“La mattina dopo la comunicazione dei carabinieri su quanto era successo al cimitero di Sant'Antimo, egli - che non era riuscito a chiudere occhio per tutta la notte - vagò per la casa come un uomo al quale era stata rubata l’anima e, preso dalla disperazione, si era messo a pregare come non aveva mai fatto in vita sua.
Adesso, Francesco Verga aveva davanti a sé quel ragazzo, ancora troppo giovane per capire come era fatta realmente la vita, e non provava più vergogna ma solo una sordida rabbia per non aver saputo cogliere nei suoi atteggiamenti i segnali di quello che si era tramutata in una storia dai risvolti imprevedibili.”
Basato su una storia vera, Il vento d’ottobre narra dell’inquietudine giovanile, della ricerca d’identità di un adolescente che si perde nei vortici della vita per poi riemergere con la consapevolezza di avere dalla sua parte una delle risorse più preziose di cui un uomo possa disporre: la speranza. Nicodemo Verga, un quindicenne deluso ed amareggiato per il fatto di non poter continuare a studiare a causa di problemi economici della famiglia, si ritrova a dividere il vuoto delle giornate insieme al proprio amico del cuore.
La noia, veleno mortifero, porta i due giovani ad escogitare uno scellerato “gioco” che li condurrà entrambi verso un’esperienza terribile.
Rinchiuso nel carcere minorile Filangieri di Napoli, fucina di futuri camorristi, Nicodemo per ben due volte rischierà la vita.
Il riformatorio, pur essendo un luogo denso di pericoli, gli darà comunque modo di conoscere persone che, seppure definite lo “scarto della società“, mostreranno una ricchezza d’animo ed una sensibilità tale da consentirgli di vivere il lungo periodo della carcerazione preventiva
non solo come una punizione, ma come opportunità di crescita interiore.
In tutta la storia, nella sua cruda realtà, una figura giganteggerà sempre: il padre di Nicodemo, una persona umile e saggia che, malgrado la grave malattia di cui è affetto – morirà poco dopo, a soli 41 anni – riuscirà a fare in modo che il “suo” ragazzo non diventi un uomo della camorra.
Tuttavia, Il vento d’ottobre non è solo una storia “privata” è anche uno spaccato dell’Italia degli anni ’70, di una società che si ritrova a combattere l’onda anomala del terrorismo, delle stragi e degli assassinii politici.
È, anche, un’analisi spietata della condizione in cui versa una gioventù costretta a vivere una realtà senza futuro, dove l’eroe è colui che – malgrado tutto – continua a credere che ci sia la possibilità di cambiare, dove la speranza è la linfa vitale per proseguire verso nuovi orizzonti.
CAPITOLO I
L’ufficio del maresciallo che comandava la piccola caserma dei carabinieri del paese, era un locale arredato in maniera spartana.
La scrivania era la stessa utilizzata dai suoi predecessori, vecchia di una decina di anni, così come le sedie e le varie suppellettili. Alla parete, dietro la sua poltrona, una grande stampa raffigurante il vice brigadiere Salvo D’Acquisto che mostrava il petto ai tedeschi, faceva mostra di sé dentro una pesante quanto esagerata cornice dorata. Sul piano della scrivania, tra fascicoli e denunce, c’era la foto della moglie - una bella donna dai tratti tipicamente meridionali - che sorrideva con una dolcezza tale da rendere quell’immagine simile ad un fiore sbocciato in pieno deserto.
Il militare, dietro la sua vecchia scrivania, stava parlando con un uomo di circa quarant’anni, la cui espressione tradiva uno stato d’animo che poteva definirsi senza ombra di dubbio con una sola parola: paura.
– Signor Crespi, lei si recherà all’appuntamento, così come le è stato intimato nella lettera minatoria che ha ricevuto. Metterà il sacco con i soldi davanti al cancello del cimitero, mentre i miei uomini saranno nascosti nella siepe antistante. Stia tranquillo, perché ci saremo noi a proteggerla, qualsiasi cosa dovesse accadere.
L’orefice annuì, visibilmente in ansia per quello che sarebbe potuto succedere dopo poche ore e, mentre provava il corpetto antiproiettile, scomodo e pesante - al punto da fargli sentire un vero e proprio dolore fisico alle sue gracili spalle - i suoi pensieri erano rivolti alla moglie che, messa al corrente di ciò che stava avvenendo, era stata colta da malore.
– Signor Crespi, ha fatto bene a rivolgersi a noi. – Continuò a dire il maresciallo Alfieri, mentre notava la preoccupazione dipinta sul suo volto. – Fossero tutti come lei, a quest’ora avremmo risolto metà dei problemi della delinquenza che imperversa in questo paese. Purtroppo ci imbattiamo spesso nell’omertà delle persone, che, anziché denunciare, preferiscono tacere, incoraggiando il proliferare di queste azioni criminose. Quello che non capisce la gente di questo posto è che questi ‘signori’ iniziano con richieste quasi irrisorie, come nel caso suo, ma una volta mostrata la propria debolezza, la mala pianta si attacca allo sciagurato che ha ceduto alla prima richiesta e man mano il prezzo da pagare diventa sempre più alto.
– Manca poco più di un’ora all’appuntamento… – stava dicendo Pierluigi a Nicodemo – … nel frattempo abbiamo tutto il tempo di mangiare qualche biscotto preparato da mia madre. Ti va?
– E me lo chiedi? Lo sai che vado pazzo per le cose che prepara la tua mamma. È una cuoca straordinaria!
Si recarono in cucina dove ancora si avvertiva il tepore del forno elettrico, spento da pochi minuti; nell’aria aleggiava un profumo che faceva venire l’acquolina in bocca, mentre sulla tavola troneggiava una gigantesca ciotola stracolma di fumanti biscotti.
– Prendete pure, ragazzi. Li ho appena sfornati! – esclamò la signora Teresa, sorridendo. I due amici non se lo fecero ripetere due volte e iniziarono a mangiarne a volontà. A loro si unì, poco dopo, il fratello maggiore di Pierluigi, Alessandro, che tra un biscotto e l’altro iniziò a fare domande.
– Sentite un po’, voi due! È un po’ che vi tengo d’occhio: cosa state combinando? Siete sempre così misteriosi, non è che mi state nascondendo qualcosa?
I due ragazzi si guardarono negli occhi, senza parlare.
– Non lo so… – continuò Alessandro, mentre continuava a rosicchiare un altro biscotto – … è che avete uno strano modo di fare ultimamente, sempre a parlare tra voi, a bassa voce, come se non voleste farvi sentire.
– È meglio che tu non sappia niente, altrimenti saremmo costretti ad ucciderti! – esclamò Nicodemo con un’espressione volutamente ironica.
– Per me voi guardate troppa televisione. Dedicatevi un po’ alle donne, che è meglio. – Disse Alessandro, mentre si allontanava dalla cucina.
– Pensi si sia accorto di qualcosa?
– Non credo. Stai tranquillo, mio fratello è innocuo.
– Se lo dici tu.
– È quasi ora. Prepariamoci.
– La scacciacani dalla a me: se ad Alberto Crespi gli viene in mente di fare l’eroe ci penserò io a spaventarlo a morte!
– Dobbiamo andare. – Disse il maresciallo Alfieri ai suoi uomini, cinque in tutto. – Ripeto per l’ultima volta quello che dobbiamo fare: Anastasi, Caputo e Angelozzi si nasconderanno insieme a me nella siepe antistante il cimitero, mentre Ruberti e Viscardi rimarranno nell’auto parcheggiata lungo il viale, nel caso vi fosse bisogno di intervenire per inseguire i malviventi. Non sappiamo in quanti sono, ma questo non deve scoraggiarci perché la posizione che andiamo a ricoprire ci è favorevole. Chi ha organizzato questa cosa o non ha pensato bene a cosa andava incontro - dato che il posto si presta ad un’imboscata - o è talmente sicuro di sé da non avere neppure preso in considerazione la possibilità che il gioielliere avrebbe potuto raccontare tutto alle forze dell’ordine.
– Mamma, noi scendiamo! Prendo la bicicletta, ci vediamo più tardi! – esclamò Pierluigi, mentre apriva la porta di casa; pochi minuti dopo erano per strada, diretti al cimitero del paese.
Mancava meno di mezz’ora all’appuntamento ed era ormai buio - il sole era tramontato un’ora prima - e le biciclette dei due amici si muovevano con una certa difficoltà nel traffico di quell’ora, dato che avevano scelto di percorrere la strada principale, anziché quella secondaria.
Si ritrovarono nei pressi del cimitero che mancavano pochi minuti alle diciannove.
– Ci siamo quasi – disse Pierluigi.
– Fermiamoci un attimo.
– Perché?
– Ho bisogno di fermarmi.
– Che c’è? Hai paura?
– Quale paura! Ho solo bisogno di una pausa, prima di proseguire.
Accostarono nei pressi di un muretto, dove sorgeva una pianta di noci. L’amico non lo sapeva ma per Nicodemo quel posto rappresentava qualcosa di più che una semplice sosta: quando era più piccolo - aveva circa cinque anni - suo padre si era arrampicato su quel muretto e gli aveva colto delle noci, proprio da quell’albero. Ricordava ancora la sua meraviglia nel vedere per la prima volta quei strani frutti ricoperti da una spessa scorza di colore verde.
– Queste sono noci – gli aveva spiegato il padre. – Una volta che saranno tolte da questa roba verde che le ricopre, ne uscirà fuori un guscio al cui interno c’è la noce vera e propria. C’è chi preferisce mangiarle fresche, chi preferisce farle essiccare e chi, invece, le cuoce per renderle ancora più saporite.
Erano tre le noci che il padre gli aveva colto ed egli le aveva conservate in una piccola scatola per mesi, quasi fossero state delle pietre preziose. Poi, un giorno, non ritrovando più quella scatola - non si seppe mai come andò perduta - pianse per ore, consolato dalla mamma.
– Adesso possiamo andare – disse risalendo sulla bicicletta.
Nel frattempo Alberto Crespi, con il cuore in gola, stava incamminandosi verso il cancello principale del cimitero di Sant’Antimo con il sacco della spazzatura, al cui interno erano stati sistemati i soldi richiesti. In realtà i soldi erano costituiti da semplici fogli di carta ritagliati su misura, e solo la prima ed ultima banconota di ogni pacco era vera. Quando si ritrovò davanti al punto convenuto si guardò intorno con circospezione e, una volta poggiato il sacco al cancello, si allontanò velocemente.
Nascosto nella folta siepe antistante il camposanto, il maresciallo Carmine Alfieri - arma in pugno - controllava la situazione, assieme ai suoi uomini. Erano le diciannove e sette minuti, quando, improvvisamente, vide arrivare due persone delle quali non si riusciva a distinguere il volto, a causa della scarsissima illuminazione, in sella a due biciclette. Tra i militari ci fu un sussulto, il maresciallo fece cenno di stare fermi. Intanto i due ciclisti si stavano avvicinando sempre di più al cancello. Furono secondi interminabili.
Solo quando uno dei due raccolse, con decisione, il sacco della spazzatura, scattò la reazione.
– MANI IN ALTO! SIAMO CARABINIERI! – gridò con tutta la forza che aveva, il maresciallo.
A quel punto avvenne un fatto che avrebbe reso tutto più complicato. Sarebbe bastato che i due giovani si fossero arresi e, probabilmente, la cosa sarebbe subito apparsa per quello che era realmente: una stupida bravata di due ragazzini annoiati. Ed invece, Nicodemo Verga ebbe l’impulso di tirare fuori quella maledetta scacciacani che si era messo nella cinta dei pantaloni e di puntarla contro il Sottufficiale, che si buttò a capofitto nella vegetazione, per timore di essere colpito.
– Scappiamo! – urlò Pierluigi, mentre pedalava con tutta l’energia che aveva, in direzione di una stradina laterale al cimitero. Nicodemo, preso dal panico, mollò la scacciacani che cadde per terra e seguì l’amico in fuga, pedalando anch’egli con tutto il vigore di cui disponeva. Si sentirono le urla dei carabinieri che intimavano: ALT! ALT! FERMI O SPARO!
E mentre i due ragazzi continuavano a scappare, si udirono due, tre, quattro colpi di pistola. Erano a circa trecento metri dal cimitero, quando in una curva, all’improvviso, Pierluigi si fermò, cadendo dalla bicicletta.
– Che fai?! – urlò l’amico. – Rimonta in sella, dobbiamo andare via di qui, prima che quelli ci inseguono!
Ma il ragazzo non si muoveva.
Nicodemo, allora, si fermò e tornò indietro.
– Che ti ha preso? Stai male? – Preoccupato, abbandonò la bicicletta e si avvicinò all’amico. Fu allora che si accorse che Pierluigi perdeva sangue da un fianco.
– Dì a mamma che le ho voluto bene… – disse con un filo di voce, mentre i suoi occhi erano socchiusi.
– Dio mio, no! Non morire! Non morire!
Si guardò intorno e notò la luce accesa in una casa vicina. Si avvicinò all’abitazione e, accortosi che il cancello d’ingresso era chiuso con una grossa catena, suonò ripetutamente al campanello, ma senza ricevere alcuna risposta. Senza pensarci due volte scavalcò il cancello e iniziò a bussare forte alla porta.
– Aiuto! Aiuto! – gridava, mentre bussava come un forsennato.
Ad un certo punto la porta si spalancò e sull’uscio apparve una donna anziana, visibilmente spaventata. Il ragazzo non fece in tempo a spiegare il motivo di quella sua irruzione quando un giovane - il figlio - comparve all’improvviso e lo colpì con uno schiaffo violentissimo al volto.
– Mariuolo! Esci da casa mia!
– Aiuto! – continuò a dire lui. – Aiuto! Il mio amico è ferito, lo dobbiamo portare in un ospedale, subito!
– Vai via! – urlò di nuovo il giovane.
– No! Non vado via! Aiutami a portarlo all’ospedale! Se il mio amico muore ti giuro che te la faccio pagare!
A quelle parole, e soprattutto per come erano state dette, il giovane cambiò espressione.
– Va bene, ma facciamo presto. Dov’è?
– È a pochi metri da qui.
– Carichiamolo nella mia auto, è parcheggiata qui fuori. Lo portiamo all’ospedale.
– Pierluigi, fatti coraggio! Ti portiamo al pronto soccorso. Non mollare! – disse Nicodemo all’amico, sempre più pallido, prima che lo caricassero in una FIAT 128 con la quale raggiunsero il più vicino ospedale, a soli tre chilometri di distanza.
– Vi lascio qui! – esclamò il proprietario dell’auto, mentre si fermava fuori l’ospedale. – Di più non posso fare!
Appena furono a terra, l’auto schizzò via a tutto gas. Con l’amico tra le braccia, privo di sensi, Verga entrò nel pronto soccorso, chiedendo aiuto all’infermiere di turno.
– Cosa è successo?
– È ferito ad un fianco. Ha perso molto sangue.
Pochi minuti dopo, preso atto della gravità della situazione, Pierluigi Palazzo era già in sala operatoria: un proiettile calibro 9 lo aveva colpito alla milza; bisognava intervenire subito per estrarre la pallottola e impedire effetti collaterali che avrebbero messo in serio pericolo la vita del ragazzo. Nel frattempo, Nicodemo Verga fu avvicinato da un poliziotto che era di servizio al presidio fisso dell’ospedale.
– Sei stato tu a portare quella persona al pronto soccorso?
– Sì, sono stato io.
– È amico tuo?
– Sì.
– Come si chiama?
– Pierluigi Palazzo.
– È stato ferito da un’arma da fuoco. Cosa è successo, esattamente?
Nicodemo guardò negli occhi il poliziotto, poi scoppiò in un pianto liberatorio. Raccontò ogni cosa, nel minimo dettaglio, singhiozzando.
– Vi siete messi in un bel casino – disse l’agente, mentre componeva il numero di telefono della caserma dei carabinieri di Sant’Antimo.
La camera di sicurezza nella quale Nicodemo Verga trascorse la notte era un locale senza finestre, umida e sporca, che misurava appena un paio di metri e mezzo per uno di larghezza. Al suo interno c’era giusto un tavolaccio di legno, privo di materasso e cuscino, sul quale era impossibile dormire. Sulle pareti si potevano notare un centinaio di scritte lasciate da chi era passato per quel posto ed in un angolo c’era un pitale di metallo che emanava un fetore di orina insopportabile. A tutto quello squallore il ragazzo sembrava non farci caso, la sua presenza in quella deprimente camera era solo fisica, la sua mente seguiva un solo ed unico pensiero che lo stava facendo impazzire: che fine aveva fatto il suo amico? Era vivo, era morto? Perché alle sue richieste di informazioni nessuno voleva rispondere? Per la prima volta, in vita sua, si sentì pervadere da un autentico bisogno di affidarsi a Dio. Quel Dio che aveva conosciuto solo attraverso le raffigurazioni sui libri, quel Dio che aveva sentito nominare nelle noiosissime lezioni di religione a scuola o nei sermoni delle messe domenicali, quando andava in chiesa solo per vedere le belle ragazze del paese. In quel momento, per la prima volta nella sua breve vita, Nicodemo si ritrovò a pregare. Lo fece in silenzio, con tutto sé stesso, mentre le lacrime gli rigavano il viso. – Dio Mio! Salva Pierluigi, non permettere che egli muoia! È così giovane… – Poi, i suoi pensieri furono per i suoi genitori: provò ad immaginare il dolore che avevano provato alla notizia di quello che era appena successo e si sentì terribilmente in colpa.
– Cosa ho fatto…Signore mio, aiutami! Cosa ho fatto…
Ci sono dei momenti, nella vita, nei quali una persona desidera con tutto sé stesso poter tornare indietro con il tempo, per evitare errori imperdonabili. Errori dei quali ci si rende conto solo una volta averli commessi.
Egli, in quel momento, avvertiva tutto il peso di quello che stava succedendo ed era consapevole che era solo l’ inizio di un incubo.