Vesna Stanić
L'isola di pietra

L'isola di pietra
Prezzo Fiera 12,00
Prezzo fiera 12,00

L’isola di pietra
Prefazione di Predrag Matvejevic (candidato al premio Nobel 2016) - Postfazione di Mia Lecomte (Poetessa)

 

I complessi percorsi di formazione della Repubblica Federale di Jugoslavia dagli inizi del ‘900 fino alla sua piena indipendenza e alle politiche di non allineamento messe in atto da Tito, rappresentano lo sfondo storico del romanzo. Il dramma del secolo viene letto attraverso la storia della famiglia e in particolare del padre partigiano a fianco di Tito e quindi da lui internato sull’Isola Calva, il campo di concentramento dei prigionieri politici che emerge di fronte all’isola di Rab, in Dalmazia.

 

La scrittura di Vesna Stanic rappresenta
una costante memoria
del mondo e della cultura slava

L'autrice ci trasmette questo testo autobiografico in cui ricompone la storia della sua famiglia e di tutta un'epoca. La tragedia del padre che per aver tenuto fede ai propri ideali, muore giovane dopo la prigionia a Goli Otok (L’isola Calva), diventa materia storica. La vicenda personale, racconta la dura esistenza nella Jugoslavia di Tito.  La postfazione di Mia Lecomte sottolinea l'espressione lirica dell’autrice che trova del resto conferma anche nella sua attività poetica.

Primo capitolo

I ricordi si sovrappongono, sono mescolati alla rinfusa,
come in un ripostiglio dimenticato, tra topi e ragni, coperti
di polvere mai rimossa. Cerco di riordinarli, l’intento è difficile,
faticoso, quanto quello di dare ordine e nesso alla propria
vita.
Ci si può confondere tra gli episodi significativi e non, tra
la tristezza per un piccione morto e il dolore per un padre
scomparso. Un bambino è colpito da quello che gli accade
nell’immediato, conosce solo il presente e per questo soffre.
Il passato si insinua nella nostra vita attraverso la famiglia, i
vecchi come custodi della memoria, i vecchi che tracciano il
futuro. E così noi, bambini di una volta, ci troviamo davanti a
ciò che è già compiuto e che gli altri avevano deciso si dovesse
compiere. Si può scegliere. Quando? Quando le immagini
del passato sono già ricomposte, quando il futuro si è oramai
incamminato sulla strada che forse non avremmo voluto percorrere.
Il nostro territorio è già stato seminato. Dobbiamo
agire sui raccolti. Lì ci divideremo immancabilmente, sulle
scelte presenti e future ci faremo la guerra a parole, o peggio,
dipende da quanto sarà alta la posta in gioco. Dipende dalla
memoria tramandata, dai conti regolati di chi ci ha preceduto,
dalle mete imposte, dai significati dati a una casa, a una
vigna. Ci si può confondere tra il ricordo di affetti mancati e
l’euforia per un mondo pieno di promesse, ci si può sentire
smarriti nella vecchia soffitta, dove le tarme hanno divorato il
giocattolo più caro.
LA CASA
Era l’imbrunire. Sono ferma sul marciapiede, dietro di me i
pioppi oramai altissimi, di fronte la casa. Era rimasta in piedi,
all’apparenza solida, nonostante i mutamenti esterni di tutto
il quartiere. Il malessere della vita al suo interno, lo nasconde
all’occhio del passante. A me che la conosco appare smarrita
come un vecchio albero al quale hanno tolto non solo i rami
attraverso cui respirare, ma anche i ricordi del grano, l’odore
del fiume che, più avanti, a sud della città, scorre adagio attraverso
la pianura, costeggiando la Slavonia e la Bosnia per
chilometri, rotolando le sue acque, proseguendo verso est e
riversandosi nel grande Danubio.
Quelli erano i profumi del nonno mescolati all’intenso odore
di legname e di resina quando, agli inizi del secolo, venne a
dirigere la falegnameria oltre al ponte ferroviario.
Sull’edificio basso e lungo fu innalzato un altro piano dove
il nonno trasferì i mobili e ci mise la nonna a proseguire nel
nobile ruolo di madre di famiglia. Si fermò a quattro, quattro
tentativi andati a vuoto per procreare un erede dal cognome
italiano. Furono invece quattro femmine che crebbero litigando,
portando con sé rancori piccoli e grandi fino alla loro
morte. Quelle rimaste in vita continuarono insieme ai mariti
e ai figli per non perdere l’odio, questo sentimento forte che
ha bisogno di sostegno quanto l’amore.
Intanto lui decise di abbellire quella dimora. All’esterno venne
aggiunto un balconcino di legno intarsiato, con un tetto
altrettanto grazioso dal quale i passeri osservavano la strada
vecchia e polverosa che, stretta e scomoda, si snodava salendo
e, incurvandosi a sorpresa, prendeva il via incrociando la statale
per Belgrado. Il lato sud, dove tutte le finestre si
offrivano al sole, lo rese allegro con una pianta che per
lunghi anni visse in simbiosi assieme alla facciata della casa.
Non era un glicine, misterioso e sensuale, né le rose rosse
invocanti le passioni che divennero il suo ornamento,
ma una semplice vite d’uva. Il nonno aveva
messo a sua disposizione le sottili stecche di legno,
ed essa, vista l’accoglienza, in pochi anni trovò il modo
di abbracciare quasi tutta la superficie. Generava grappoli
piccoli, scuri, spessi. - E’ moscato, uva pregiata - diceva lui.
- Immangiabile - sentenziava la nonna. - Tutta buccia, solo
buccia! -
Imperterrito e orgoglioso di questo frutto, lui continuava a
offrirlo, ai primi di settembre, a tutti i componenti della famiglia.
Prima di essere restituito alla madre terra faceva da
corredo alle stanze, aggiungendo un po’ di colore ai mobili
scuri di buon legno, solido, cupo.
Dieci anni dopo la guerra, la seconda, alla strada tolsero quella
curva dispersiva che ti coinvolgeva in una sosta, essendo
situata ai suoi margini la casupola dove si potevano comprare
pane, latte, salsicce calde, birra, sigarette e anche il tempo libero
di una donna sola, che vendeva tutto quello che c’era da
vendere, dicevano. Una donna non più giovane, o forse tale la
vedevo, taciturna, bruna, imbronciata.
- Sorride ai camionisti - sosteneva mia madre sottovoce.
Tolsero così la curva, tagliarono un pezzo della casa come se
fosse una torta, raddrizzarono la strada. Ora passava diritta,
moderna, larga. Molti anni dopo decisero di sradicare la vite
dai grappoli neri per ridipingere la facciata. Il lillà, l’albero dai
fiori profumati del vicino, prima di subire la stessa fine ebbe
modo di rallegrarci con la sua presenza. Quando le nuvole
erano ancora basse e grigie, quando la luce si insinuava attraverso
gli stretti corridoi della pioggerella di primavera quel
lillà era annuncio di colore. I grappoli di fiori, quasi fossero
frutta gustosa, ci appagavano in mancanza di un panorama
migliore. Alcuni rami si affacciavano sul nostro cortile sconfinando
sulla staccionata alta, di legno. Il nonno diceva che
di regola quei fiori erano nostri, e noi lieti di questo diritto
di comproprietà tagliavamo i rami più belli riempiendo tutti
i vasi di casa. Era un altro modo per risparmiare, argomento
primario nella famiglia Tassotti.
Il lillà non c’è più, e nemmeno la casa di fronte. Non mi
dispiace, perché quell’albero credo fosse un testimone triste
di un mondo pieno di rancore, odio, pettegolezzi. Dalla sua
posizione non poteva osservare niente di positivo, all’infuori
di qualche volata dei nostri piccioni prima che morissero durante
un inverno particolarmente freddo. Forse è un errore
il mio, forse quell’albero avrebbe voluto affondare le proprie
radici nella terra ancora per molte stagioni, ma io non provo
nostalgia né per lui né per il tempo trascorso tra quelle mura.
Entro in casa, salgo le scale di legno che scricchiolano come
allora, non sento paura o tristezza. C’è il silenzio che regna assoluto.
Sono di nuovo nel ventre di una madre difficile ma conosciuta.
Mi siedo sul mio posto di sempre, quello di fronte
alla finestra. Le immagini vengono da sole, escono dalla mia
mente, si sentono libere di agire. Odori, suoni, movimenti
delle persone che mi vissero intorno mi raggiungono come
delle aggressioni notturne, irrompono nella mia vita quando
sono meno preparata, echeggiano le voci conosciute, prendono
forma quelle raccontate.

Specifiche

  • Pagine: 168
  • Anno Pubblicazione: 2020
  • Formato: 122x188
  • Isbn: 88-6086-172-6
  • Prezzo copertina: 12,00

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