a Costantino, amante e custode dell’espressione più dinamica del passato, il poeta futurista fece una cattiva impressione, all’insegna di una nuova “retorica del umore” che non gli poteva certo risultare congeniale.
Nel 1932 accusò i primi sintomi del cancro alla gola e si recò ad Atene per essere operato alla gola, in un intervento che gli causò la perdita della voce, senza riuscire ad evitare la recidiva con l’andata in metastasi che lo condannò di lì a qualche mese. Nell’aprile del 1933 fu ricoverato all’ospedale greco di Alessandria e vi morì il 29 aprile, nel giorno fatidico del suo settantesimo compleanno.
La fortuna
In vita Kavafis pubblicò pochissimo, presso alcune tipografie di Alessandria in edizioni private: sei poesie degli anni 1891-1904 e due fascicoli, quattordici poesie il primo nel 1904-1905 e ventuno il secondo (le quattordici precedenti più altre sette) nel 1910, che gli fruttarono una certa fama nel giro degli intellettuali di lingua greca. Aggiungeva progressivamente la stampa privata di altre poesie in fogli volanti, ad ampliare la raccolta intorno al secondo fascicolo. Ma decise di tenere fuori molte altre poesie che intanto aveva scritto e che continuò a comporre fino alla morte.
Fece pochi e rapidi viaggi, a parte il soggiorno con la famiglia in Inghilterra. Fu a Parigi nel 1897, senza riportarne particolari suggestioni e senza stabilire contatti con il mondo letterario francese. Molto più significative per lui furono le tre visite ad Atene e l’immersione nell’atmosfera intensa della capitale della grecità. In particolare, in occasione del viaggio del 1903, il critico Gregorio Xenòpulos rivelò alla Grecia il grande talento di Kavafis dedicandogli un articolo rimasto famoso. Ma a dare una notorietà internazionale a Kavafis fu Edward M. Forster che, durante la prima guerra mondiale trovandosi ad Alessandria volontario con la Croce Rossa, divenne amico di Kavafis. Affascinato dalla sua poesia, Forster scrisse un saggio nel 1926, accompagnandolo con alcune traduzioni di George Valassòpulos, nel volume Pharos and Pharillon e fece conoscere l’opera del poeta alessandrino in Inghilterra.
Contribuì alla fama di Kavafis, ritraendolo spesso nel suo Quartetto d’Alessandria, anche dopo la scomparsa del poeta, Lawrence Durrell: “Continuavo a sentirmi tutt’attorno la presenza del vecchio poeta soffondersi per la cerchia delle strade buie con l’odore di quelle poesie che aveva distillato dalle sue esperienze amorose squallide ma fertili, amori ancora vividi in un verso, per la tenerezza con la quale aveva saputo coglierne l’attimo fuggente e fissarne i colori”.
Nel 1935 uscì postuma, in Alessandria, la prima edizione delle sue poesie e nel 1963, per il centenario della nascita, venne pubblicato in due volumi il corpus delle 154 poesie approvate da Kavafis. Solo nel 1968 apparve l’edizione delle settantacinque poesie inedite, scritte negli anni tra il 1882 e il 1923, che il poeta aveva tenute da parte, in una cartella sulla quale aveva apposto l’appunto autografo: “Da conservare, ma non da pubblicare”. A queste ultime si aggiunsero poco più tardi, in un recupero filologico di tutta l’opera, le ventisette poesie conservate nell’archivio personale sotto la dicitura “Ripudiate”.
Dalla sua morte, la fama di Kavafis è andata crescendo in tutto il mondo per i saggi apparsi via via in Europa, a partire da quelli greci di Giorgos Seferis e per le pagine biografiche dedicategli da Robert Liddell a partire dal 1948 (la sua biografia critica in Italia è stata pubblicata da Crocetti nel 1998).
Di lì a poco si sono andate moltiplicando le traduzioni e, tra le più importanti, quelle di John Mavrogordato (l’edizione completa pubblicata da Hogarth Press nel 1951), di Philip Sherrard (nelle edizioni New Directions di New York promosse su indicazione di Pound da James Laughlin, nel 1953), di Marguerite Yourcenar (a Parigi da Gallimard, nel 1958), di Auden (traducendo dalle versioni francesi della Yourcenar), di Filippo Maria Pontani (il più grande divulgatore della poesia di Kavafis da noi, presso Mondadori, nel 1961, poi nel 1969 e nel 1972), di Rae Dalven (l’edizione completa pubblicata a New York nel 1961), di Helmut von der Steiner (in Germania nel 1962), di Elena Vidal e José Ángel Valente (in Spagna, nel 1964), di Margherita Dalmati e Nelo Risi (da Einaudi, nel 1968, poi nel 1992), di Edmund Keeley e George Savvidis (a New York, nel 1971).
Paolo Ruffilli
Questo libro è dedicato alla memoria di Filippo Maria Pontani e di Tino Sangiglio