Tra i cicli pianistici di Schumann, le Scene infantili occupano certamente il primo posto in quanto a popolarità. La loro grandezza consiste in un discorso compositivo semplice solo in apparenza, dietro al quale si nasconde un mondo sonoro di straordinaria coerenza. Da qui nasce la necessità di indagare, in maniera sistematica, alcuni fra i principali parametri compositivi, così da indicare all’interprete, ma anche al musicologo e allo studente di armonia o di composizione, almeno una possibile chiave di lettura di questi tredici piccoli capolavori mostrando quell’impercettibile ma solidissimo “filo rosso” che li tiene fra loro uniti, come parti di un tutto inscindibile.
Primo capitoloINTRODUZIONE
Piccole cose belline... coserelline spassose
di Fabio Sartorelli
Che cosa rende poetica una composizione musicale? È possibile misurarne oggettivamente il grado di poeticità o la sua temperatura emotiva?
Se ai lettori di oggi simili domande possono sembrare oziose, a quelli ottocenteschi sarebbero apparse invece del tutto pertinenti, accanto ad altre perfino più spinose: cos’è la musica? In cosa consiste la sua natura? A cosa si deve la sua forza incantatrice? E via di questo passo… Si trattava di quesiti dal fascino irresistibile, quasi quanto l’oggetto stesso da cui scaturivano.
Seppur vecchi come Noè, i misteri della musica non avevano mai sollevato tanti motivi di riflessione come nel corso del XIX secolo, né modalità tanto diverse nell’affrontarli: si va dai saggi filosofici, spesso debordanti verso pagine di natura misticheggiante, a quelli di critica musicale; dalle opere letterarie di fantasia, con i loro piccoli eserciti di musicisti disadattati, folli e visionari, agli studi d’analisi spesso concentrati su aspetti di natura formale. E ancora: si passa dalle brevi poesie, rese immortali più che dalla qualità dei loro versi, dalle melodie che le accompagnano, ai dipinti sospesi fra la dimensione pubblica del concerto e quella privata della haus-musik. E accanto a tutto questo troviamo gli sfoghi epistolari, i diari privati, le opere di scultura e perfino quelle architettoniche, al cui vertice sta, forte come il tempio del Walhalla, il teatro wagneriano di Bayreuth.
Insomma non una, ma dieci, cento... mille maniere diverse per affrontare un tema di difficile se non d’impossibile soluzione: cos’è la musica? E cosa la rende così poetica?
In più di un’occasione, nelle pagine della Nuova Rivista Musicale, o nelle lettere all’amatissima Clara Wieck, Robert Schumann tentò di dare una risposta a questi interrogativi percorrendo di volta in volta le vie più diverse. In un articolo del 1835 intitolato Lo Psicometro, il musicista ci parla dell’invenzione di un fantasioso apparecchio “scientifico” di un certo Magister Portius (un nome dai forti debiti hoffmanniani), in grado di determinare il grado di “poeticità” di una composizione, ma anche la bontà dell’ispirazione di chi l’ha concepita. Ebbene, Schumann passa al vaglio dello Psicometro alcune pagine per pianoforte composte da esordienti compositori tedeschi e, nel riportarne dei sintetici giudizi, conclude con queste annotazioni:
a) «restando isolati si possono produrre delle buone cose ma non ci si può aspettare l’eccellenza»;
b) «anche se non è sostenuta dal talento, la buona volontà nuoce all’arte meno di un ingegno presuntuoso e arrogante»;
c) «i salti disordinati dei poetici coboldi [spiritelli della mitologia tedesca, abitanti presso al focolare] sono da preferire di gran lunga a dieci dotti con lo sguardo vuoto e il naso a punta».
Ora, anche se figli dello sguardo critico del musicista rispetto alle opere esaminate, alla resa dei conti questi tre punti altro non sono che pochi ma fondamentali consigli rivolti a dei giovani sconosciuti desiderosi d’intraprendere la strada dell’arte. Nemmeno lontanamente sfiorano il cuore del problema, forse perché nessuna di queste pagine permetteva di scendere un po’ più in profondità.
Tutto cambia, invece, quando ai frutti ancora acerbi di questi musicisti in erba si sostituiscono i capolavori indiscussi di un Mozart, di un Beethoven, di uno Schubert, di uno Chopin o di un Mendelssohn, ovvero la ricca e luminosa costellazione di musicisti eletta da Schumann nelle immaginarie fila della “Lega dei Fratelli di Davide”, da sempre nemica dei Filistei dell’arte. È dall’esame delle loro opere che il compositore tedesco ci regala una più precisa idea di ciò che è “poetico”, e quindi, per esclusione, di ciò che non lo è.
Torniamo dunque alla domanda più forti e convinti di prima: cosa rende “poetica” una musica nel pensiero di Robert Schumann?
Ecco, in sintesi, la risposta:
a) ciò che non è meccanico, comune e convenzionale;
b) ciò che è il riflesso di una rara ed eletta disposizione d’animo;
c) ciò che ha un carattere proprio, unico, inimitabile;
d) ciò che sgorga dalla più oscura profondità dello spirito e introduce perciò in un mondo superiore.
Chiunque di noi provasse a sommare a), b), c) e d), scoprirebbe che, in definitiva, la dimensione del “poetico” coincide con la definizione di “romantico”, un concetto che al tempo di Schumann non si riferiva a un stile o a un’epoca, ma a delle specifiche qualità della musica. Il che, naturalmente, non ci porta affatto alla conclusione del problema, anzi... basterà ricordare come, scrivendo a suo fratello Wilhelm, Friedrich Schlegel, uno dei padri del romanticismo, si dicesse dispiaciuto di non potergli inviare la sua personale definizione del termine, in quanto gli era riuscita lunga centoventicinque pagine. Una comunicazione che suona come una resa implicita: il romanticismo – sembra dire il buon Friedrich – con le sue mille sfumature, le sue mille contraddizioni, le sue mille varianti nazionali, è movimento che sfugge a qualsiasi tentativo di definirne i contorni.
Potremmo fermarci qui, e in fondo anche arrenderci, se non fosse che muovendo ancora qualche passo, scopriamo che da Schlegel, Schumann aveva mutuato un principio estetico posto a fondamento della poesia, e che il compositore trasla a fondamento della musica (soprattutto della propria). Si tratta del Tiefcombinatorische, termine traducibile come «combinatorio profondo» ossia la facoltà di «combinare poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia ingenua e di riempire e saturare le forme dell’arte col più vario e schietto materiale di cultura animandole con vibrazioni di humor». La qual cosa, senza escludere nessuno dei punti elencati prima, aggiunge la possibilità di ricombinare in forme nuove tutto il mondo sonoro, da quello preesistente a quello nascente, alla ricerca di quello humor che poi non è altro che la risultante più schietta di tali “profonde combinazioni”. Accade allora che Palestrina, Bach, Beethoven, Schubert, lo stesso Schumann, ma anche E.T.A. Hoffmann, Pantalone, Arlecchino, Chiarina, o il “c’era una volta” delle “Scene infantili” o dell’“Album della gioventù”, inaspettatamente s’incontrino, in quell’Altrove scaturito all’atto della creazione e dai capricci ingovernabili di ciò che più tardi Freud avrebbe definito l’inconscio.
E qui mi fermo, non solo per non spazientire i miei lettori ma anche perché sono certo che chi frequenta la musica di Schumann, e i toni sempre mutevoli della sua narrazione, ora fantastica, ora epica, ora malinconica, ora popolare, ora alta..., abbia quantomeno intuito il senso di questo combinatorio profondo.
Mi piace, invece, in questo contesto e a questo punto preciso della mia introduzione, sottolineare lo scarto che spesso intercorre fra le parole di chi, come me o l’autore del libro che avete fra le mani, si affanna a comprendere il segreto di un’opera d’arte, e la spontanea naturalezza degli annunci che ne costituiscono l’atto di nascita.
Scrive Robert Schumann nel suo diario:
Lunedì, 12 febbraio 1838, composto alcune piccole cose belline. Fino a sabato 17 composto Kinderszenen. 24 febbraio: composto coserellina Träumerei. Domenica 25 febbraio: la sera di nuovo una Kinderszene in fa maggiore, che mi sembra molto bellina. Del resto la mia ragazza mi fa tanto felice.
Una cinquantina scarsa di parole per dire che queste Kinderszenen sono «piccole cose» e che sono «belline». Il brano più famoso della serie, Träumerei, una paginetta su cui si sono affannati, e ancora si affannano, i più grandi pianisti di ieri e di oggi, è definito una «coserellina». La ragazza che lo rendeva tanto felice era ovviamente la già menzionata Clara Wieck, musa ispiratrice e al tempo stesso speranza per un futuro all’insegna dell’unione familiare:
Era un’eco delle parole che mi hai scritto una volta, che “a volte ti sembro un bambino” – in breve mi sentivo fanciullo e ho scritto circa trenta coserelline spassose, ne ho scelte dodici e le ho chiamate Kinderszenen. Ti piaceranno, ma devi dimenticarti di essere una virtuosa.
Le Kinderszenen sono – le scriverà pochi mesi più tardi – soavi, delicate e felici come il nostro futuro.
Ancora con questa storia delle «coserelline», per giunta ora definite perfino “spassose”. E va bene... il Genio ci guarda sempre dall’alto in basso, tranne quando si rivolge a noi, poveri mortali, per questioni d’affari (cose pur sempre importantissime!). Nella lettera di accompagnamento al suo editore, Schumann ne parlò nei termini di «piccoli pezzi» molto adatti «per regali». Potrà anche sorprendere il suo improvviso pragmatismo commerciale ma, del resto, come dargli torto? Sono pezzi brevi e soprattutto tecnicamente facili da suonare, sicché se stampati con cura – Schumann ne era certo – si sarebbero potuti vendere bene, cosa che in effetti puntualmente si verificò: le Kinderszenen si diffusero molto più rapidamente di tante altre pagine del musicista. Ma al tempo stesso, o forse proprio per questo, finirono con l’essere spesso fraintese. Una delle prime recensioni le trattò alla stregua di piccoli pezzi descrittivi: ci sono dei bambini che strillano e un musicista che si affanna a ricavarne dei suoni. Nel leggerla Schumann andò comprensibilmente su tutte le furie, e pur non negando di avere avuto in mente delle teste di bimbi, si premurò di far sapere alla sua Clara che i titoli arrivarono solo dopo, al termine dell’atto compositivo, e unicamente come «indicazioni più sottili per l’interpretazione e la comprensione».
Anche per via di questi fraintendimenti storici, duri a morire, e per la necessità di giungere a una maggiore consapevolezza interpretativa, non solo attraverso i titoli ma anche per mezzo di un’analisi accurata, trova piena giustificazione questo lavoro di Sergio Bianchi, didatta di cui si ammirano la chiarezza, la dottrina e, mi sia concesso, la tenacia. Già, perché la prima redazione di questo libro risale a ben 22 anni fa, ma conoscendo l’uomo, posso solo immaginare le volte in cui sarà tornato a riflettere su quelle pagine e a sforzarsi di capire come migliorarle.
Ed ora eccolo finalmente qui, fra le vostre mani, riveduto e corretto. Attraverso le sue pagine i lettori possederanno anche lo scheletro di questi piccoli, miracolosi gioielli sonori e, assieme allo scheletro, la loro cifra armonica e stilistica. Resterà invece intatto – Bianchi non se ne avrà certamente a male se mi esprimo così – il mistero della loro “poesia”, ma del resto quest’ultimo è destinato a sfuggire a qualsiasi strumento d’indagine, anche allo Psicometro di Magister Portius. D’altronde sono certo che nemmeno lo stesso Schumann, se fosse qui ora, ce lo spiegherebbe. Ci ripeterebbe piuttosto fino alla nausea che queste Kinderszenen sono «coserelline», che sono «belline» e magari persino tecnicamente «faciline». Perché sì, in fondo Schumann fra le righe ha detto anche questo, quando il 13 aprile del 1838 con una certa autoironia scriveva:
Le Kinderszenen mi piacciono molto, quando le suono faccio molta impressione, soprattutto a me stesso.
E se insistessimo, probabilmente ci guarderebbe severo, e con le stesse parole usate per chiudere la sua analisi della Sinfonia Fantastica di Berlioz (un’analogia d’intenti che qui sento l’urgenza di sottolineare), ci intimerebbe di fermarci perché...
l’uomo ha [o dovrebbe avere, l’inciso è mio] una particolare ritrosia davanti al lavoro del genio: non vuole [o non dovrebbe] sapere affatto delle cause, dei mezzi e dei segreti del creare, nello stesso modo che la natura manifesta una certa delicatezza, quando ricopre con la terra le sue radici. Si richiuda così, l’artista col suo dolore creativo; verremmo a sapere cose spaventose se potessimo vedere fino al fondo della genesi di ogni opera.
Più chiaro e intimidatorio di così, davvero, non poteva essere.