Una discesa agli inferi fra delitto, colpi di scena, rivelazioni sconcertanti. Un romanzo sul senso di colpa, un romanzo mistico. O un innamoramento.
“Sapeva trascinare il desiderio allo scoperto – in mare aperto – dove i sensi si disorientano e dunque sono più accesi, più vigili, più acuti”.
L’AUTORE
Gian Pietro Elli, giornalista e scrittore comasco, classe 1963, ha pubblicato “Eva Kant” (Lietocolle), il reportage “La Ticosa non c’è più” (Pozzoni), il racconto lungo “C’eravamo eccome” (Ibis edizioni) e, per i tipi di Pietro Macchione editore, le raccolte “Indecenze” e “C’è tempo per tutto”.
Ho visto il Diavolo. Era un uomo da romanzo ottocentesco. I baffetti sottili, i capelli impomatati all’indietro (rilucevano al sole). Non aveva gravità poiché era semisdraiato sulla siepe di ligustro, squadrata dal giardiniere il giorno prima, le gambe allungate e il busto leggermente inclinato in avanti, il gomito destro a puntellare la postura da dandy. Lo sovrastavo dal balcone dove stavo fumando. Intento a scrutare il profilo dei monti all’orizzonte, ero stato attratto da una presenza bruna sotto di me, distante pochi metri in linea d’aria; avevo abbassato lo sguardo e – una contrazione allo stomaco – lo avevo messo a fuoco. Indossava un completo scuro a righe; dalla camicia bianca, inamidata e tesa, sbottonata sul petto, sbucava un folto pelo nero. Sul volto, dall’incarnato pallido, un’espressione noncurante di ostentato disinteresse. Il bellimbusto non affondava nella vegetazione, come invece sarebbe stato logico, considerando che sembrava molto alto e massiccio; senz’altro non era inconsistente poiché notai una cavalletta verderame posata sulla sua gamba destra, all’altezza del ginocchio che poi, senza suscitare il benché minimo moto di fastidio, fece un primo balzo sulla spalla sinistra e, sospinta da un ulteriore schiocco delle zampe, si catapultò altrove. Lui era muto; io, con il cuore in gola. In balia di uno stato di alienazione, tentavo di concentrarmi sulla scena. Mi sembrava di osservarla dall’esterno: cercavo i dettagli o i punti di caduta che l’avrebbero dissolta. Avvertivo un senso di sdoppiamento e di presagio imminente. L’uomo scrutava davanti a sé, in direzione della portafinestra della cucina da cui (era appena scemato il riverbero dei tacchi sul parquet della scala interna) sarebbe sbucata Margot, o come si chiamava. Gridai il suo nome, sporgendomi con trepidazione sul davanzale; era impegnata in una concitata conversazione al cellulare. Me la figurai con l’apparecchio premuto sull’orecchio e il capo chino sulla punta delle scarpe. Entrò infine nella mia visuale, di schiena (la profonda scollatura a V svelava la curva delle natiche nude). Il tempo accelerò di colpo e affrettatamente formulai un pensiero contradditorio e deforme: Margot si sarebbe imbattuta nello sconosciuto, però non l’avrebbe veduto del tutto (per oscure ragioni, ero convinto che l’apparizione fosse riservata a me). Continuavo a osservarmi da fuori; l’immagine della mia bocca spalancata e afona, come ingrandita dalla rotazione di uno zoom, si sovrappose al primo piano di una lama lunga e ampia – selvaggia, primitiva – chiazzata di macchie brune, stretta nel pugno del misterioso visitatore. Non ci fu il lancio. Né un movimento, né un baluginio. O il sibilo della frizione nell’aria. La visione successiva era già un’esibizione di orrore compiuto, quello della faccia di Margot reclinata all’indietro, mostrata a me che le stavo sopra, con il coltellaccio conficcato di taglio nella carotide. Era stata colpita con un fendente talmente violento che l’ultimo spasmo vitale – un fiotto di sangue – completò per inerzia la decapitazione, recidendo nervi e cartilagine, come ferro che reseca il crudo. La testa della donna rotolò sul prato, terminando la sua corsa fra il bidone dell’umido e il sacco dello sfalcio. Soffocai un urlo. Un repentino conato di vomito mi piegò in avanti. Il fiotto inondò la ringhiera e sgocciolò di sotto – tac, tac, tac – con una surreale cadenza rallentata. Lo scorrere delle nubi allagò lentamente il prato con un’ombra soffusa che investì l’individuo, imperturbabile e indecente nella sua posa di flemma perversa. Satana, infine, sollevò il viso, prima alle nuvole in cielo. Poi verso di me. Ci fissammo. Per un lunghissimo istante breve. Aveva pupille rosso brace. La sua occhiata, una raggelante fiammata.
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