Nell’estate del 1997 tutti i giornali parlano della coppia del momento:
la principessa divorziata e il playboy egiziano. Tutt’intorno una ragnatela di potere, politica, affari e servizi segreti. La storia d’amore dell’anno si conclude all’improvviso con un tragico incidente a Parigi. Fatalità o sabotaggio? Per arrivare alla verità non servono poliziotti o detective. Ci vuole Carlo Medina, un killer professionista esperto a sua volta di “morti accidentali”.
Un bestseller scottante che reinterpreta in chiave romanzesca gli indizi di un clamoroso fatto di cronaca, “una storia inventata... ma quanto inventata?” (Il Sole 24 Ore), “un romanzo specchio... che anticipa una verità che forse non verrà mai alla luce” (Andrea G. Pinketts).
Andrea Carlo Cappi, nato a Milano nel 1964, vive tra l’Italia e la Spagna,
ha pubblicato una cinquantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi e, firma con lo pseudonimo François Torrent, la serie Agente Nightshade per
Segretissimo Mondadori.
Co-autore della fiction di Radio RAI Mata Hari, ha scritto romanzi, racconti e
sceneggiature della serie Martin Mystère e un ciclo di romanzi originali con Diabolik & Eva Kant. Tra le sue pubblicazioni recenti: Medina-Milano da morire, Black Zero, Black and Blue e la novità Back to Black.
I
Honni soit qui mal y pense
Agosto 1997
1
In carica da cento giorni, il primo ministro britannico sta considerando un’amnistia limitata per alcuni membri dell’IRA in cambio del cessate il fuoco in Irlanda del Nord. Ma nel contempo il governo applica la censura su un libro che tratta le attività del SAS, le forze speciali britanniche: per ordine dall’alto, ne è stato tagliato un capitolo riguardante l’uccisione clandestina di militanti dell’IRA.
Analoghi episodi di giustizia sommaria, senza processo, sarebbero avvenuti in varie occasioni tanto nel Regno Unito quanto a Gibilterra. Responsabile di queste azioni sarebbe un gruppo segretissimo chiamato “Club delle Forze Speciali”.
Barcellona, 17 agosto 1997
Fuori, il rumore del traffico e il calore dell’asfalto sulla Rambla de Catalunya. Dentro, otto piani al di sopra, l’atmosfera irreale dell’aria condizionata e della filodiffusione.
L’italiano era arrivato il giorno prima e si era registrato al Gran Hotel Calderón sotto il nome di Alessandro Montecchi. Si chiamava in realtà Carlo Medina, ma non quando sapeva che nelle vicinanze si sarebbe verificato un omicidio.
Si fece la barba e con un paio di forbicine sottili regolò i baffi, che ricordavano quelli di Charles Bronson nei film degli anni Settanta. L’ultima volta che aveva impersonato Alex Montecchi aveva dovuto sacrificarli, creando un aspetto ad hoc per sedurre la bella ma inespugnabile manager di una multinazionale svizzera dell’alimentazione. Ma stavolta non c’era bisogno di rinunciare ai baffi. Avrebbe lasciato Barcellona appena finito il lavoro e non prevedeva di ritornarci molto presto.
Aveva sintonizzato la filodiffusione sul canale che trasmetteva brani di colonne sonore ed era stato gratificato da un paio di brani tra i suoi preferiti: uno di Dave Grusin da I tre giorni del Condor e uno di George Martin da Vivi e lascia morire. In quel momento, si sentiva lui stesso come un agente segreto in missione. Non era al servizio di nessuna maestà, ma era dotato di una licenza di uccidere che si era conferito da solo quattro anni prima.
La prima volta che Medina aveva ucciso un uomo era stato per legittima difesa, in un supermercato di Milano. Del resto, come pubblicitario, il mercato era sempre stato la sua arena. In quell’occasione, si era reso conto che la lotta era giunta a un livello superiore: quello in cui occorreva uccidere per restare vivi. Con sua grande sorpresa, la scoperta non lo aveva traumatizzato. Non gli aveva lasciato sensi di colpa. Solo la fredda consapevolezza che la sua creatività poteva essere messa a frutto in altri campi.
In questo caso, più che di campi si trattava di vigneti. Il cliente era Paolo Braccini, titolare di una rinomata azienda vinicola della provincia di Cuneo. Il brav’uomo, che ogni anno produceva un numero limitato di bottiglie di ottimo dolcetto di Dogliani, non era preparato a difendersi dagli squali del business internazionale: un anno prima aveva commesso l’errore di cedere quote della società a un affarista di molti mezzi, pochi scrupoli e pessimo gusto. Nicola Brusa, così si chiamava il pescecane, non sarebbe stato in grado di distinguere un barolo del 1985 dalla Coca-Cola light, ma sapeva riconoscere il numero di zeri su un assegno. E qualche mese dopo Braccini aveva scoperto che la quota era stata venduta a una grossa compagnia catalana, la Catavins S.A., che stava assorbendo metodicamente vigneti e vignaioli dal Penedés al Piemonte, senza risparmiare nemmeno la Francia e i suoi orgogliosi produttori.
Braccini non era francese, ma era ben più che orgoglioso quando era in gioco la purezza del suo dolcetto di Dogliani. Tuttavia dopo che anche gli altri azionisti avevano ricevuto dalla Catavins offerte impossibili da rifiutare, si era reso conto che la scalata era in atto, rapida e inarrestabile.
Fino a quel momento vi si era opposto con ogni mezzo legale, rivolgendosi persino a uno studio legale di Madrid. Il responso dell’avvocato, tale Licinio Salinas, era stato salomonico: il dolcetto di Braccini era ottimo, complimenti, ma la legge non forniva alcuno strumento per difendersi. Le operazioni finanziarie della Catavins, per quando disdicevoli, erano assolutamente legittime. Dopodiché, prima che la società venisse completamente assorbita, l’avvocato si era fatto mandare un paio di casse per la sua cantina personale.
Salinas, tuttavia, era stato prezioso: in primo luogo, la sua analisi aveva permesso a Braccini di identificare con precisione il nemico. Inutile cercare di rivalersi sull’infido Brusa: sarebbe stato superfluo e tardivo. Il vero avversario di Braccini, in quel momento, era un certo Tomeu Balmes Agosta, manager della Catavins e artefice della scalata alla viticoltura europea. Era stato Balmes Agosta a trasformare un’innocua azienda del Penedés in una sorta di vampiro enologico internazionale. In secondo luogo, Salinas aveva avuto l’ispirazione di far pedinare il manager catalano da un’agenzia di investigazioni private locale che si serviva di ragazzi in motorino stile “pony express”, praticamente invisibili nel traffico. Braccini aveva ricevuto un rapporto completo sulle abitudini del suo avversario.
A quel punto, il sempre meno titolare dell’azienda del dolcetto si era ricordato di quel milanese incontrato alcuni mesi prima a una degustazione di vini: Carlo Medina, ex pubblicitario e “consulente di mercato”. Braccini si era rivolto a lui. Anche in quel caso, il responso era stato salomonico: se non esisteva alcun mezzo legale, bisognava ricorrere a quelli illegali. La vera domanda era fino a dove il brav’uomo intendesse spingersi per fermare la Catavins.
Dolcetto o scherzetto?
Medina occhieggiò le carte disposte sopra le lenzuola. Il diligente investigatore aveva fatto un ottimo lavoro, risparmiandogli mesi di faticosi appostamenti in trasferta. C’era tutto quello che poteva servire per svolgere il lavoro, e anche di più: l’indirizzo di Balmes Agosta a Villafranca del Penedés, la composizione della sua famiglia, le sue predilezioni sessuali… e infine la sede della convention a cui tutti i manager della società avrebbero partecipato nel fine settimana del 15-17 agosto 1997: Gran Hotel Calderón, Barcellona.
Balmes Agosta aveva gusti precisi, in fatto di donne: gli piacevano abbondanti di petto, con la vita stretta, non oltre i vent’anni e molto truccate: praticamente le star ideali per un film di Russ Meyer. Non aveva un’amante fissa, ma ogni volta che lasciava la famiglia nella sua grande casa a Villafranca approfittava della situazione per reclutare ragazze tra le inserzioni sul quotidiano El Periódico, servizio in albergo. Ogni volta il manager portava con sé un paio di bottiglie di spumante prodotto dalla Catavins, un cava catalano di non eccelsa qualità. Non badava a spese per le proprie soddisfazioni, ma per il resto era tendenzialmente avaro. Di sicuro non avrebbe esitato a cogliere la palla al balzo, se gli si fosse presentata l’occasione di passare un’allegra nottata senza dover sborsare una peseta.
Ecco perché da tre giorni nello stesso albergo c’erano due tra le migliori pornoattrici che Medina e la sua assistente Barbara, lei stessa ex diva dell’hardcore, fossero riusciti a trovare in circolazione: Lara, una giunonica ungherese dai capelli neri a caschetto, e Lorna, una bionda francese dalle misure non meno generose. Le ragazze, cui Medina aveva fornito una fotografia del bersaglio, non avevano dovuto fare altro che piazzarsi nella piscina sulla terrazza all’ultimo piano dell’albergo, esporre al sole quanta più pelle possibile e lanciare sguardi alla volta di Balmes quando questi saliva al bar, negli intervalli tra una riunione e l’altra. Il catalano motivava le sue schiere, Lara e Lorna motivavano lui.
Il bersaglio era stato acquisito già nel tardo pomeriggio di venerdì. La sera, ritrovando le ragazze al bar del primo piano, il manager si era fatto avanti offrendo loro da bere. La conversazione si era spostata su temi sempre più personali, aprendo orizzonti di sottintesi: Lara e Lorna si presentavano come due top model dai gusti molto particolari che, occasionalmente, consentivano anche a un uomo di partecipare alla loro intimità. Il sangue di Balmes era già in ebollizione. Ma per quella sera, niente da fare. Se voleva essere della partita, doveva meritarselo.
Il corteggiamento era proseguito sabato sera. Altri giri di drink, ma niente di fatto. E quella era la penultima serata della convention: i lavori si sarebbero conclusi all’ora di pranzo del giorno successivo e lunedì mattina Balmes sarebbe dovuto tornare alla noiosa routine famigliare di Villafranca del Penedés. Tuttavia Lara e Lorna lo avevano lasciato con la promessa che nel pomeriggio di domenica avrebbero fatto il grande passo. Il manager aveva di fronte un piccolo party privato che prometteva di protrarsi fino a notte inoltrata, con due splendidi esemplari del suo tipo preferito di donna.
Medina indossò un completo scuro di Versace su una camicia bianchissima e una cravatta raffigurante Les demoiselles d’Avignon di Picasso. La temperatura dell’aria condizionata, in albergo, favoriva l’abbigliamento formale anche nella stagione estiva. A pranzo, di fronte a un ottimo solomillo e a una bottiglia di Vega Sicilia, Medina tenne d’occhio il tavolo della convention, dove i manager provenienti dalla Spagna, dalla Francia e dall’Italia celebravano allegramente la fine dei lavori. Non c’era dubbio che Balmes non aspettasse altro che di liberarsi dei suoi rumorosi commensali per ritirarsi in camera con Lara e Lorna, che invece erano rimaste in piscina per perfezionare la loro abbronzatura. Lo stesso Medina quasi lo invidiava.
Balmes sarebbe morto felice.
Non restava altro che aspettare. Dopo pranzo, Medina si ritirò nella propria stanza all’ottavo piano, a leggere un giornale sorseggiando rum e Coca-Cola. Si soffermò su un articolo di costume firmato dal corrispondente da Londra del quotidiano. L’argomento era l’inevitabile aggiornamento sulla love story tra la principessa divorziata e il suo nuovo fidanzato, un playboy di origine egiziana la cui ricca e potente famiglia, residente a Londra, non era vista di buon occhio dall’alta società britannica. La notizia della relazione era esplosa da una decina di giorni, con tutta l’eco che la stampa estiva poteva dedicare a una vicenda che forse, in altri momenti, sarebbe passata quasi inosservata.
Il giornalista scriveva:
Può un infaticabile playboy plebeo e divorziato conquistare il cuore di una principessa e diventare il patrigno del futuro re?
L’ipotesi terrorizza molti…
Medina non aveva mai provato alcun interesse nei confronti della lady in questione e non si sentiva terrorizzato da quell’ipotesi. Dopo poco, si assopì.