Pippo Ruiz
Le metamorfosi dell'Haiku

Le metamorfosi dell'Haiku
Prezzo Fiera 12,00
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«L’haiku ha uno schema semplice, 5-7-5, che serve a esprimere l’esattezza dell’evento. […] L’haiku ti concede di giocare il gioco dell’ironia, della parodia, e persino della ricreazione in altra forma della struttura metrica elementare. […]»

«Puoi giocarci, con l’haiku, ma lo devi rispettare: come in un esercizio di geometria, vanno misurate le distanze, i rapporti calcolati al millesimo, il disegno compiuto. Ecco allora che l’haiku regala il più entusiasmante dei piaceri: quello della metamorfosi. Puoi affrontare la severità dell’haiku […] solo se ritrovi l’incoscienza del bambino, se assumi la posa laterale del matador, per offrire solo il fianco al toro, oppure usando la strategia di Perseo per uccidere Medusa: attraverso uno specchio che, come quello di Alice, ti trasporta in altri mondi.»

Primo capitolo

Giocando con l’haiku

Ciò che ha sempre caratterizzato l’haiku, antica
forma poetica giapponese, è l’utilizzo di una
struttura minima “vuota”, che riesce a ottenere
il massimo del “pieno”. Si presenta, in originale,
scritto su una sola colonna, verticale, mentre
in traduzione si offre in tre versi: il primo costituito
da cinque sillabe, il secondo da sette, il
terzo da cinque. Un rigore metrico e sillabico
che equivale al rigore della forma orientale.
Storicamente, l’haiku è solo una delle forme
brevi della poesia giapponese, che globalmente
prendono il nome di “waka” e possiedono una
unità metrica prestabilita detta “tanka”, la quale
si offre sin dall’antichità con la struttura metrica
5-7-5-7-7, in cinque versi dunque. Dal
tanka si stacca l’haiku, conservando per secoli la
sua brevità legata ai tre versi. È una storia complessa,
che attiene alle infinite scuole poetiche
giapponesi, e che risulta distante dalla nostra
percezione occidentale – possiamo farcene un’idea
solo se le accostiamo alle botteghe d’arte di
rinascimentale memoria. La regola del conteggio
e del rispetto delle sillabe corrisponde al
numero di “onji”, gli ideogrammi dell’alfabeto
giapponese; tale sistema nasce dalla mancanza
dell’accento tonico nella lingua giapponese, assenza
che preclude perciò la classica scansione
ritmica che per noi occidentali è la prima fonte
di ogni lettura.
Oggi l’haiku tradizionale è scritto nel vecchio
codice sillabico, ma a partire dal 1946 si è
via via diffuso il nuovo codice che costituisce,
di fatto, un sistema di notazione scritta del tutto
nuovo: lo scopo è stato quello di avvicinare
le nuove generazioni a una forma che, nella sua
classicità, rischiava di diventare sempre meno
comprensibile, sempre più paludata.
Il modello, insuperato, rimane comunque
quello del maestro Basho (1644-1694), il quale
stabilì sia la struttura fonetica sia la necessità
del riferimento stagionale all’interno dell’haiku.
L’haiku diventa autonomo e più esposto ai venti
della filosofia e della spiritualità orientale.
Tra vuoto e pieno, il senso si definisce nella leggerezza
e nella trasparenza, ed è l’indugio a dare
forma a quel senso.
Un’operazione, questa, che è stata paragonata
al koan zen, che addensandosi su una parola
crea un’“illuminazione”. «Interpretare lo
zen come un vangelo della contemplazione è
del tutto sbagliato, né è il modo giusto di leggere
l’haiku di Basho, ben lontano dall’essere esaltazione
della tranquillità […] Un haiku non
esprime idee, ma propone “immagini che riflettono
intuizioni”» (Suzuki 2014, p. 201).
È comunque fuori discussione l’intreccio del
pensare haiku col pensiero zen, che si batte,
appunto, contro la prevaricazione del senso: è
impossibile il significare perché nel paradigma
buddista ogni cosa è e non è, può essere e può
non essere. «Per scegliere il suo successore, il
quinto patriarca del buddhismo zen chiese ai
suoi monaci di scrivere una poesia che esprimesse
cos’era secondo loro il risveglio. Il monaco
anziano scrisse la sua, in cui diceva che la
mente è come uno specchio su cui si raccoglie
la polvere, e il problema è come toglierla. C’era
un giovane nella cucina del monastero, Huineng,
che era analfabeta ma si fece leggere la
poesia. Quando la sentì disse che lui poteva
scriverne una molto migliore. Allora gli chiesero
di recitarla e la trascrissero; la poesia diceva:
Dov’è lo specchio, e dov’è la polvere?» (Suzuki
2014).
La cosa appare, e noi ne siamo parte. E
l’haiku classico è costituito da brevità e da vuoto,
senza significazione. Esso mostra, e ciò che
ci offre non è un simbolo, ma un’apparizione,
un divenire. Parise descrive questa esperienza,
l’abbiamo visto, con lo stupore della prima vol9
ta: l’estrema economia delle parole agisce sulle
radici del senso e fa sì che non fiorisca, nella
struttura metrica, nessuna metafora, nessun
simbolo. Lo schema 5-7-5 serve a esprimere l’esattezza
dell’evento, non siamo davanti a una
semplice forma breve che descrive. L’haiku non
descrive mai, fa “apparire” la cosa e nei suoi interstizi
si delinea un pensiero vuoto. «L’haiku
giapponese non ha bisogno di essere lungo, elaborato
e intellettuale: rifugge una costruzione
fondata su concetti o idee. Se ricorre alle idee, il
suo legame diretto con l’Inconscio viene tarpato,
guastato, interrotto: la sua vitalità “rigenerante”
si perde per sempre. L’haiku cerca pertanto
di presentare le immagini più appropriate
per richiamare nel modo più vivido possibile
l’intuizione originaria» (Suzuki 2014, p. 204).
Se ne deduce che occorrerebbe, per una più
completa comprensione dello spirito zen e di
conseguenza dell’haiku, una conoscenza particolarmente
approfondita di tutto il sistema filosofico,
spirituale e letterario orientale; molti lo
hanno fatto, e si continua ancora a subire il fascino,
in Occidente, di questo vasto mondo di
segni. E però si è costretti ad ammettere che
quando in Occidente facciamo riferimento all’esperienza
spirituale, le nostre coordinate cul10
turali si orientano sulla contemplazione, o sul
sentimento, o su una fenomenologia psicologica,
mancandoci alcuni fondamenti che invece
occupano l’intera spiritualità orientale: «Noi ci
concepiamo soltanto come degli ego, dei me e
la possibile scomparsa di quel me è il fondamento
della nostra angoscia, di tutte le nostre
angosce. Così ci aggrappiamo disperatamente a
tutto quello che può farci sperare nella continuazione,
nella sua sopravvivenza. Noi ci vogliamo
immortali, se non eterni, dimenticando
che, come osserva il buddhismo ed enuncia
chiaramente la stessa natura, tutto quello che è
nato deve morire. Quello che può rimanere dopo
la morte non può dunque essere ciò che è
nato, ma quello che esisteva prima di questa
nascita, il desiderio di esistenza che si era materializzato,
incarnato in e con la nascita. Soltanto
questo desiderio di esistenza, insoddisfatto di
questa vita che ha vissuto e che volge al termine,
può reincarnarsi […] In altre parole, dal
pensiero occidentale al pensiero orientale, che
sia induista o buddhista, le prospettive del destino
dell’uomo sono sfalsate. Noi aspiriamo all’immortalità
individuale; per l’Oriente, più logico
e tutto sommato più razionale, è una contraddizione
in termini: non può esistere che
l’eternità impersonale […] Così, il pensiero
orientale è esattamente l’inverso del nostro: in
quello che noi sentiamo come la distruzione di
noi stessi, gli orientali vedono la suprema ricompensa,
la liberazione da ogni sofferenza, la
fine dell’ignoranza» (Brosse 1994, pp. 230-31).
Ciò che qui si vuole evidenziare è la costanza
di una visione del mondo che è stata analizzata
e spesso assunta da psicologi e psicoterapeuti
occidentali. Leggere, per esempio, Daniel
Stern, celebre psichiatra della scuola di New
York, ci costringe a considerare quanto la sensibilità
orientale, incarnata anche nell’haiku, determini
orientamenti clinici e percorsi psicologici
che sembrano provenire direttamente da
quell’altro mondo di cui stiamo descrivendo
solo semplici modelli: «In primo luogo, noi siamo
vivi e coscienti, da un punto di vista soggettivo
solo “ora”. “Ora” è il momento in cui viviamo
la nostra vita così com’è: tutto il resto è
composto, per così dire, da esperienze di seconda
o terza mano. Il solo momento di autentica
realtà soggettiva, di esperienza fenomenica, è il
momento presente […] Quando è “ora”? Che
cos’è “ora”? Esiste veramente un “ora, e se sì,
quanto dura? Com’è strutturato? Qual è la sua
funzione? In che rapporto è con la coscienza, e
con il passato? In che modo genera significato?»
(Stern 2005, pp. 3-4). Sembra di leggere una
riflessione dettagliata di quella intuizione spirituale
che l’haiku trasmette e che non avremmo
mai pensato potesse essere elaborata nella chiave
appena proposta. (Il carattere fondamentale
dell’haiku classico è rendere vivido un accadimento
concreto portandolo all’attenzione della
mente. L’accadimento percepito, per quanto irrilevante
o effimero, non è mai banale, perché
dentro di esso riposa il significato, o meglio
l’assenza di significato dell’esistere).
A precisare e a completare le considerazioni
di Stern, sono fondamentali le osservazioni di
Giangiorgio Pasqualotto nell’introduzione al
citato volume di Brosse: «Il momento presente,
infatti, non è un punto, ma un passaggio, un
modo del divenire, così come una nota musicale
ha un suo tempo che non è isolabile ma
sussiste nel suo esplicarsi che coincide col suo
dileguarsi. L’attenzione al presente si configura
dunque come attenzione alla sua precarietà, al
mutamento, al ritmo di nascita-distruzione;
ciò, tuttavia, non significa giudicare il presente
indigente rispetto al passato o al futuro: coglierne
la precarietà significa cogliere contemporaneamente
la qualità che accomuna “ogni”
momento, sia quelli passati che quelli futuri»
(Brosse 2004, pp. XVII-XVIII).
Sembra che la psicologia, e non solo essa,
abbia saputo appropriarsi, attraverso uno studio
attento del pensiero orientale, delle ferite aperte
del nostro essere che tutta la cultura e il sapere
zen da sempre hanno cercato di curare. Se il
pensiero filosofico, morale e spirituale sotteso
all’haiku si è comunque trapiantato in Occidente,
conservandosi intatto nonostante il diffondersi
di mode, che vedremo tra poco, ci devono
pur essere corde che, opportunamente
toccate, fanno risuonare nel cuore dell’uomo
occidentale il respiro del sentire veicolato, tra le
altre forme, dall’haiku.
Ogni volta che il pensiero occidentale è stato
capace di superare i vincoli dell’io fattuale
(da Empedocle al sufismo, a Plotino e via via
fino ai travagli del neo-empirismo) la consapevolezza
di una liberazione ha sempre gettato
una luce nuova sul pensiero occidentale, ponendolo
di fronte al rigore dell’infinitezza. Andare
oltre Cartesio è stato possibile proprio in
nome di queste nuove consapevolezze provenienti
da Oriente e che ridimensionano, senza
timore di affossarlo, il ruolo dell’ego. Anche
l’haiku ha fatto la sua parte in questo travasa14
mento di sentire orientale, accolto e letto con
grande partecipazione: «Prevedere significa proiettare,
dunque non accogliere quello che viene
così com’è, ma inevitabilmente deformarlo, significa
proiettare se stessi, dunque introdurre
in anticipo nel futuro la propria personalità attuale,
la quale non sarà appunto più la stessa,
significa irrigidirsi e perdere così il beneficio
della flessibile adattabilità naturale, la reazione
spontanea, dunque giusta, dell’avvenimento»
(Brosse 2004, p. 204).
E tuttavia è forte l’impressione che la radicalità
dell’haiku superi le prospettive filosofiche
stesse, perché la sua definizione ultima è quella
di essere espressione di un’“assenza”, al di là
della verosimiglianza, della realtà oggettiva delle
questioni formali, dei rimandi o degli ascendenti.
L’haiku è in grado di diventare patrimonio
del sentire universale proprio perché alla
sua origine vi è l’assenza, e l’assenza è materia
di studio, specie nel Novecento, da Heidegger a
Wittgenstein, dalla fenomenologia al neo-positivismo.
Un’ulteriore declinazione occidentale dell’haiku:
«Andrej Sinjavskij ha definito l’arte
quella cosa che dice la verità per mezzo dell’assurdo
e che conduce alla semplicità. L’arte crea
un luogo di precisione in mezzo al caos, inventando
un linguaggio tramite il quale si possono
amorevolmente osservare i dettagli contingenti
e in cui le verità più ovvie vengono esposte con
semplice autorità. L’incompletezza dello pseudo-
oggetto non influenza necessariamente la lucidità
del discorso che incarna; infatti, i due
aspetti della questione si sostengono idealmente
l’un l’altro. In questo senso, tutta la grande arte
è la critica più profonda di se stessa, e celebra
con enunciati semplici e sinceri la natura discontinua
della propria complessità formale»
(Murdoch 2006, p. 72).
Questa è un’epifania: una sorta di riconoscimento
del fatto che non esistono due culture
(l’occidentale e l’orientale), ma ne è sempre esistita
una soltanto, in cui la parola è il fondamento
comune. Oggi noi possiamo intendere
l’accadere dell’haiku, e provare a riprodurlo,
perché carichi di un pensiero che del vuoto ha
sperimentato la gravità e l’angoscia. L’haiku, in
questo contesto, rimane un modello inarrivabile
di leggerezza e di perfezione. Questa sofisticata
operazione insieme letteraria e spirituale,
come abbiamo visto, ha molto affascinato noi
occidentali a prescindere dalle correnti filosofiche
che lo hanno sottinteso e di cui si è appena
detto; noi che invece affidiamo al pieno della
parola e non al vuoto dell’intervallo la comunicazione,
attraverso la combinazione di una sintassi
complessa e di una materia altrettanto articolata.
Al già citato Parise si può aggiungere, a caso,
il sofisticatissimo L’impero dei segni di Roland
Barthes: «L’autore non ha mai, in alcun senso,
fotografato il Giappone. È avvenuto piuttosto il
contrario: il Giappone l’ha “costellato” di molteplici
lampi; o meglio ancora: il Giappone l’ha
messo nella condizione di scrivere. Questa condizione
è quella stessa in cui avviene una certa
vibrazione della persona, un ribaltamento delle
vecchie letture, una scossa del senso, lacerato,
estenuato sino al suo vuoto insostituibile, senza
che l’oggetto cessi mai d’essere significante, desiderabile.
La scrittura è, in definitiva, a suo
modo, un satori; il satori (l’accadere zen) è un
sisma più o meno forte (per nulla solenne) che
fa vacillare la conoscenza, il soggetto: provoca
un “vuoto di parola”. Ed è anche un vuoto di
parola che costituisce la scrittura; è da questo
vuoto che nascono quei tratti cui lo zen
nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i
gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza»
(Barthes 1984, pp. 7-9).
Negli ultimi due secoli, sul “fronte occidentale”
l’haiku è stato oggetto di raffinate analisi,
e ne abbiamo portato qualche esempio appena,
ma anche di fascinazioni intellettuali e sentimentali
che hanno suggestionato autori come
Giuseppe Ungaretti, Edoardo Sanguineti, Jack
Kerouac, Paul Éluard, Ezra Pound, fino a spingerli
a cimentarsi in quest’arte apparentemente
facile. Così facile, apparentemente, che basta
digitare su Google la parola “haiku” per scoprire
che esistono, in Italia e nel mondo, scuole di
scrittura, concorsi, fan club, progetti scolastici,
corsi per anziani che utilizzando la tecnica del
5-7-5 concorrono a snaturare la bellezza della
forma poetica: l’haiku è diventato, nell’uso occidentale,
una sorta di suggerimento new age
per raggiungere stati d’animo di serenità, di
contemplazione, di misticismo all’ombra di
mandorli in fiore o sul bordo di laghetti luminosi
(ah, dimenticavo il gracidio della rana in
riva al fiume o al lago).
Fortunatamente le sperimentazioni legate alla
struttura dell’haiku hanno incontrato personalità
di rara sensibilità, capaci di coglierne e
rappresentarne, o metamorfosizzarne, il senso,
fedeli all’essenza della struttura morale prima
che metrica. L’incontro tra John Cage e l’haiku
è stato tra i risultati più convincenti dell’osmosi
cui si accennava. I Seven haiku for piano sono il
tentativo di chiarificare la struttura sia con i
suoni sia con i silenzi. Servendosi dell’indeterminazione
come mezzo espressivo musicale ha
ancorato il suo pensiero musicale al pensiero
dell’haiku: escludendo la determinazione di parametri
come l’altezza, il timbro, la durata, l’intensità,
Cage fa entrare l’esecutore nella struttura
formale dell’opera così come, nell’haiku
orientale, chi scrive è presenza, parte della descrizione.
Il suono è rarefatto, isolato, privo di
tensione: Cage ha tenuto presente, superando i
vincoli della concezione del tempo musicale occidentale,
la struttura circolare del tempo musicale
orientale, la stessa sospensione e la stessa
compiutezza (si pensi al gamelan indonesiano,
che è una sequenza circolare infinita: comincia
dove finisce; e si pensi, divagando, a come anche
il pensiero musicale occidentale, medievale,
sia nato da tale circolarità; o ancora, giocando,
all’inizio dei Quattro quartetti di Thomas S.
Eliot: “Nel mio principio è la mia fine / nella
mia fine è il mio principio”).
Il tempo eterno e immanente della musica
orientale, e dell’haiku, travolgono, nell’esperimento
di Cage, il tempo psicologico soggettivo
della musica occidentale: ciò che si manifesta,
in Cage e nell’haiku giapponese, poggia sullo
spazio, che è silenzio nell’uno, vuoto nell’altro.
Uno spazio indeterminato, pronto ad accogliere
l’evento, la “cosa che appare”. Pochi intellettuali,
oltre Cage, sono stati capaci di produrre
pensiero al di là del soggetto, superando l’estetica
moderna occidentale che, soprattutto dal
romanticismo in poi, si propone di esprimere il
sentire individuale e la sua capacità di arricchirsi
di contenuti. Una delle metamorfosi dell’haiku
ha determinato la disarticolazione di conquiste
secolari: grande merito, indiscusso, di
questa forma delicata e leggera.
Ma, dicevamo, solo gli intellettuali di razza
si sono cimentati con successo nell’haiku.
Forse era inevitabile: tutto ciò che il consumismo
tocca viene stravolto, deviato, ne consegue
un fraintendimento del significato. Fraintendimenti
ai quali si assiste ormai nello stesso
ambiente letterario giapponese; la modernità ha
toccato anche la poesia classica e si sono diffuse
esplorazioni, contaminazioni, nel gergo e nei
modi, comuni al nostro sentire occidentale: insomma,
c’è un “dibattito culturale” in corso,
oggi, in Giappone, attorno all’haiku e alle forme
brevi della poesia classica. Siamo stati bravi,
noi occidentali, a estendere la modernità perfino
in un territorio fino a poco tempo fa considerato
sacro e immutabile. Il fulcro del dibattito
è costituito dall’opportunità di usare la lingua
letteraria o la lingua parlata nelle forme
poetiche classiche. Il codice letterario classico
sta diventando sempre meno comprensibile alla
gran parte dei lettori, e perciò si corre il rischio
di ridurre il consenso e il piacere della poesia
tra le classi che non possiedono più gli strumenti
adeguati per apprezzarla, pur essendo il
genere letterario della poesia molto più diffuso
che in tanti altri paesi, asiatici e occidentali.
Rimane un dato di fatto che molti poeti utilizzano,
anche nelle forme tradizionali, la lingua
parlata, a dispetto dei cultori del genere poetico
che in Giappone vanta tradizioni millenarie. E
inoltre si preferisce “dibattere” sulle contaminazioni
tra testi letterari e testi hip hop o rap o
pop. Non è più tempo di strutture, insomma,
né di un immaginario organizzato su modelli
arcaici.
Il danno che l’haiku ha subito in questo utilizzo
mercantile non è di poco conto: la piccola
poesia è materia fragile, troppo sofisticata per
reggere l’urto delle scuole “popolari” di haiku.
Fragile, sofisticata, sì, ma la sua eleganza forma21
le, se opportunamente coltivata, si trasforma in
una pietra dura e insieme in un “oggetto d’arte”
che si offre ai più disparati esperimenti; la
gioia che il componimento regala a chi vi si dedica
con passione è grande. Puoi giocarci, con
l’haiku, ma lo devi rispettare: come in un esercizio
di geometria, vanno misurate le distanze, i
rapporti calcolati al millesimo, il disegno compiuto.
Ecco allora che l’haiku regala il più entusiasmante
dei piaceri: quello della metamorfosi.
Puoi affrontare la severità dell’haiku proponendoti
di giocarci (ma seriamente) solo se ritrovi
l’incoscienza del bambino, se assumi la posa laterale
del matador, per offrire solo il fianco al
toro, oppure usando la strategia di Perseo per
uccidere Medusa: attraverso uno specchio che,
come quello di Alice, ti trasporta in altri mondi.
Poi cominci. E, per anni, il tuo cammino
s’incrocia, ogni giorno, con una visione del
mondo trasparente e leggera; ogni giorno le dita
contano il pensiero: 5, no, siamo a 6, ricominciamo,
ecco, sì, il pensiero è compiuto, e la
concentrazione ti risucchia fino a darti il mal di
testa, ma la gioia dell’haiku è un sollievo insospettato.
Per anni, vedi il mondo attraverso lo
specchio della condensazione del pensiero, ti fai
mente, astrazione, e insieme scopri che la luce è
più vivida, il mare più chiaro, il sorriso degli
amici più fresco. Anche il silenzio, di notte o in
attesa in auto che scatti il verde al semaforo, si
popola di immagini, suoni, odori, sensazioni
che poi, nella elaborazione mentale della metrica,
si imprimono nella mente come ricordi.
A volte, improvviso, un certo disorientamento
spazio-temporale ti ricorda che l’apertura
al mondo può essere dolorosa. Però ne
viene un ritorno di immagini dal profondo della
coscienza che ripaga dello smarrimento.
L’esercizio dell’haiku spiazza il pensiero razionale
nel momento stesso in cui sei costretto a
utilizzarlo per stendere, nel vuoto, le sillabe. Per
anni, l’impegno a non passare dal segno al simbolo,
per non vanificare il patto con l’haiku,
costringe a una vulnerabilità inquieta, come se
il riposo nel simbolo garantisse finalmente un
approdo tranquillo; ma tornare all’impegno assunto,
e alle dita che contano le sillabe, senza
altro fine che raccontare il segno, concede
un’intensa evocazione di immagini, emozioni,
sentimenti. Le “porte della percezione” sono
aperte con grazia, e ogni immagine le attraversa
come se superasse delle porte di ingresso, e le
sillabe si stagliano nel vuoto. Nessun processo
di individuazione, però, nessun simbolismo
junghiano: solo il pensiero che si apre in immagine,
e le dita che contano. Per anni.
Poi ti rendi conto che l’haiku ti sorride, e ti
concede di giocare il gioco dell’ironia, della parodia,
e persino della ricreazione in altra forma
della struttura metrica elementare. Ti sei conquistato
la libertà di immaginare oltre la struttura,
di pensare in un’altra forma, di trasformare
il tuo cammino, accompagnato dal
sorriso dell’haiku. Ovidio sapeva che è la forma
a consentire le mille varianti del senso: anche
l’haiku lo sa.

Specifiche

  • Pagine: 240
  • Anno Pubblicazione: 2019
  • Formato: 110x170
  • Isbn: 9788868993542
  • Prezzo copertina: 15,00 €

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