Penso che la cosa più eccitante, creativa e fiduciosa nell'azione umana sia precisamente il disaccordo tra diverse visioni del giusto, dell'ingiusto, del buono e del cattivo e così via. Nell'idea dell'armonia e del consenso universale, c'è un odore davvero spiacevole di tendenze totalitarie, rendere tutti uniformi, rendere tutti uguali. Alla fine questa è un'idea mortale, perché se davvero ci fosse armonia e consenso, che bisogno ci sarebbe di tante persone sulla terra? Ne basterebbe una: lui o lei avrebbe tutta la saggezza, tutto ciò che è necessario, il bello, il buono, il saggio, la verità. Penso che si debba essere sia realisti che morali. Probabilmente dobbiamo riconsiderare come incurabile la diversità del modo di essere umani.“ Zygmunt Bauman
Primo capitoloQuella notte Claudia aveva deciso di vivere senza orologio, il suo Tempo era ballerino. Scandiva i momenti delle giornate con la luce, le ombre e le sfumature: quelli della notte con i rumori striduli o sincopati delle macchine. Aveva affinato in ventiquattro anni scoloriti e privi di scosse un senso speciale per le cose indefinite, si muoveva con una bussola unicamente sua e tutto sommato si orientava nemmeno male nei passaggi della vita. I suoi ragionamenti erano come i suoi vestiti: accatastati addosso senza un preciso ordine o un gusto scelto, la facevano apparire sempre uguale e nessuno sarebbe mai stato in grado di ricordare cos’avesse indossato o cos’avesse detto il giorno prima. E così parlava al mondo, semplicemente, occupandosi dell’essenziale senza star lì a immaginare o fare autopsie alle parole che altri riversavano nelle sue orecchie. Era abbastanza felice, di una felicità sua, senza lampi e senza scintille, ma felice. A volte s’imponeva di pensare, e diceva a se stessa che – in fondo – non aveva dove cazzo appoggiarla la sua supposta felicità: e allora sudava, la tensione del pensiero complesso la rendeva inquieta e fragile e s’impegnava a cambiare subito la direzione delle onde, dedicandosi ad altro. E le riusciva bene, rientrava in un alone di spensieratezza imposta che la rendeva, se non felice, perlomeno estranea ad angosce proprie di un’esistenza vera. Aveva costruito una barriera di rivalsa, un simulacro di vigilante vendetta nei confronti dei colpi maligni che la vita, bizzarra e puttana, le riservava con ripetitiva tenacia. Non era fatta per sciogliere nodi, non tendeva corde. Le persone che la conoscevano non la descrivevano mai, era difficile trovare parole che la definissero, aggettivi che la colorassero, verbi che ne rendessero un’idea compiuta. Aderiva semplicemente alla normalità, e ne era persuasa e sazia. La cameretta nella quale dormiva si trovava al terzo piano di un palazzo triste e dava su un incrocio siderale. Era una stanza lieve, la ricompensa che si era concessa, le rimandava odori di terra e semplicità. Oltre il letto poche cose, nessuna indispensabile. Non aveva mai deciso cosa mettere alle pareti per renderle meno pallide, ostinatamente evitava di scegliere una fotografia piuttosto che un poster, o un quadro invece di un telo dipinto. Non un libro, non musica: solo un televisore portatile, due comodini, un armadio liberty, residui stantii di mobilie smembrate da tempo. Era così, non pretenziosa, incerta, come un uccello con una sola ala, zoppa alla vita e tessitrice di percorsi lineari. All’angolo dell’incrocio sul quale dava la sua finestra troneggiava da padrone assoluto un semaforo. Lei era riuscita - nel tempo - a stabilire l’ora distillando i rumori delle macchine che rallentavano, fermavano e ripartivano agli ordini del lampeggiante tiranno. La notte, poi, riusciva a centrare alla perfezione: spesso si trovava a confrontare la “sua” ora con una radiosveglia che occhieggiava accanto al letto, unico collegamento col tempo, legame necessario e perciò tollerato, vigilante notturna da prima che si manifestasse il “dono”. Lo scarto era talmente minimo e a volte inesistente che Claudia si scopriva a sorridere da sola nel caldo tepore della lusinga. Non era nata in maniera costruita questa singolare tendenza all’evanescente e inutile padronanza di qualcosa così aleatorio. Una notte era particolarmente accaldata, eccitata, di una frenesia irritante ma spiegabile nei rumori ovattati dell’oscurità, alla quale Claudia diede conforto – come spesso faceva- notando subito dopo la singolarità, da lei ritenuta esclusivamente sua, di darsi pace alle 2:30 della notte, in pieno risveglio. L’ora la dettarono i suoi sensori e le nacque istintivo e immediato ruotare lo sguardo acquoso e stanco verso il totem intermittente al suo fianco, e notare con sfinito stupore che aveva centrato l’ora al minuto. Percepire in maniera così precisa e compiuta qualcosa che, nell’istante stesso in cui viene afferrata viene persa e passa senza residuare tracce né segni, aveva senso solo per Claudia, e quindi non aveva senso. Lei però si sentì invasa da un lampo di soddisfazione, la cosa la fece vibrare, si verificò ancora e poi ancora fino a quando Claudia non divenne certa di avere almeno una dote non comune ad altri: un dono, secondo la sua visione debole. Ne fu gratificata intimamente ogni volta. Il suo compiacersi con se stessa, però, nel mezzo della notte – data la rara evenienza di qualcosa che la rendesse così importante e centrale - la faceva deragliare dalle rotaie del sonno giusto quel tanto che bastava a non rientrarci. E allora, gazzella contro i leoni, si faceva preda dei suoi stessi pensieri, ospiti inattesi e sempre ostili. Quella notte, in particolare, non riusciva a ricollocarsi nella sintonia necessaria: mentre demoni beffardi nuotavano come ombre di fantasmi nella sua mente fu colpita da un particolare. Erano le 3:08, l’ora nella quale soste e partenze spandevano rumori ovattati e perfettamente ritmici nel sincopato flusso del traffico, scarso e torpido. Ma quella notte Claudia venne distratta da qualcosa d’insolito, estraneo alla consolidata cortina avvolgente e protettiva del buio e dei suoni nell’aria calma. Come la stecca di un musicista durante l’esecuzione armoniosa della sinfonia mille volte eseguita deturpa un equilibrio creduto eterno. così un motore fermo, cieco agli alterni colori del torreggiante semaforo e sordo allo stridore nevrotico di altre macchine, si distingueva e affiorava dalla notte. Claudia percepì all’istante la diversità, capì che qualcosa stava deviando dal normale flusso e questa cosa, confondendo la propria immedesimazione temporale, la disturbò. Erano le 3:17 quando decise di alzarsi e guardare cosa stava turbando il suo equilibrio, così stabile e necessario insieme. Alzò la tapparella con lentezza, sia per evitare fracassi molesti sia per un suo naturale senso di paura nell’immaginare che ogni rumore di cui lei fosse causa portasse a calamitare su di sé l’attenzione, critica e malevola, degli altri. Subì cigolii, stridori ma riuscì a sollevare la persiana di legno stinto e sottile, scrostato e scialbo fino all’inverosimile, senza che nessuno ne avesse il minimo sentore. Sembrava una Fiesta, ma lei confondeva sempre queste macchine straniere, e quindi non ne fu sicura e non se ne preoccupò più di tanto. Come non si soffermò sul colore, una di quelle tonalità improbabili ruttate da un tintometro ubriaco che di giorno riesci anche a inquadrare ma di notte diventano miscugli incredibili di colori innocenti. Due sagome si muovevano nell’abitacolo: la luce dei fanali e i riflessi dei fari rimbalzavano dietro i vetri del terzo piano immagini confuse ma non equivocabili. I due si agitavano scompostamente, reciprocamente minacciosi nei movimenti e lasciavano intuire dialoghi non concilianti. Claudia si ritrovò a immaginare conflitti da epopea, ad ascoltare clangori di battaglia e a fantasticare ancora qualche minuto, pensando a quanto sarebbe stato romanzesco se fossero arrivati rinforzi a sedare la mischia oppure ulteriori ostilità a rinfocolare animi accesi. Vide scorrere scene, immaginò di ascoltare frasi sanguigne, scrisse nella sua mente finali, poi in un lampo il suo vagare nel mondo fantastico nel quale spesso si trasferiva fu interrotto e assorbito da ciò che accadde. Erano le 3:28 quando scesero dall’automobile e la prima cosa che Claudia si trovò a domandare a se stessa, la persona meno indicata a offrire qualsiasi tipo di risposta risolutiva a qualunque quesito, fu:” ma perché non spengono quel cazzo di motore?” Ma la sua attenzione fu immediatamente deviata e si spostò sui corpi ormai visibili: maschio e femmina, giovani e tesi allo scontro, li vedeva urlare senza percepire in maniera chiara e distinta suoni o parole ma avvertendo nettamente nel loro astioso confronto un grumo di impazienza, sesso, astio cupo. Claudia circoscriveva le liti tra maschio e femmina sempre in una cornice che sapeva di sesso irrisolto o condiviso, attribuiva a quei conflitti una natura morbosa di matrice perversa che lei invidiava e della quale avrebbe desiderato essere attrice protagonista, maschera in una recita fatta di ambiguità e segreti, di sesso sparso nell’aria e di piacere torbido e sanguigno. Non durò molto lo spareggio. Erano le 3:32 al meridiano di Claudia quando il ragazzo risalì in macchina, lasciando la donna e i loro furori all’angolo livido di quel desolante crocevia. All’istante fu percorsa da brividi senza giusta causa, pensò a se stessa in quella situazione e le viscere divennero terreno malfermo. Venne invasa da un fiotto di calore liquido, come se una sciabola tagliente le fosse passata ad un millimetro dal volto lasciandola tremante e fiacca, si sentì inspiegabilmente coinvolta. «Quella sono io, è Claudia quella poveracrista mendicante sul marciapiedi di fronte» pensò mentre le apparvero all’improvviso davanti agli occhi confuse immagini della sua vita, pellicole nelle quali si era ritrovata ad essere vittima di abbandoni e trascuratezze, anche se mai così violenti e avventurosi, come lei invece avrebbe desiderato, scosse furenti piuttosto di deboli scarti, urla lussuriose piuttosto che flebili gorgoglii vomitati da uomini minuscoli e malmostosi. Quell’abbandono irruento e spietato le scatenò un’eccitazione vivida, si sentì umida e tesa, ma era lucidamente cosciente di non potersi consentire sensualità, né tantomeno di dominarle e sottometterle alla sua conosciuta capacità di trasformare da sola l’intermittente elettricità del corpo in piacere liquido e sfibrante. Erano le 3:34 quando si ritrovò vestita a raccogliere le chiavi e - pur essendo donna dalle decisioni non rapide e riluttante all’estemporaneo agire dettato dall’imponderabile - senza sapere come e soprattutto perché si vide imboccare la porta del suo appartamento. Scese le scale, si sentiva una vela portata da un vento gravido di ansia e tensione: lei che non era capace di slanci e di coraggi si trovò ad affrontare in una notte plumbea e con cupo timore una situazione da eroina di altri tempi. La cosa la faceva sentire arditamente entusiasta, e le piaceva assaporare il vago gusto del rischio mescolato a un indefinito senso di complicità. Nello spazio e nel tempo di sette rampe di scale e di anni e di millenni Claudia realizzò un cambiamento, liberò una sensazione. E più scendeva più si sentiva altra rispetto all’informe grigiore di un’esistenza scialba, sparpagliata nel fumoso territorio che sta tra l’inettitudine e la noia. Le parve giusto - anzi, normale - assaporare il colorato ardore del coraggio e delle decisioni, rinnegare il melmoso sentiero che l’aveva portata nella sua vita adulta e decidere che avrebbe camminato nel tempo a venire con schiena dritta e occhi fiammeggianti di strafottente orgoglio. Si sentiva salvatrice del mondo, templare improbabile dei destini altrui attraverso la sua mano tesa a quella sconosciuta, e avvertiva prematuramente il sollievo procurato ai graffi delle loro anime. E Claudia si vide complice per sempre della donna sparsa sul marciapiede di fronte, immaginò condivisioni ardite e sodalizi femminili audaci e spregiudicati. Si convinse in pochi attimi che l’azzardo avrebbe riempito la propria vita. spampanata come una rosa moribonda, e l’avrebbe trasformata in un groviglio di segreti e ambigue rivalse. S’incorniciò da sola tra coraggi e speranze, respirò libertà mature e compensò infantili mancanze. Nell’istante successivo però tre eventi simultanei e crudeli ricomposero in un soffio di vento le cose di sempre: aprì il portone del palazzo, vide la ragazza salire su una macchina chiara, guardò i fari allontanarsi fino a sparire abbordando una curva crudele. Nel deludente crollo del castello di nuove respirate speranze acquisì la consapevolezza spietata di una condizione comunque nuova, sconfinata. Un tempo eterno distillò le sue pene in quei pochi secondi, e si raddensarono nelle voragini della sua anima le inquietudini che si era illusa ormai appartenere alla sua minuscola vita precedente. Erano le 6:45 quando Claudia iniziò a prepararsi per un’altra giornata di lavoro, uguale a tutte le altre, uguale a tutte quelle che si sarebbero succedute.