Alessandro Gabrielli
Invisibile

Invisibile
Prezzo Fiera 15,00
Prezzo fiera 15,00

Non riuscirete più a staccarvi", Il Messaggero. "Non vi farà dormire di notte", La Repubblica. "Si legge tutto d'un fiato dalla prima all'ultima pagina", il Corriere della Sera. Sono titoli inventati. Se vi attirano, comunque, non comprate questo libro. "Invisibile" è fuori da tutti gli schemi, o, meglio, questa è la sua ambizione. Racconta le gioie sessuali di una coppia e di un loro amico. E lo fa in maniera schietta e genuina. È, in più di un senso, un romanzo bio (logico), che inquadra, in soggettiva e senza pregiudizi, tre mammiferi liberi che ballano su quel confine tra desiderio e parafilia, tanto sottile da costringerli a farlo al riparo dal giudizio degli altri, delle cosiddette persone perbene, quelle che vanno in vacanza in crociera e che si indignano per i privilegi della casta. Il resto lo troverete scritto all'interno, è perfino stucchevole dover riempire questa quarta di copertina con le solite banalità studiate per accattivare. Non è una trovata stilistica, ma una rottura vera.

Primo capitolo

BIGLIETTI PER FAVORE

Oramai non ci si può più perdere. Neanche quando si girovaga per città totalmente sconosciute. E tutto sommato è un peccato. La verità è che siamo in ritardo, altrimenti non avrei mai acceso il navigatore del cellulare. E’ sufficiente digitare “Theaterplatz 2” per avere, nel giro di un secondo, due itinerari. Io e Eric sembriamo due figurini nei nostri completi eleganti e questa cosa proprio non è da noi. Non soltanto la foggia. Un viaggio di due giorni per assistere alla rappresentazione di un’opera lirica è qualcosa a cui non avremmo mai pensato, neanche nei nostri sogni più distratti. Almeno fino a qualche anno fa. Noi cresciuti con i Duran Duran e le Bananarama. Sarà forse che il sopraggiungere della mezza età porta altre prospettive. O forse, più semplicemente, e teneramente, che dopo i quarant’anni quell’insano desiderio di trasgressione adolescenziale si ripresenta in una forma più sottile e salubre. Dresda è una città relativamente nuova. Il bombardamento subito durante la Seconda Guerra Mondiale dagli eserciti alleati l’ha di fatto rasa al suolo. Osservare le foto del centro sfigurato dalla gragnuola di ordigni lascia, nonostante tutto, un po’ di amaro in bocca. Vedere quella selva di palazzi sciolti come ghiaccioli mi fa immaginare le vite che vi scorrevano all’interno: madri, padri, figli, amanti, puttane, e portieri. Anche alla Semper Opera House, qui nota semplicemente come Semperoper, non toccò sorte migliore. Anzi, a dire il vero questo edificio è stato doppiamente martoriato. Venne costruito verso la metà del Diciannovesimo secolo e la sua architettura vagheggiava al Colosseo. Curiosa questa cosa. Potrebbe essere stato un richiamo inconscio a indirizzarci qui, in questo sito di interesse subliminale fuori dai cataloghi dei tour operator. Suggestioni che lasciano il tempo che trovano. Da ultra quarantenni mi verrebbe da dire. Certo la sala ebbe vita breve perché, appena venticinque anni dopo, un incendio la cancellò dalle mappe della città. Quindi, le granate inglesi e americane che la riportarono ad essere cenere, nient’altro furono se non una recidiva. Polvere eri e polvere ritornerai. Eric mi assesta un colpetto sulla spalla. «Avevi della polvere sulla giacca» «Stai a vedere che aleggia davvero qualcosa di esoterico su questo cielo» «Cosa?» «Niente, riflettevo ad alta voce» Il velluto rosso mi rimanda inevitabilmente, chissà, probabilmente per estensione, alla massoneria. Che solo in tempi recenti, visitando il castello di Compiano sull’appennino parmense che ospita una ricca collezione sul tema, ho scoperto anche in una accezione non negativa. Sarà per questo che le balconate dei teatri si chiamano logge? Fa molto Dan Brown applicare il backmasking all’etimologia di un vocabolo così snob e noblesse oblige anziché a un disco dei Rolling Stones. I voli pindarici, occasionalmente, sono divertenti, che atterrino su un vinile suonato al contrario oppure sulla seggiola imbottita di un teatro dell’opera non fa poi tanta differenza. Ci alienano dalla realtà. Ma con brio. Eric si scruta intorno senza ritegno. La cosa mi imbarazza un poco e quindi cerco di distrarlo. «Hai intercettato qualcosa di gradevole?» «C’è una signora sui quarantacinque con un vestitino rosso. Ha un paio di scarpe aperte, mi pare. C’è la colonna di marmo che mi copre la vista» «Vai in bagno e, passando, osservala meglio» «Buona idea. Vado» Sono tutti eleganti e ricercati fino all’accessorio. In alcuni casi è apparenza di cartapesta, come quella di noi omologati che abbiamo lasciato jeans e t-shirt nell’hotel a tre stelle prenotato su Booking. In altri è una vera e propria attitudine, di quelle spocchiose di chi tiene il mento qualche grado più in su come lo split di un condizionatore regolato male. Queste colonne che limitano il voyeurismo e l’esibizionismo sono impregnate di sussiego e sopportazione per madri, padri, figli, amanti, puttane, e portieri, tutti sfarzosamente acconciati. «Avrà tra i quarantacinque e i cinquant’anni, portati benissimo. Fisico tirato e polpacci solidi. Smalto rosso in pendant col tailleur, un po’ volgarotto ma consono all’ambiente» «E’ sola?» «Con il marito. Credo. Leggermente più anziano, ma fondamentalmente un bel signore anche lui» «Qualche tempo fa ho letto, non so più dove, che durante una rassegna senese è stata portata in scena un’opera ispirata ai testi della controversa scrittrice statunitense Anaïs Nin, peccaminosa prosaica antesignana delle moderne markettare di libri da autogrill. Markettare con la k» «Cioè?» «Neologismo sincratico risultato della fusione tra marchetta e market, con declinazione popolar-dialettale quale contrappeso alla ostenta xenofilia. Sono ampolloso e magniloquente quanto il mio personaggio, oggi» Eric ride. «Una mercattara» «Esattamente. Questo posto brulica di mercattare» «E di mercatare» Triste canto!... Il tripudio dei sacerdoti... Il nostro inno di morte... Né le mie forti braccia smuovere ti potranno, o fatal pietra! Invan!... tutto è finito sulla terra per noi. È vero! È vero! Le colazioni continentali degli hotel, che a casa non facciamo mai, ci fanno sentire a casa. «Un paradosso gustoso» L’avventura germanica volge già al termine. La stazione si raggiunge a piedi ed è particolarmente piacevole trascinare il bagaglio a mano nella sonnolenza di strade svegliatesi da poco. «L’ordine e il senso civico che ci sono qui, uniti al decoro urbanistico e urbano, mi fanno pensare che non sarebbe male viverci, ma forse adattarcisi sì» «Sono d’accordo» I convogli sono puliti e puntuali. Ci accomodiamo in seconda classe e ci rilassiamo all’incostante tran tran delle ruote metalliche. Un paio di posti più in là ci sono due ragazze francesi. Non sono belle. Anzi, nel complesso rasentano appena la sufficienza nella scala di giudizio sessuofobo di noi maschietti dall’intelletto medio. Si sono tolte le scarpe da ginnastica e hanno appoggiato i piedi sull’imbottitura delle poltrone di fronte. Una di loro, quella dal lato corridoio, si è spogliata anche dei calzini di spugna a righine orizzontali colorate e li ha appallottolati nelle nike rosa riposte sotto la seduta. Eric appoggia una mano sul mio avambraccio. «La senti la fragranza?» La sento. E mi inebria. Adoro gli effluvi podalici. La presa di Eric si fa sempre più stretta mentre le sue labbra si serrano. Ha sicuramente la salivazione aumentata e dalla pressione dei suoi polpastrelli percepisco una improvvisa tachicardia, che è confermata dal rigonfiamento della sua patta. Cerca di inclinare il busto per scansare gli schienali frapposti alle transalpine. Il suo respiro è più forte del solito, sta annusando come un cane da cerca mentre una gocciolina di sudore che imperla la sua fronte inizia la sua discesa verso gli inferi. Sapere Eric così eccitato mi provoca un lungo brivido. E il brivido mi genera un’idea. Recupero il trolley dalla cappelliera e sparisco nella toilette. Quando Eric mi vede fuoriuscire ha un sobbalzo trattenuto a malapena, che subito si trasforma nel sorriso di chi capisce che è il caso di stare al gioco per scoprire cosa succederà. Gli passo accanto nel completo blu scuro che abbiamo scelto insieme, dopo che mi ha dissuaso dalla scelta di uno smoking vintage un po’ troppo oltre le righe. Bisbiglia qualcosa che non capisco. Mantengo il mio contegno e, assumendo con le labbra una postura da molossoide rustico, alzo spropositatamente il tono delle corde vocali. «JAWOHL» Poi passo avanti e raggiungo le due galliche. «Ticket?» Evito di girarmi a guardare Eric altrimenti scoppierei a ridere. La più grande delle due, che avrà non più di venticinque anni e stava dormendo con la testa poggiata sul finestrino, tira fuori dallo zaino due biglietti e me li porge. Fingo di guardarli con attenzione e poi, lestamente, ne lascio cadere uno a terra. Mi inchino per raccoglierlo e il mio naso sfiora l’alluce della biondina. L’esalazione è davvero corposa, come un buon vino d’annata. Cedo alla tentazione e inclino il collo per guardare indietro. Eric si sta pizzicando con tre dita il rigonfiamento che gli deforma i Levi’s. E’ visibilmente fuori di sé. Il mio pene sussulta e il glande urta gli slip che si infrangono contro il jersey troppo elegante perfino per un capotreno tedesco. Raccolgo il titolo di viaggio inalando silenziosamente ma in profondità, come avrei dovuto fare da bambino quando mi rifiutavo di fare l’aerosol. La mano libera si insinua nell’oscurità, afferra entrambi i calzini e, mentre mi tiro su, li lascia scivolare in tasca. La ragazza guarda la mia vita, sorride divertita e si gira a scambiare una battuta in francese con l’amica. Il sorriso sfocia in due risate. Mi stanno prendendo in giro. Estraggo la penna dal taschino della giacca. E’ il mio dettaglio vincente. Fingo di scarabocchiare qualcosa e restituisco i biglietti alla mademoiselle impertinente che mi sfiora le dita. Proseguo. Quando sono nel vano tra la nostra carrozza e quella successiva faccio cenno a Eric di raggiungermi con le valigie. Ci sediamo senza una parola. «Com’erano da vicino?» «Chiudi gli occhi» Stranamente esegue senza chiedere spiegazioni. Faccio ciondolare un calzino umidiccio a un paio di centimetri dal suo naso. «Mmm…» «Cosa c’è?» «Mi sembra di sentire ancora quell’odore» Gli altri lo chiamerebbero miasma. Le persone normali. «Non aprire gli occhi. Immagina di avere le loro dita fetide a un centimetro dalla tua bocca» Osservo l’oscuro onirico materializzarsi nella punta della sua lingua che assaggia l’aria. Ci lascio sprofondare sopra il feticcio trafugato. Come per uno spasmo nervoso ritrae l’organo papilloso in un colpo secco e spalanca le palpebre. «Noooooo. Non ci credo. Sei un genio!» Il souvenir spugnoso è suo e, così su due piedi, intercalare che calza a pennello, no?, mi sembra che gli piaccia molto di più di un magnete da frigo con la scritta Dresden. Se lo passa e ripassa sul viso inspirando profondamente. E’ come in trance. Eric si alza e, stavolta, è lui a sparire in bagno. So esattamente cosa sta facendo, mi ha raccontato mille volte di come si masturba. Mentre le sue narici vanno in overdose si sveste del prepuzio e, coperto dallo sferragliare, miagola ai binari. Il suo organo diventa sempre più gonfio, proprio come sta facendo il mio. Seduto e composto, dalla tasca estraggo l’altro gambaletto. Mi infilo in bocca la punta e premo il tallone sul naso. Le emanazioni sono severe. Mi sembra quasi di sentire Eric sospirare mentre fa indossare il tait al suo Radamès, prima di iniziare a renderlo schiavo, scarabocchiando un libretto sopravvissuto intonso per quasi due secoli. L’altra mia mano, nel frattempo, si è fatta ancora più audace. Ho abbassato la cerniera dei pantaloni. Gli slip sono già bagnaticci. Tengo fermo il glande premendolo alla base con indice e medio mentre con il pollice eseguo movimenti circolari sull’asta semi tesa. Non smetto di zaffare il mio naso impenitente e di masticare la fibra, non commestibile ma divinamente condita. Eric se lo starà menando come un forsennato. Anche il mio pollice è sempre più veloce. Lui starà immaginando me, simulato da controllore, in piedi davanti alle due puttanelle che mi dicono che non hanno il biglietto. «Che facciamo stronzette, pagate o no?» «Ne comprenez pas ce que vous dites. Nous avons pas de l’argent… s’il vous plait…» Mi siedo di fronte a quella scalza che prontamente ritira le gambe per farmi spazio cercando di tenere le estremità sollevate dal pavimento del vagone. Le faccio cenno di riallungarle. Si scambia uno sguardo con l’amica ma stavolta non ridono. Un fremito di esitazione le attraversa gli occhi. E’ soltanto un barlume. Il suo piede sinistro è su una mia coscia, l’altro nella mia mano. Ne accompagno uno sul mio viso e le mie fauci lo ingoiano fin dove possibile. L’altro ha delle dita prensili che mi massaggiano lo scroto. Quella con la faccia da Maria Antonietta, allora, si mette in ginocchio al nostro fianco, estrae il mio cazzo durissimo e inizia a succhiarlo senza preamboli. Eric, due sedili più indietro, ci osserva avido di dettagli mentre si sega con veemenza. «Brava Salope, riempimelo bene di saliva e muovi quel fondoschiena da urlo» La troietta, quasi avesse capito, abbassa gli short inguinali scoprendo la vagina perfettamente rasata e delle natiche d’abete bianco. Non capisco neanche quando ho iniziato a incularla, so solo che è la cosa più bella che mi sia mai capitata. Insisto colpi inesorabili nel suo ano. Urla. Anche la sua amica si è denudata e, assumendo pose da contorsionista come solo una ventenne potrebbe, mi mette la chatte poilu sulla bocca e preme delicatamente per farmela assaggiare tutta. Con un paio di dita esploro anche le sue cavità rettali mentre il mio palato inizia a bearsi dei suoi umori.  Eric gode a voce alta. «Sfondale!» Il suo incoraggiamento è soltanto un surplus. Potrei andare avanti per ore fino a morire felice. Eric è davanti a me. E’ appena tornato dalla toilette e ha un ghigno soddisfatto. «Sai cosa ho fantasticato? Che tu chiedevi il biglietto a quelle due troiette ma non ce l’avevano. Allora te le scopavi senza pietà mentre io vi guardavo e mi masturbavo» Anch’io. «Mi sono messo il calzino a mo’ di preservativo e ci ho sborrato dentro» Anch’io. «Vado a cambiarmi, non ce la faccio più a stare dentro ‘sto vestito» «Tieni, metti i calzini ripieni in valigia. Il mio è questo un po’ più liso» Mentre torno a sedermi cerco di sbirciare nel vagone precedente. Si vede solo il sedile di fronte alla biondina ma dei suoi aromatici piedini non c’è traccia. Avranno cambiato posto anche loro? O magari hanno capito tutto e sono andate a denunciarci al vero capotreno? Ho il cuore che pompa a ritmi da rap mentre faccio capolino. Sparite. Però le loro cose ci sono ancora. Oh, eccole dove sono. La mia preferita è in bagno, all’altro capo del vagone, mentre quella coi biglietti fa la guardia fuori dalla porta. Le scarpe le hanno lasciate, insieme a tutto il resto, e sono andate scalze. Non sono così igieniste come nella mia proiezione. Prendo i due calzini intrisi di seme, li appallottolo velocemente e li rimetto nelle nike. Poi richiamo Eric e, recuperati i bagagli, torniamo a sederci nel vagone delle meraviglie. Il treno mi culla tra le braccia di Morfeo dove, in incoscienti deliri in Technicolor, le mie maitresse sono diventate perfide e mi deridono beffarde e impenitenti lungo la via Francigena affollata di pellegrini, tutti in Air Max. Eric mi fa trasalire con una gomitata improvvisa su un fianco. «Hector, sveglia. Guarda» Mentre l’amica raduna le borse e ogni altro ammennicolo sparpagliato nel loro spazio, la biondina si sta rimettendo i calzini. Ho puntato lo sguardo sul suo viso, agganciando i suoi occhi come il sistema di puntamento di un caccia. Non voglio perdermi il minimo cenno di espressione. Lei inizia a muovere le dita dentro la spugna per farla aderire meglio. Poi poggia le piante in terra e le ruota per tre o quattro volte su se stesse, come se sentisse qualcosa di bagnato e appiccicaticcio all’interno e cercasse di asciugarlo, immaginando che sia sudore. Infine recupera le scarpe da sotto il sedile, le calza, le allaccia lentamente e si alza. «Au revoir» La mia bella è già sparita oltre la porta divisoria dello scompartimento. L’altra si è voltata distrattamente abbozzando un sorrisino, prima di rispondere al saluto e sparire anche lei.

Specifiche

  • Pagine: 156
  • Anno Pubblicazione: 2020
  • Formato: 150*210
  • Isbn: 978-88-31243-25-4
  • Prezzo copertina: 15€

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